La Suprema Corte di Cassazione, sez. III^ civile, con la recente ordinanza n°3904/2025 del 27 settembre 2024, depositata in cancelleria il 16 febbraio 2025, offre preziosi chiarimenti circa la sussistenza di una presunzione del danno morale subito dai membri della c.d. famiglia nucleare a seguito della morte del coniugi, genitore, figlio o fratelle), e sulla ripartizione dell’onere probatorio tra danneggiante e danneggiati.

 

Il caso.

La moglie e i figli del de cuius convenivano in giudizio una struttura sanitaria per il risarcimento dei danni conseguenti alla morte del rispettivo coniuge e padre, conseguente ad un caso di malasanità. L’uomo, a seguito di  un intervento, aveva infatti contratto un’infezione della ferita chirurgica, che lo aveva condotto, nonostante successivi tre interventi, alla morte.

In primo grado il Tribunale di Ravenna rigettava tuttavia le domande attoree.

I familiari proponevano appello dinnanzi alla Corte d’Appello di Bologna, la quale tuttavia riconosceva il danno in favore della sola moglie, rigettando erroneamente l’analoga domanda presentata dai figli non avendo gli stessi offerto “…specifica allegazione del concreto atteggiarsi della relazione affettiva con il padre”, necessaria, ad avviso dei giudizio, non essendo i più conviventi con il genitore al momento della morte.

 

La decisione della Suprema Corte

Di diverso avviso i giudici di Piazza Cavour che, in accoglimento dell’unico motivo di gravame, riconoscono il diritto anche dei figli, ancorchè non più conviventi, al risarcimento del danno morale conseguente alla perdita parentale.

In particolare, la Suprema Corte, condivisibilmente chiarisce che:

  • deve presumersi una sofferenza morale in capo alla c.d. “famiglia nucleare” in conseguenza dell’uccisione dei genitori, del coniuge, dei figli o dei fratelli”;
  • la convivenza e/o la distanza tra la vittima e il superstite non può considerarsi circostanza incidente sull’an, potendo essere valutata unicamente ai fini del quantum debeatur;
  • grava sul danneggiato l’onere di provare “che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e che di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo” (così anche Cass. sez. 3, 30 agosto 2022 n. 25541 e Cass. sez. 3, ord. 4 marzo 2024 n. 5769).

 

La disciplina della comunione legale dei beni relativa all’uguaglianza delle quote è sempre inderogabile? La Suprema Corte, con l’ordinanza n. 2546 del 3 febbraio 2025, ha risposto in senso negativo al suddetto quesito.

Il caso sottoposto alla sua attenzione ha ad oggetto il giudizio di scioglimento della comunione legale e divisione promosso dall’ex marito, avente ad oggetto l’unico bene immobile acquistato in regime di comunione legale con l’ex moglie, ritenuto di proprietà al 50% di ciascun coniuge, del quale tuttavia la moglie rivendicava la proprietà del 71%, in forza di quanto statuito dai coniugi in sede di separazione consensuale.

Il Tribunale aveva dichiarato la nullità dell’accordo di separazione consensuale omologato, nella parte in cui “i coniugi si danno atto e consentono la regolare trascrizione del presente verbale alla Conservatoria dei Registri Immobiliari di Napoli, affinché risulti che la proprietà dell’immobile in Napoli alla via ……………….. n. ……, ., riportato nel NC.E.U di Napoli………….., appartiene per il 29 per cento al sig. B.B. e per il 71 per cento alla signora A.A.“, stante la ritenuta violazione dell’art. 210 c.c., che sancisce l’inderogabilità da parte dei coniugi delle norme della comunione che sanciscono l’uguaglianza delle quote dei beni che fanno parte della predetta comunione.

La Corte di appello aveva confermato la decisione del Giudice di primo grado, ribadendo l’inderogabilità della disciplina della comunione legale dei beni relativa all’uguaglianza delle quote e, quindi, la nullità di ogni patto contrario.

