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Risultati immagini per immagine doloreL’obbligo della protezione della filiazione, ovverosia il diritto del figlio ad essere educato e mantenuto (obbligo conseguente alla procreazione) significa, per il figlio, poter condividere, fin dalla nascita, con il proprio genitore la relazione filiale, sia nella sfera intima ed affettiva, di primario rilievo nella costituzione e nello sviluppo dell’equilibrio psico-fisico di ogni persona, sia nella sfera sociale, mediante la condivisione ed il riconoscimento esterno dello status conseguente della procreazione.
Evidente, quindi, per la Cassazione – sentenza 22 novembre 2013 n°26205, l’automatismo tra procreazione e responsabilità genitoriale. Da tale elemento si deve dedurre, come nella vicenda in esame, il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore. Detto ancor più chiaramente, il presupposto della responsabilità, e del conseguente diritto del figlio al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, è individuato nella consapevolezza del concepimento, consapevolezza che non si concretizza semplicemente con la certezza assoluta derivante dalla prova ematologica, ma anche con altri rilevanti dati di fatto, come, ad esempio, la coincidenza temporale» relativa all’esistenza di una relazione a carattere affettivo e sessuale tra la madre dei due ragazzi e l’uomo.
Ergo, qualora l’uomo ha avuto piena possibilità di essere consapevole della probabilità della propria paternità, ma ha preferito ignorare tutti i segnali, lasciando così i ragazzi privi della figura paterna e delle cure necessarie. E ciò ha provocato nei due figli un grave stato di sofferenza psicologica, derivante dalla privazione ingiustificata della figura paterna, con ripercussioni personali e sociali derivanti dalla consapevolezza di non essere mai stati desiderati ed accolti come figli.
Di qui, accertata giudizialmente la paternità,il diritto al risarcimento fissato, nell’importo di € 150.000,00 per ogni figlio,  conseguente al vuoto emotivo, relazionale e sociale, provocato dall’assenza paterna, fin dalla nascita nella vita dei due ragazzi.

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Risultati immagini per immagine motherDue coniugi, separandosi consensualmente, convenivano l’affidamento condiviso dei due figli minori con collocamento paritario presso le diverse abitazioni in cui all’epoca, ciascuno di loro risiedeva.

Il Tribunale, adito in sede di modifica delle condizioni di separazione, respingeva, all’esito di una CTU, la domanda con cui la madre aveva chiesto il loro collocamento presso di sé; accoglieva, invece,  la contrapposta domanda di collocamento dei minori presso il padre.

Di diverso avviso Corte di Appello, che in accoglimento del reclamo proposto della madre, disponeva il collocamento prevalente dei figli presso di lei, in ragione dell’età dei bambini.

Avverso il predetto decreto il padre proponeva senza successo ricorso per cassazione, denunciando, in particolare, il fatto che i magistrati di secondo grado, in violazione dell’art. 337-ter c.c., avevano applicato il criterio presuntivo della c.d. Maternal preference conculcando così in concreto l’interesse morale e materiale dei figli.

Tuttavia, per la prima sezione della Corte di Cassazione, sentenza 14 settembre 2016 n. 18087 il ricorso è infondato: la Corte di Appello aveva diffusamente e plausibilmente spiegato le ragioni per le quali doveva essere privilegiato il collocamento dei due minori in tenera età presso la madre, con ciò realmente perseguendo il primario interesse morale e materiale dei minori, pur doverosamente e contestualmente armonizzato coi fondamentali diritti individuali, esercitabili ed esercitati da ciascuno dei genitori.

In tale ottica, alla luce della risultanze della perizia di ufficio svolta in primo grado è stato non solo plausibilmente valorizzato il criterio della c.d. maternal preference, la cui teorica valenza scientifica il ricorrente non ha tempestivamente contestato, ma è stata anche esclusa legittimamente, argomentatamente e del pari, comprensibilmente, l’incapacità genitoriale materna, inquadrando la vicenda e le condotte della madre nell’emerso e delicato contesto familiare e professionale, che peraltro, avrebbe pur consentito ad entrambi i coniugi, e non solo alla reclamante, di perseguire riavvicinamenti, tramite rinnovate scelte di sedi lavorative, invece da ambo le parti mancate.