La Suprema Corte, nel decidere il caso in esame, ribaltando la decisione dei giudici di merito, ha colto l’occasione per ribadire importanti principi anche in merito all’istituto della comunione legale tra i coniugi.

La Cassazione ha infatti affermato i seguenti principi di diritto:

  • “La comunione legale tra coniugi, in quanto finalizzata alla tutela della famiglia piuttosto che della proprietà individuale, si differenzia da quella ordinaria in quanto costituisce una comunione senza quote, nella quale essi sono entrambi solidalmente titolari di un diritto avente ad oggetto tutti i beni che la compongono e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei, sicché, fintantoché è in essere, permane il diritto del coniuge a non entrare in rapporti di comunione con soggetti ad essa estranei, mentre una volta sciolta per una delle cause di cui all’art. 191 c.c., venendo meno le necessità funzionali originarie, ciascuno degli ex coniugi può cedere ad ogni titolo la propria quota, ossia la corrispondente misura dei suoi diritti verso l’altro, senza che si ponga un problema di radicale invalidità dell’atto di trasferimento (Cass. n.8193/2024).
  • Tanto premesso, è decisivo ricordare che questa Corte con la sentenza n. 21761/2021 resa a Sezioni Unite, di recente, ha affermato, richiamando pregressi precedenti di legittimità, che sono da ritenersi pienamente valide, anche con riferimento ai beni che ricadono nella comunione legale, le clausole dell’accordo di separazione che riconoscano ad uno, o ad entrambi i coniugi, la proprietà esclusiva di beni mobili o immobili nel complessivo riassetto degli interessi economico – patrimoniali, ovvero che ne operino il trasferimento a favore di uno di essi al fine di assicurarne il mantenimento. In particolare, ha chiarito che “Il suddetto accordo di separazione, in quanto inserito nel verbale d’udienza (redatto da un ausiliario del giudice e destinato a far fede di ciò che in esso è attestato), assume – per vero – forma di atto pubblico ai sensi e per gli effetti dell’art. 2699 c.c., e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce, dopo l’omologazione che lo rende efficace, titolo per la trascrizione a norma dell’art. 2657 c.c., senza che la validità di trasferimenti siffatti sia esclusa dal fatto che i relativi beni ricadono nella comunione legale tra coniugi. Lo scioglimento della comunione legale dei beni fra coniugi si verifica, infatti, con effetto “ex nunc”, dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di separazione ovvero dell’omologazione degli accordi di separazione consensuale” (Cass. Sez. U. n.21761/2021, par.3.2.2.; Cass. n.4306/1997).
  • È stato, inoltre, affermato – con riferimento ad una vicenda di proposizione dell’azione revocatoria – che gli accordi di separazione personale fra i coniugi, contenenti reciproche attribuzioni patrimoniali e concernenti beni mobili o immobili, rispondono, di norma, ad uno specifico spirito di sistemazione dei rapporti in occasione dell’evento di separazione consensuale che svela una sua “tipicità” propria. Tale tipicità – intesa in senso lato, con riferimento alla finalità, comune a questi accordi, di regolare i rapporti economici a seguito della crisi di coppia – ai fini della più particolare e differenziata disciplina di cui all’art. 2901 c.c., può colorarsi dei tratti dell’obiettiva onerosità piuttosto che di quelli della gratuità, in ragione dell’eventuale ricorrenza, o meno, nel concreto, dei connotati di una sistemazione solutorio-compensativa più ampia e complessiva, di tutta quella serie di possibili rapporti aventi significati, anche solo riflessi, patrimoniali maturati nel corso della quotidiana convivenza matrimoniale (Cass. n. 2740/2019). In tale decisione, la Corte ha ribadito come il verbale in cui le parti avevano espresso le condizioni di separazione personale costituisse a seguito dell’omologa, ed in quanto atto pubblico – titolo per la trascrizione, a norma dell’art. 2657 c.c. (in senso sostanzialmente conforme, cfr. anche Cass.n.10443/2019).
  • Nel caso in esame, si verte in ipotesi di accordo stipulato tra ex coniugi, al momento della separazione consensuale, al fine di disciplinare i profili relativi alle questioni patrimoniali insorte nella coppia. Ne discende che, una volta sciolta la comunione legale con la separazione consensuale, rientra nella piena autonomia negoziale delle parti disciplinare gli aspetti economico-patrimoniali – estranei agli obblighi ex lege riguardanti la prole, in relazione ai quali l’autonomia delle parti contraenti incontra limiti – con l’accordo di separazione omologato; in tale sede le parti possono liberamente disporre dei beni in comunione al fine di regolare i rapporti economici della coppia e possono prevedere una ripartizione del bene immobile in comunione legale per quote non egalitarie nell’ambito delle reciproche attribuzioni patrimoniali, in vista della successiva divisione, senza che ricorra alcuna ipotesi di nullità”.