D’altro canto il coniuge separato che intenda trasferire la sua residenza lontano da quella dell’altro coniuge non perde, solo per ciò, l’idoneità ad avere in affidamento i figli minori o ad esserne collocatario poiché stabilimento e trasferimento della propria residenza e sede lavorativa costituiscono oggetto di libera e non conculcabile opzione dell’individuo, espressione di diritti fondamentali di rango costituzionale.

Sulla scorta di tali elementi il giudice del merito è tenuto esclusivamente a valutare se sia più funzionale all’interesse della prole il collocamento presso l’uno o l’altro dei genitori, per quanto ciò, ineluttabilmente incida in negativo sulla quotidianità dei rapporti con il genitore non affidatario.

E ciò in quanto tra i genitori che vivono in città lontane deve essere  preferito quello che più soddisfa l’interesse della prole.

E quindi evidente, ad avviso della Cassazione, che le censure del ricorrente si sostanziano in rilievi critici o non decisivi anche perché si incentrano su valutazioni piuttosto che su fatti storici che le fondano o smentiti dal tenore del provvedimento o generici, assiomatici e privi di autosufficienza, essenzialmente appuntati sull’iter argomentativo dell’impugnata pronuncia e come tali inammissibili.

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Risultati immagini per immagine father sonAllorché sussista conflitto genitoriale in ordine al prevalente collocamento dei figli, il criterio “guida” che deve guidare il Giudice, secondo il Tribunale Civile di Milano – sentenza 13 ottobre 2016, G.I. dott. Buffone –  è il superiore interesse del minore, non potendo al contrario trovare applicazione quello che alcuni definiscono come “principio della maternal preference” (nella letteratura di settore: Maternal Preference in Child Custody Decisions), poiché criterio interpretativo non previsto dagli articoli 337-ter e ss del codice civile ed in vero in contrasto con la stessa ratio ispiratrice della legge n°54 del 2006 sull’affidamento condiviso.

Invero, il principio di piena bigenitorialità e quello di parità genitoriale hanno condotto all’abbandono del criterio della “maternal preference” a mezzo di «gender neutral child custody laws», ossia normative incentrate sul criterio della neutralità del genitore affidatario, potendo dunque essere sia il padre, sia la madre, in base al solo preminente interesse del minore. In altri termini, per individuare il genitore di prevalente collocamento non può essere attribuita alcuna preferenza all’uno o all’altro ramo genitoriale.

Normative del genere sono univocamente anche quelle da ultimo introdotte in Italia dal Legislatore (in particolare la legge n°219 del 2012 e il decreto legislativo n°154 del 2013).

Peraltro, non è argomento valido quello ricavabile dalla recente sentenza della Cassazione n. 18087 del 14 settembre 2016: in quel caso, come si legge nella decisione di legittimità de qua, il criterio della c.d. Maternal preference non era stato “tempestivamente contestato” ed era divenuto, dunque, elemento passato in giudicato; comunque, la Suprema Corte ha fondato la sua decisione non certo sul solo criterio sopra indicato, ma su altri numerosi argomenti, specificamente indicati in parte motiva.

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[:it]Risultati immagini per immagine libri uno sopra

La seconda sezione della Corte di Cassazione, con sentenza 20 ottobre 2016, n. 21297, dichiara inammissibile, ancora una volta, un ricorso troppo lungo (251 pagine) e prolisso ribadendo che la violazione del principio di sinteticità degli atti espone al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione.  E ciò in quanto detta violazione rischia di pregiudicare l’intelligibilità delle questioni sottoposte all’esame della Corte, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata e quindi, in definitiva, ridondando nella violazione delle prescrizioni, queste sì assistite da una sanzione testuale di inammissibilità, di cui ai nn. 3 e 4 dell’articolo 366 c.p.c.

E’ evidente che la redazione di un ricorso per Cassazione, formulato in tal modo, costringe il Collegio a leggersi tutto, ponendo in tal modo gli stessi Giudici della Corte nella condizione di dover procedere alla valutazione di atti che dovrebbe essere fatta esclusivamente in sede di merito, anzi addirittura sollecitandone una diversa interpretazione rispetto a quella accolta dal giudice di merito.

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Risultati immagini per immagine infidelityNell’accertamento dell’addebito, il Giudice deve tenere in considerazione tutte le circostanze che hanno condotto alla crisi familiare, di talchè non solo non sono sufficienti episodiche violazioni di singoli doveri coniugali, ma, anche in caso dio trasgressioni reiterate, occorrerà in ogni caso accertare in quale contesto le stesse siano maturate, valutando le intese e i compromessi progressivamente raggiunti dai coniugi nel corso della vita matrimoniale, il loro sistema di valori e i comportamenti reciproci. A tale valutazione comparativa la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto di sottrarre soltanto i comportamenti violativi dei doveri coniugali così gravi da comportare in re ipsa non soltanto la sussistenza del nesso di causalità, ma anche una presunzione non superabile di intollerabilità, quali (…) percosse o reiterate violenze a danno del coniuge o dei familiari, che violano diritti fondamentali della persona dotati di copertura costituzionale (Cass. Civ. nn. 1510/2004; 7321/2005; 5379/2006; 8548/2011).

Con specifico riguardo poi alla violazione dell’obbligo di fedeltà, accanto ad una corrente giurisprudenziale tesa a riconoscere la sussistenza in re ipsa del nesso di causalità, con inversione dell’onere della prova a favore del coniuge tradito (Cass. Civ. Sez. I, sentenza n. 25618/2007),  un contrapposto indirizzo  afferma che nel vigente diritto di famiglia, contrassegnato dal diritto di ciascun coniuge, a prescindere dalla volontà o colpe dell’altro, di separarsi e divorziare, in attuazione di un diritto inviolabile di libertà riconducibile all’art. 2 Cost., ciascun coniuge può legittimamente far cessare il proprio obbligo di fedeltà proponendo domanda di separazione ovvero, se ne sussistono i presupposti, direttamente di divorzio … se l’obbligo di fedeltà viene violato in costanza di convivenza matrimoniale, la sanzione tipica prevista dall’ordinamento è costituita dall’addebito con le relative conseguenze giuridiche ove la relativa violazione si ponga come causa determinante della separazione fra i coniugi.

Una recente decisione della Corte Suprema (15 settembre 2011 n. 18853), prendendo le mosse da caso di una richiesta risarcitoria avanzata autonomamente da un coniuge nei confronti dell’altro conseguente alla violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, sebbene fra gli stessi fosse intervenuta separazione consensuale, ha affermato che “i doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio hanno natura giuridica e la loro violazione non trova necessariamente sanzione unicamente nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, quale l’addebito della separazione, discendendo dalla natura giuridica degli obblighi suddetti che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi di dell’illecito civile e dare luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c., senza che la mancanza della pronuncia di addebito in sede di separazione sia preclusiva dell’azione di risarcimento relativa a detti danni” .

Il presupposto da cui muove la citata pronuncia è che all’interno del rapporto coniugale la violazione di diritti della persona costituzionalmente protetti, quali la salute, l’immagine, la riservatezza, le relazioni sociali, la dignità del coniuge, e via dicendo possa trovare tutela indipendentemente dal fatto generatore della loro stessa lesione, come se la separazione dei coniugi, in conseguenza della quale la pretesa risarcitoria viene invece azionata, fosse avulsa dalla violazione degli specifici doveri che hanno determinato il venir meno della convivenza tra costoro.