 

 

La Suprema Corte di Cassazione, sez. I^ civile, con la recente ordinanza n°234/2025 depositata in cancelleria in data 7 gennaio 2025, ha chiarito quali siano i presupposti per la concessione dell’assegno separatizio, evidenziando analogie e differenze rispetto ai presupposti dell’assegno divorzile.

I fatti di cui è causa e i due gradi di giudizio di merito.

Il Tribunale civile di Napoli, dichiarava la separazione dei coniugi addebitandola al marito, rigettando analoga richiesta di addebito mossa da quest’ultimo in danno della moglie, nonché ponendo a carico del marito un gravoso assegno per il mantenimento dei figli e uno separatizio in favore della moglie, a cui veniva altresì assegnata la casa familiare.

Avverso la sentenza del  giudice campano ricorreva in appello il marito, contestando il diritto all’assegno separatizio della moglie e la sua quantificazione, anche in considerazione della mancata prova degli asseriti redditi che lo stesso avrebbe percepito dal proprio lavoro autonomo.

La Corte d’Appello di Napoli rigetta tuttavia il gravame ritenendo:

  • che dalla prova escussa in primo grado non emergono ragioni per addebitare la separazione alla moglie;
  • che il reddito del A.A. non solo derivante da lavoro dipendente ma anche da lavoro autonomo è “certamente capiente” rispetto all’assegno, avendo egli oltretutto ereditato dalla madre la casa di piazza (Omissis) che pur se aggravata da un “temporaneo diritto abitazione in favore dei figli” gli consentirebbe agevolmente se venduta di fare fronte per molti anni a venire degli oneri di mantenimento.

Il ricorso per cassazione

Il coniuge decideva pertanto di ricorrere per cassazione avverso la predetta sentenza lamentando:

  • con il primo motivo “la violazione o falsa applicazione dell’art. 156 c.c., comma 1, essendosi la Corte territoriale limitata ad affermare che la moglie ha redditi assai modesti, trascurando però che l’assegno di mantenimento nella separazione -contrariamente a quanto affermato dalla Corte territoriale – non mira a mantenere lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio, ma assicura solo un contributo al coniuge economicamente più debole, sempre che, però, lo stesso si sia attivato per la ricerca di un lavoro, e non sia invece rimasto al riguardo del tutto inerte; in tal modo, la moglie ha aggravato ingiustificatamente la posizione debitoria del ricorrente”;
  • con il secondo motivo “il travisamento della prova in relazione all’art 360 n. 5 c.p.c. in combinato disposto con gli artt. 115 e 132 comma 4 c.p.c. Il ricorrente deduce che la Corte d’Appello ha evidentemente travisato la prova circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti ed in particolare non ha valutato la relazione di consulenza tecnica del dott. C.C. e la documentazione fiscale allegata depositata dal ricorrente nel giudizio di primo grado, affermando sulla base di semplici presunzioni e considerazioni soggettive che esso ricorrente avrebbe un reddito fortemente superiore a quanto emerge dagli atti di causa, non valutando il documentato peggioramento delle sue condizioni economiche patrimoniali, né la effettiva consistenza del suo reddito che è pari ad Euro 1.715,00 mensili; lamenta che il giudice d’appello abbia omesso di valutare la situazione di sovraindebitamento dando valore al tenore di vita passato dei coniugi e allo svolgimento di ulteriore attività lavorativa che non è stata provata”;
  • con il terzo motivo “la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 132 c.p.c., e la nullità della sentenza in riferimento all’articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, in quanto il giudice territoriale non si è pronunciato sul motivo di appello relativo all’addebito della separazione posto a carico di esso ricorrente”.