Di diverso avviso il Tribunale Civile di Roma,  che con sentenza 25 giugno 2015, afferma che detto principio non è invocabile nel caso in cui  la violazione dei suddetti doveri venga invocata dal coniuge asseritamente leso a seguito della separazione e dunque dell’accertata improseguibilità della convivenza a seguito di una condotta che avrebbe, a detta dello stesso danneggiato, inequivocabilmente causato la rottura del consortium familiae.

E’ proprio lo specifico collegamento tra causa ed effetto, implicito nella stessa domanda risarcitoria, a far si che la violazione dei suddetti doveri assuma rilevanza in quanto sia stata determinante dell’improseguibilità della convivenza, ove si consideri che diversamente opinando si verrebbe a rinnegare l’essenza stessa del vincolo matrimoniale, fondato sulla libertà non solo del consenso iniziale, ma anche della sua permanenza nel prosieguo del rapporto.

In altri termini il danno non patrimoniale in tanto può essere invocato in quanto sia stato conseguenza della separazione coniugale posto che l’illecito si consuma all’interno del rapporto matrimoniale, che quand’anche non avente natura meramente contrattuale, è pur sempre il vincolo da quale discendono gli specifici obblighi e diritti reciproci in capo ai contraenti.

Pertanto ove si escludesse il rapporto di accessorietà tra addebito e domanda risarcitoria verrebbe necessariamente meno l’ingiustizia del danno derivante dalla condotta che è stata foriera, proprio perché posta in essere in violazione degli specifici obblighi derivanti dal matrimonio, del mutamento dello stesso rapporto di coniugio: l’accertamento che non vi è stata violazione dei doveri nascenti dal matrimonio o che l’inosservanza di essi si è innestata in un rapporto già esaurito non può infatti non escludere alla radice la sussistenza del danno ingiusto sul quale si fonda la pretesa risarcitoria.

Peraltro, la proclamata autonomia di quest’ultima rispetto a quella dell’addebito non può non avere innegabili ricadute anche sul piano del dedotto e del deducibile atteso che proprio perché trattasi di danno derivante dalla violazione di specifici obblighi coniugali il medesimo deve essere necessariamente azionato nell’ambito del giudizio di separazione, con conseguente preclusione di un’azione successiva che potrebbe astrattamente porsi in contrasto con il giudicato già in precedenza formatosi sulla separazione.

Del resto, venendo alla disamina dei profili più strettamente processuali, ove il rapporto tra le due domande non potesse porsi in termini di necessaria accessorietà, la conseguenza non potrebbe che essere quella, all’evidenza paradossale, dell’inammissibilità della domanda risarcitoria nell’ambito del giudizio di separazione. Invero configurandosi la connessione per accessorietà in presenza in uno stesso giudizio di due o più obbligazioni che siano tra loro in rapporto di subordinazione o tra le quali sussista un vincolo di consequenzialità logico – giuridica, in forza della quale una delle pretese trovi la sua ragione giustificatrice nell’altra, il giudice non potrebbe che, malgrado la diversità del rito applicabile alla domanda di separazione, assoggettato alla camera di consiglio, e a quella risarcitoria, disciplinata nelle forme del rito ordinario di cognizione, procedere all’esame del risarcimento richiesto nell’ambito dello stesso processo, in applicazione dei principi di economia processuale e del vincolo del giudicato che si estende non soltanto alle questioni di fatto e di diritto fatte valere in via di azione e di eccezione e dunque costituenti l’oggetto della decisione, ma anche alle questioni non dedotte in giudizio che costituiscano, ciò nondimeno un presupposto logico – essenziale ed indefettibile della decisione stessa, restando salva soltanto la sopravvenienza di fatti e situazioni nuove verificatesi dopo la formazione del giudicato stesso.

Esclusa pertanto sulla base delle argomentazioni appena esposte l’autonomia della domanda del risarcimento del danno morale azionata dal ricorrente rispetto alla separazione giudiziale, il Tribunale ha concluso per il rigetto della domanda acon compensazione delle spese di lite, stante il contrasto giurisprudenziale.

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download (1)Il Tribunale di Roma, con sentenza n°18799 dell’11 ottobre 2016, si pronuncia sul ricorso per la cessazione civile degli effetti del matrimonio con cui l’ex moglie aveva richiesto altresì l’affidamento esclusivo del figlio minore alla luce dell’acutizzarsi della conflittualità tra i genitori successivamente alla separazione tra gli stessi.

Il Tribunale, pur prendendo atto dell’elevata conflittualità tra i genitori – concretantesi in “…scaramucce di natura ritorsiva, continuativa e certamente reciproca poste in essere dai due coniugi nella gestione della prole…” – ritiene, tuttavia, di confermare il regime di affidamento condiviso già disposto in sede separatizia, alla luce della mancanza di prove circa l’inidoneità genitoriale del padre e, in positivo, del “…radicato attaccamento al padre ed una profonda complicità…”, emersi dall’audizione del minore e dalla CTU espletata.

Ma non è tutto! Il Tribunale procede altresì d’ufficio ex art. 709 ter c.p.c. nei confronti della madre, rea di aver ostacolato “…il funzionamento dell’affido condiviso con gli atteggiamenti sminuenti e denigratori della figura paterna, tali da avere indirettamente indotto (il minore) a disattendere il calendario degli incontri con il padre…”. Interessante risulta la motivazione a fondamento delle sopramenzionate misure. Se da un lato, infatti, il Tribunale riconosce che l’origine del processo di alienazione del figlio nei confronti della figura paterna non tragga origine dai comportamenti materni e che anzi la madre abbia “…lasciato che i ragazzi frequentassero liberamente l’ex coniuge addirittura e delegato al medesimo, come già sopra osservato, il progetto educativo dei minori (…) ciò nondimeno la sig.ra non può ritenersi esente da responsabilità non avendo posto in essere alcun comportamento propositivo per tentare di riavvicinare (il figlio) al padre risanandone il rapporto nella direzione di un sano e doveroso recupero necessario alla crescita equilibrata del minore già gravemente a causa della patologia da cui è affetto sin dalla nascita, ma al contrario continuando a palesare la sua disapprovazione in termini screditanti nei confronti del marito.”

Di qui la condanna d’ufficio della ricorrente:

  • non solo con un ammonimento formale “…invitandosi la ricorrente ad una condotta improntata al rispetto del ruolo genitoriale dell’ex coniuge ed ad astenersi da ogni condotta negativa e denigratoria del medesimo…”;
  • ma anche condannandola al risarcimento del danno nei confronti del resistente, quantificato nell’importo di € 30.000,00, “…al fine di dissuaderla in forma concreta dalla protrazione delle condotte poste in essere”;
  • avvertendola, per giunta, che la persistenza di tale condotta “…potrà peraltro in futuro dare adito a sanzioni ancor più gravi ivi compresa la revisione delle condizioni dell’affido…”.

Di seguito il testo della sentenza:[:]

[:it]La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza del 22 settembre 2016, dirime una complessa controversia familiare scaturente dall’impugnazione da parte di una madre del provvedimento con cui la Corte d’appello di Potenza, in sede di reclamo, aveva disposto l’affidamento condiviso del figlio minore nonostante l’eccepita elevata conflittualità tra i genitori, scaturita in più di una condanna penale a carico del padre. Ad avviso del giudice di legittimità, infatti, tali circostanze non potevano considerarsi talmente pregiudizievoli da legittimare una deroga al diritto del figlio alla bigenitorialità, poiché bilanciate dell’accertata intesa esistente tra padre e figlio e dalle “notevoli potenzialità” del loro rapporto.