La decisione della Suprema Corte

La Suprema Corte, accoglie tutte e tre le doglianze alla luce dei seguenti condivisibili motivi.

Quanto al primo motivo, la Suprema Corte:

  • censura l’operato della Corte territoriale che, nel valutare la sussistenza dei presupposti per riconoscere il diritto della moglie a percepire un assegno separatizio, si era “limitata ad affermare che la moglie al momento della separazione non lavorava e che ha diritto di conservare l’elevato tenore di vita mantenuto in costanza di convivenza, senza valutare se ella sia in possesso di risorse economiche tra le quali rileva certamente, oltre che l’eventuale patrimonio, anche la capacità lavorativa, da valutarsi in concreto e non in astratto (Cass. n. 24049 del 06/09/2021)”;
  • chiarisce che:
    • il diritto all’assegno di mantenimento è quindi fondato sulla persistenza del dovere di assistenza materiale fintanto che il matrimonio non è sciolto; il principio di parità richiede che tale sostegno sia reciproco, senza graduazioni o differenze, ma anche solidale (Cass. n. 34728 del 12/12/2023 in motivazione)”.
    • l’accertamento del diritto ad esser mantenuti dall’altro coniuge a seguito di separazione non è scisso dalla valutazione che la solidarietà presuppone un rapporto paritario e di reciproca lealtà, incompatibile con comportamenti parassitari diretti a trarre ingiustificati vantaggi dal coniuge separato”;
    • “…anche nelle relazioni familiari valga il principio di autoresponsabilità che è strettamente correlato alla solidarietà; tutte le comunità solidali presuppongono che ciascuno contribuisca al benessere comune secondo le proprie capacità e che nessuno si sottragga ai propri doveri”;
    • ferma la differenza tra assegno di divorzio e assegno di separazione, vi sono alcuni tratti comuni tra i due istituti e tra questi il presupposto che il richiedente sia privo di risorse adeguate”, con particolare riferimento al caso in cui “il richiedente sia dotato di concreta e attuale capacità lavorativa e non la metta a frutto senza giustificato motivo la assenza di adeguati redditi propri non può considerarsi un fatto oggettivo involontario ma una scelta addebitabile allo stesso interessato.
  • ritenendo che “…nella specie la Corte d’Appello di Napoli non ha fatto buon governo di questi principi nell’omettere qualsivoglia indagine sulle capacità lavorative concrete della richiedente assegno e non indagando sulla possibilità che la moglie si procuri redditi diversi, ad esempio da patrimonio, limitandosi ad affermare che la stessa al momento della separazione non lavorava.

Quanto al secondo motivo, la Suprema Corte, censura altresì l’operato del giudice di secondo grado ritenendo solo formalmente apparente la motivazione circa gli ulteriori redditi da lavoro autonomo del marito in quanto a fronte delle contestazioni dell’interessato il quale ha documentato il suo reddito da lavoro dipendente anche con una consulenza di parte, si è limitata a osservare che “come documenta la difesa dell’appellata” il reddito del A.A. è tuttora costituito non solo da proventi di lavoro o dipendente ma anche da introiti da lavoro autonomo ed è un importo complessivo lordo “certamente capiente” per il pagamento di cui è onerato” senza tuttavia offrire contezza delle relative ragioni, e in particolare:

  • senza specificare “né che tipo di lavoro autonomo svolge, su quali prove si fonda l’accertamento dello svolgimento di attività libero professionale e a quanto ammonta il reddito che ne ricaverebbe”;
  • valutando “…quale disponibilità economica l’essere proprietario della casa coniugale assegnata alla moglie” nonostante la predetta abitazione sia stata assegnata alla moglie in sede di separazione, con conseguente incidenza sulla “concreta appetibilità sul mercato di un bene con tale vincolo”.

Gli Ermellini accolgono da ultimo anche la terza censura rilevando che “la Corte d’Appello, limitandosi ad esaminare la domanda di addebito alla moglie, ha omesso effettivamente di pronunciarsi per intero sul motivo di appello, non cogliendone la effettiva portata” e ciò in quanto, nonostante il marito non abbia riportato nelle conclusioni dell’atto di appello la richiesta di addebito, “…tuttavia la parte dell’atto d’appello che egli trascrive è più che sufficiente a fare ritenere che egli abbia proposto detta questione, rendendo evidente che il suo obiettivo non era quella di ottenere una sentenza di addebito reciproco bensì una sentenza di addebito in via esclusiva alla moglie, e ponendo quindi una questione non adeguatamente esaminata dalla Corte d’Appello la quale si è limitata ad affermare che i litigi di cui aveva riferito il teste Stara non avevano avuto incidenza casuale sulla fine del rapporto e a richiamare, quanto alla incidenza causale dei comportamenti del A.A. una valutazione, resa da una teste nel giudizio canonico, e non fatti oggettivi. Si tratta quindi di una valutazione parziale che non tiene conto della complessiva esposizione del motivo di appello”.

Introduzione

La nostra esistenza si esplica, ormai, tanto nel reale quanto nello spazio cibernetico (1), il luogo eletto per la realizzazione di vere e proprie aggressioni alla libertà personale e all’integrità dei soggetti più vulnerabili.

L’utilizzo di strumenti informatici, lo sfruttamento della rete e, conseguentemente, la massiccia condivisione di dati attinenti alla sfera privata, rimangono ancora troppo ignari ai reali rischi ed alle aggressioni alla privacy e, più in generale, alla persona umana realizzabili.

Oggi non è più possibile tracciare una linea di demarcazione netta tra la realtà fisica e quella connessa (soprattutto a causa dell’utilizzo smodato e inconsapevole che viene fatto dai giovani degli strumenti informatici e del web), in quanto tutto ciò che accade nella prima produce effetti nella seconda, e viceversa.

La navigazione in rete dovrebbe avvenire nel modo più responsabile e consapevole possibile. Non si tratta di un obiettivo semplice e ciò in quanto le  aggressioni realizzabili sono, spesso, molto subdole e, soprattutto, mirano a sfruttare le nostre debolezze, nonché la nostra sfera emozionale.

L’utente in rete diviene una potenziale vittima o bersaglio, oltre che possibile autore di prevaricazioni e offese dei diritti e interessi altrui che vanno dall’onore e reputazione all’immagine e identità individuali; dalla riservatezza al controllo effettivo della diffusione o utilizzazione dei dati personali, fino alle libertà fondamentali.

Il doppio ruolo dell’utente, come potenziale autore o vittima, emerge soprattutto nella categoria più vulnerabile: i minori, “che ormai accedono ed utilizzano il web come parte integrante, talora patologicamente condizionante, della loro vita quotidiana” (2). Accanto alle potenzialità del web si stanno sviluppando fenomeni particolarmente allarmanti (sexting, cyberbullismo, giochi e sfide mortali come “Blu Wahle”), nonché rapporti devastanti che possono pregiudicare lo sviluppo di personalità ancora in crescita e mettere a rischio la socializzazione nella vita reale.

In questo articolo ci occuperemo in particolar modo dell’allarmante fenomeno del cyberbullismo e dell’individuazione della tutela giudiziale e stragiudiziale da prestare al minore che ne rimane vittima.

 

  1. Cos’è il cyberbullismo?

Il cyberbullismo rappresenta un’evoluzione del bullismo tradizionale, da cui certamente non si può prescindere per comprendere anche i tratti essenziali del cyberbullismo, fenomeno che dilaga nel cyberspazio.

Con il termine bullismo, derivante da quello inglese di “bullyng”, si indica l’insieme di comportamenti aggressivi e di prevaricazione che vengono messi in atto in modo ripetitivo e continuato da una o più persone nei confronti di una o più vittime percepite come più deboli (c.d. asimmetria di potere).