Non sono tuttavia dello stesso avviso gli Ermellini che censurano l’impugnato decreto in quanto “…frutto di erronea esegesi del quadro normativo e di viziata applicazione delle regole legali agli emersi dati fattuali”. Ad avviso della Suprema Corte, infatti, la Corte di legittimità avrebbe travisato l’interesse superiore del minore, identificandolo tout court con “…l’intuibile o comprensibile desiderio del bambino di mantenere la bigenitorialità…”, senza dare sufficiente rilievo alla “…tipologia e gravità della conflittualità esistente tra le parti e dei reati commessi dallo (OMISSIS) in danno della (OMISSIS), inevitabilmente invece destinati a riflettersi negativamente anche su sentimenti ed equilibri affettivi, personali e familiari e sui rapporti interpersonali e, dunque, dotati di rilevante influenza sullo stabilimento del regime di affidamento più consono, anche in prospettiva al figlio della coppia”.

Di seguito il testo del provvedimento[:]

[:it]La Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza 26 gennaio – 5 febbraio 2016, n°2276, dirimono, all’esito di un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, un’interessante questione internazional-privatistica relativa alla (in)competenza giurisdizionale del giudice della separazione a conoscere accessoriamente della domanda relativa al mantenimento della prole risiedente abitualmente, unitamente ai genitori, in un altro Stato membro.

La vicenda vede protagonisti due cittadini italiani, coniugati in Italia e residenti stabilmente in Inghilterra da diversi anni, tanto da avervi dato alla luce e cresciuto i loro due figli. Nel 2012, a seguito della crisi in cui era sprofondata la loro relazione, il padre decide di adire il Tribunale di Milano al fine di sentir pronunciare la separazione con addebito a carico della moglie, l’affidamento condiviso dei figli, con collazione presso la madre, ed offrendo un sostanzioso mantenimento per la prole.

La moglie, costituendosi, chiede in via riconvenzionale l’addebito della separazione al marito e il riconoscimento a suo favore di un lauto assegno separatizio, eccependo tuttavia la carenza di giurisdizione del giudice italiano a pronunciarsi sul regime di affido, mantenimento e collocazione dei figli, individuando quale giudice competente quello britannico, alla stregua del criterio della residenza abituale dei minori di cui al regolamento n°2201/03.

Il Tribunale italiano, in accoglimento all’eccezione giurisdizionale sollevata dalla moglie, pur dichiarandosi competente a pronunciarsi sulla separazione dei coniugi e sull’assegno in favore del coniuge, si dichiara tuttavia incompetente, ai sensi dell’art. 3, lett. c) del regolamento 4/2009, a pronunciarsi su ogni questione relativa all’affidamento e al mantenimento della prole, individuando all’uopo competente unicamente il collega inglese.

Il padre, tuttavia, non si dà per vinto, presentando ricorso dinnanzi alla Suprema Corte e sostenendo la competenza anche dei giudici italiani a pronunciarsi in via accessoria sulle obbligazioni alimentari in favore della prole. La Corte di Cassazione, nella sua composizione a sezioni unite, ritiene pertanto necessario interrogare la Corte di Giustizia sui rapporti intercorrenti tra l’art. 8 del regolamento 2201/03 e il succitato art. 3 del regolamento 4/09, ponendo la seguente questione pregiudiziale: «[S]e la domanda di mantenimento dei figli proposta nell’ambito di un giudizio di separazione personale dei coniugi, essendo accessoria a detta azione, possa essere decisa sia dal giudice del giudizio di separazione che da quello davanti al quale è pendente il giudizio attinente alla responsabilità genitoriale, sulla base del criterio della prevenzione, ovvero debba necessariamente essere delibata da quest’ultimo, risultando alternativi (nel senso che l’uno esclude necessariamente l’altro) i due distinti criteri indicati nelle lettere c) e d) del più volte citato articolo 3».