Gli atti di aggressione possono essere fisici, verbali e psicologici, ma non sempre si manifestano in modo esplicito, potendosi trattare di sussurri, pettegolezzi, esclusioni, isolamento sociale.

Il bullismo è una sottocategoria del comportamento aggressivo che si caratterizza per l’intenzionalità, la premeditazione, la ripetizione nel tempo e l’asimmetria di potere.

È possibile distinguere una forma diretta (aggressioni fisiche e verbali) ed una forma indiretta (manipolazione che porta all’isolamento sociale).

Le conseguenze che il bullismo produce sono diverse e, ovviamente, sono diverse a seconda che si tratti del bullo o della vittima e dipendono molto dalla personalità e dal bagaglio dei protagonisti.

Il bullismo non è un fenomeno nuovo. È sempre esistito ma, un tempo, non era al centro dell’attenzione sociale e veniva inteso come una tappa normale della crescita.

È bene specificare che non è praticato solo dal genere maschile, non essendo rari casi di bullismo femminile.

Chiarite le caratteristiche e dinamiche del bullismo tradizionale, è possibile esaminare il preoccupante fenomeno del cyberbullismo, appartenente all’era moderna dei media, di internet, dei social network e degli strumenti informatici.

Secondo la legge sul cyberbullismo, per cyberbullismo si intende “…qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica, nonché la diffusione di contenuti on line aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo”(2).

Nel cyberbullismo, come anche nel bullismo tradizionale, è possibile riscontrate i c.d. meccanismi di disimpegno morale (3):

  • la giustificazione morale: il cyberbullo giustifica il comportamento bullizzante in nome di principi quali l’onore e la lealtà (ritiene, ad esempio, che la vittima abbia screditato un suo amico);
  • il confronto vantaggioso: il cyberbullo ritiene la propria azione meno grave di altre che si possono commettere nella realtà fisica;
  • l’etichettamento eufemistico: il cyberbullo ridimensiona le conseguenze mascherando il vero significato della sua azione;
  • il dislocamento o diffusione della responsabilità, utilizzata per negare o minimizzare la propria responsabilità all’interno dell’azione;
  • la distorsione delle conseguenze: il cyberbullo minimizza le conseguenze negative dei propri comportamenti, focalizzandosi sugli aspetti positivi;
  • la deumanizzazione e colpevolizzazione della vittima.

 

  1. I diversi livelli di tutela del minore vittima di cyberbullismo

Il fenomeno del cyberbullismo è tutelato sia sul piano giudiziale (seppur indirettamente) che su quello stragiudiziale.

Sebbene nel sistema codicistico italiano non esista una disciplina ad hoc del fenomeno, il legislatore non è rimasto del tutto inerte. Con la L. n. 71/2017, recante “disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del cyberbullismo”, invero, ha introdotto diversi strumenti di tutela per le vittime di cyberbullismo che consistono nell’oscuramento, rimozione o blocco di qualsiasi dato personale del minore, diffuso nella rete Internet, su istanza del minore stesso o dei genitori esercenti la responsabilità sul minore, al titolare del trattamento o al gestore del sito Internet o del social network, ai quali, se non provvedono entro 48 ore, subentra, sempre su istanza dell’interessato, il Garante della Privacy; nella segnalazione ai genitori del cyberbullo; nell’ammonimento del questore prima della presentazione della querela (nel caso in cui, quindi, la condotta integri una o più fattispecie di reato).

Si tratta di importanti strumenti di difesa che possono, tra l’altro (e questo è molto importante), essere azionati direttamente dal minore che abbia compiuto i quattordici anni. A partire dalla stessa età il minorenne può anche sporgere denuncia o querela, nel caso in cui il cyberbullismo configuri anche un’ipotesi di reato.

Sotto il profilo penalistico, nonostante il cyberbullismo non sia di per sé punito dalla legge penale, le condotte poste in essere dal cyberbullo o dai cyberbulli, purché abbiano compiuto i quattordici anni, possono integrare diverse fattispecie di reato, anche in concorso, tra cui il reato di diffamazione ex art. 595, comma 3, c.p., che punisce l’offesa all’altrui reputazione, arrecata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità (in cui deve ricomprendersi la rete); le percosse; la minaccia; il trattamento illecito dei dati personali; la violenza privata; lo stalking; l’estorsione; la detenzione di materiale pornografico ecc.

Affinché si instauri un procedimento penale, è necessario che la vittima che abbia compiuto i quattordici anni o il genitore/genitori esercenti la responsabilità genitoriale sporgano denuncia o querela, personalmente o a mezzo di un proprio avvocato.

Poi, a seconda dell’età del cyberbullo, il procedimento si svolgerà dinanzi al Tribunale per i Minorenni (se il cyberbullo ha compiuto i quattordici anni) o al Tribunale Ordinario (se maggiorenne).

Sotto il profilo civilistico, invece, gli atti di cyberbullismo, anche non penalmente rilevanti o commessi da soggetto non imputabile, possono integrare una responsabilità per fatto illecito ex art. 2043 c.c. e legittimare la vittima, a mezzo dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale, ad agire per il risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.

E se il cyberbullo è minorenne o non imputabile, chi ne risponde sul piano civilistico? Mentre la responsabilità penale è personale, in ambito civilistico le conseguenze di fatti illeciti possono ricadere sui genitori, qualora non abbiano fornito al proprio figlio un’educazione appropriata e non abbiano vigilato adeguatamente (c.d. culpa in vigilando ex art. 2048 c.c.).

Invero, secondo la più recente giurisprudenza di merito, “gli obblighi inerenti la responsabilità genitoriale impongono ai genitori non solo il dovere di impartire ai figli una adeguata educazione all’utilizzo dei mezzi di comunicazione, ma anche, tenuto conto della pericolosità del mezzo utilizzato, di compiere quell’attività di verifica e controllo sulla effettiva acquisizione dei valori trasmessi da parte del minore”(5).

Ancora, il Tribunale di Parma con la sentenza n. 698/2020 ha stabilito che i contenuti presenti sui telefoni cellulari dei minori andranno costantemente supervisionati da entrambi i genitori, evitando la comparsa di materiali non adatti all’età ed alla formazione educativa dei minori. La stessa regola vale per l’utilizzo eventuale del computer, al quale andranno applicati i necessari dispositivi di filtro.

Tutto ciò con un importante limite: la tutela della sfera personale e dei dati personali del minore da ingerenze altrui (anche da parte dei genitori se l’ingerenza non è giustificata).

Deve perseguirsi, pertanto, un bilanciamento tra l’esigenza di riservatezza del minore (per cui il quattordicesimo anno rappresenta l’età del consenso digitale) e il potere di controllo e intrusione delle figure genitoriali nella sua sfera privata.

In sostanza, il dovere di vigilanza deve essere esercitato nell’interesse superiore del minore, (art. 3 della Convenzione sui diritti del fanciullo di New York) e non può giustificare qualsiasi intromissione indebita nella sua sfera privata. Dovrà essere assicurato, al minore, l’esercizio della libertà di espressione, il diritto all’informazione e alla comunicazione, protetti da norme di rango superiore nazionali (artt. 2 e 21 Cost.) e internazionali (art. 10 della Convenzione di Roma del 1950 e art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 7 dicembre del 2000).

 

  • Secondo il quadro strategico nazionale per la sicurezza dello spazio cibernetico, Presidenza del Consiglio

dei ministri, 2013, per cyberspazio o spazio cibernetico si intende uno spazio in cui sono ricompresi Internet, le reti di comunicazione, i sistemi su cui poggiano i processi informatici di elaborazione dati e le apparecchiature mobili dotate di connessione di rete;