La Corte europea, investita della questione, sottolinea la centralità dirimente della portata della nozione di “domanda accessoria”, di cui all’art. 3, lettere c) e d) del regolamento 4/09. A riguardo, la Corte preliminarmente chiarisce come tale nozione non debba essere interpretata alla luce del diritto nazionale, bensì del contesto e dell’obiettivo proprio del regolamento europeo, al fine di garantire la sua uniforme applicazione in tutti i Paesi membri. La Corte, poi, distingue gli interessi perseguiti nelle azioni relative alla responsabilità genitoriale rispetto a quelle relative allo stato delle persone e riconosce un ruolo dirimente al criterio del superiore interesse del minore, predominante in ogni controversia che lo riguardi.

Alla luce di tali considerazioni, i Giudici di Lussemburgo concludono affermando che: «L’articolo 3, lettere c) e d), del regolamento (CE) n. 4/2009 del Consiglio, del 18 dicembre 2008, relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari, dev’essere interpretato nel senso che, qualora un giudice di uno Stato membro sia investito di un’azione relativa alla separazione o allo scioglimento del vincolo coniugale tra i genitori di un figlio minore e un giudice di un altro Stato membro sia chiamato a pronunciarsi su un’azione per responsabilità genitoriale riguardante detto figlio, una domanda relativa a un’obbligazione alimentare nei confronti di quello stesso figlio è unicamente accessoria all’azione relativa alla responsabilità genitoriale, ai sensi dell’articolo 3, lettera d), di tale regolamento».

A tale pronuncia si conforma anche la Suprema Corte italiana, riconoscendo con ordinanza 26 gennaio – 5 febbraio 2016, n°2276,  l’accessorietà della domanda relativa all’affidamento e al mantenimento della prole unicamente con la controversia relativa alla sola responsabilità genitoriale, peraltro pendente dinnanzi al giudice britannico, qualora la stessa penda contemporaneamente ad altra azione avente ad oggetto la separazione giudiziale tra i coniugi.[:]

[:it]Risultati immagini per Alienating Parenting immagineAfferma la sesta sezione della Corte di Cassazione, con sentenza 10 giugno 2016 n. 12013 che il principio di bi-genitorialità non può comportare la effettuabilità e la rimborsabilità delle sole spese straordinarie che abbiano incontrato il consenso di entrambi i genitori escludendo così anche quelle spese che si dimostrino non voluttuarie e corrispondenti all’interesse del figlio beneficiario del diritto al mantenimento (quali quelle conseguenti alla scelta dell’università più adatta agli studi universitari del figlio) sempre che le stesse non siano compatibili con le condizioni economiche dei genitori.
Si legge nella motivazione della sentenza che «non è configurabile a carico del coniuge affidatario un obbligo di informazione e di concertazione preventiva con l’altro coniuge in ordine alla determinazione delle spese straordinarie (nella specie, stage e soggiorni all’estero per l’apprendimento della lingua inglese), trattandosi di decisione “di maggiore interesse” per il figlio e sussistendo, pertanto, a carico del coniuge non affidatario, un obbligo di rimborso qualora non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso. Ne consegue che, nel caso di mancata concertazione preventiva e di rifiuto di provvedere al rimborso della quota di spettanza da parte del coniuge che non le ha effettuate, il giudice è tenuto a verificare la rispondenza delle spese all’interesse del minore mediante la valutazione della commisurazione dell’entità della spesa rispetto all’utilità e della sostenibilità della spesa stessa rapportata alle condizioni economiche dei genitori (Cass. civ. sez. 6^-1, ord. n. 16175 del 30 luglio 2015 e Cass. civ. sezione I n. 19607 del 26 settembre 2011, «…nè può considerarsi rilevante il regime di affidamento condiviso, [..] perchè una interpretazione quale quella perorata dal ricorrente comporterebbe di fatto la compressione e soppressione del diritto di scelta in ordine a decisioni di maggiore interesse per i figli. Mentre la possibilità di chiedere in giudizio il rimborso delle spese già effettuate non comprime il diritto di difesa del genitore dissenziente che potrà far valere e accertare il proprio diritto ad opporsi alla richiesta di rimborso».
E ciò in quanto « il principio di bi-genitorialità non può comportare la effettuabilità e la rimborsabilità delle sole spese straordinarie che abbiano incontrato il consenso di entrambi i genitori escludendo così anche quelle spese che si dimostrino non voluttuarie e corrispondenti all’interesse del figlio beneficiario del diritto al mantenimento (quali quelle conseguenti alla scelta dell’università più adatta agli studi universitari del figlio) sempre che le stesse siano compatibili con le condizioni economiche dei genitori».
Da ciò consegue che il genitore che rifiuta il rimborso della quota di sua spettanza della spesa straordinaria, all’altro, sostenuta per il comune figlio, non potrà limitarsi ad eccepire di non essere stato preventivamente interpellato, oppure di avere espresso il proprio dissenso, ma dovrà contestare e comprovare che la spesa non risponde all’interesse del figlio oppure che è incompatibile con le sue condizioni economiche.
L’effetto di questa sentenza sarà quello di facilitare la quotidianità di molti genitori collocatari che si sentiranno autorizzati ad affrontare le spese straordinarie relative ai propri figli senza dover ogni volta interpellare preventivamente l’altro genitore. Sarà soprattutto un giusto sollievo per quei genitori collocatari, di fatto, esposti ai continui ‘ricatti’ dell’altro genitore che oppone il proprio rifiuto a qualunque spesa ed a priori solo per ritorsione o altro motivo poco nobile.[:]

[:it]Risultati immagini per immagine alienazione parentaleDenigrare la figura del padre e incidere negativamente sul rapporto padre – figlio può costare molto caro, ha recentemente affermato il Tribunale Civile di Roma, con sentenza 11 ottobre 2016 n. 1879.

Il collegio giudicante, accertava che la madre (genitore collocatario) non aveva in alcun modo tentato di riavvicinare il figlio al padre «risanandone il rapporto nella direzione di un sano e doveroso recupero necessario per la crescita equilibrata del minore ma al contrario aveva continuato a palesare la sua disapprovazione in termini screditanti nei confronti del marito» mentre avrebbe dovuto attivarsi per «consentire il giusto recupero del ruolo paterno da parte del figlio, che nella tutela della bigenitorialità cui è improntato lo stesso affido condiviso postula il necessario superamento delle mutilazioni affettive del minore»; né tanto meno, aveva spinto il figlio verso il padre, invece di prendere tutti i pretesti per sfuggire agli incontri programmati, cercando di recuperare «la positività della concorrente figura genitoriale nel rispetto delle decisioni da costui assunte».

Detta condotta materna aveva ricadute dirette sulla figura dell’altro genitore, svilito nel suo ruolo di educatore e di figura referenziale“.

Conseguentemente il Tribunale ha ordinato alla madre di condurre il figlio da un terapeuta per aiutarlo a riprendere i rapporti ed ha applicato, a carico della donna, sia la sanzione dell’ammonizione, invitandosi la ricorrente ad una condotta improntata al rispetto del ruolo genitoriale dell’ex coniuge ed ad astenersi da ogni condotta negativa e denigratoria del medesimo, sia quella del risarcimento del danno (…) nella somma di 30.000 euro ex 709-ter c.p.c. “, “al fine di dissuaderla in forma concreta dalla protrazione delle condotte poste in essere, la cui persistenza potrà peraltro in futuro dare adito a sanzioni ancor più gravi ivi compresa la revisione delle condizioni dell’affido“.

L’obiettivo dichiarato dal Tribunale è stato quindi, in questo caso, anche dissuasivo: evitare il protrarsi delle condotte pregresse, “anticipando” in caso contrario “sanzioni ancor più gravi compresa la revisione delle condizioni dell’affido”.

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