  • Cadoppi A., Canestrari S., Manna A., Papa M., “Cybercrime”, Omnia Trattati Giuridici, Utet, 2019, p. 58;
  • La teoria del disimpegno morale venne ideata dallo psicologo statunitense Albert Bandura negli anni ‘90, per descrivere la capacità dell’individuo di disimpegnarsi dalle sue auto-sanzioni morali (che servono a rispettare le regole), riuscendo a mantenere comunque un senso di integrità. Si tratta di meccanismi che disimpegnano il controllo interno e le auto-sanzioni, liberando l’individuo dai sentimenti di autocondanna e di colpa, nel momento in cui viene meno al rispetto delle norme;
  • n. 71/2017 sulle “Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyberbullismo”;
  • Tribunale per i Minorenni di Caltanissetta, 8 ottobre 2019:  il caso ha ad oggetto un minore che si era reso responsabile di condotte illecite in danno ad altra minore, molestandola con condotte reiterate utilizzando il sistema di messaggistica Whatsapp e provocando in lei un perdurante e grave stato d’ansia e di paura “costringendola a modificare le proprie abitudini di vita, per il fondato timore per l’incolumità propria e dei propri cari”.

 

 

 

Avv. Gilda Pugliese

La Suprema Corte di Cassazione, sez. III^, con sentenza n°5353 del 21 febbraio 2023, ha offerto preziosi chiarimenti circa la validità e i limiti, anche ratione temporis, delle c.d. “side letters”, ovvero le scritture private sottoscritte dai coniugi (o da genitori non sposati) integranti le condizioni dei provvedimenti in materia familiare.

Gli Ermellini, in particolare:

  • riconoscono, in virtù del principio di autonomia consacrato nell’art. 1322 c.c., l’astratta possibilità per le parti di sottoscrivere le c.d. “side letters”, “…con il limite del rispetto dei diritti indisponibili, non solo gli aspetti patrimoniali, ma anche quelli personali della vita familiare” (Cass. civ., Sez. I^, sent. 20 agosto 2014, n. 18066, Rv. 632256-01);
  • le predette scritture possono anche integrare il contenuto dei provvedimenti separatizi e/o divorzili, ad esempio mediante la modifica della “…disciplina della modalità di corresponsione dell’assegno di mantenimento, che preveda il versamento da parte del genitore obbligato direttamente al figlio di una quota del contributo complessivo di cui risulta beneficiario l’altro genitore” (Cass. Sez. 1, ord. 24 febbraio 2021, n. 5065, Rv. 660758-01).;
  • il contenuto delle predette può anche consistere nell’interpretazione extra-testuale di un titolo esecutivo purchè: a) “…che non sovrapponga la propria valutazione in diritto a quella del giudice del merito” (Cass. Sez. 3, sent. 5 giugno 2020, n. 10806, Rv. 658033-02)”; B), “…l’esito non sia tale da attribuire al titolo una portata contrastante con quanto risultante dalla lettura congiunta di dispositivo e motivazione“;
  • la validità temporale delle statuizioni ivi contenute, qualora concluse “a latere” del ricorso per separazione, può permanere anche successivamente al divorzio tra le parti.

La Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza n°3432 del 3 febbraio 2023, ha chiarito che le c.d. minicar non sono assimilabili a ciclomotori e, pertanto, non possono sostare negli spazi destinati alla sosta dei veicoli a due ruote.

La vicenda in esame trae origine dall’impugnazione di un verbale con cui era stata contestata la violazione dell’art. 7, commi 1 e 14, del C.d.S. a seguito della sosta di una minicar negli spazi riservati a cicli e motocicli.

La sanzione viene impugnata, senza successo sino in Cassazione dai proprietari del veicolo, “forti” di innumerevoli pronunce con cui il Giudice di Pace di Roma aveva accolto analoghe loro opposizioni, ritenendo le minicar equiparabili ai motocicli e, pertanto, legittimate a sostare negli spazi ad essi riservati.

Di diverso avviso gli Ermellini, che respingono il ricorso osservando che “…correttamente, la sentenza di appello ha sufficientemente motivato nel ritenere, conformemente alla decisione di primo grado, che, nella fattispecie, non poteva trovare applicazione – in relazione al tipo di veicolo in questione, un microcar a quattro ruote – la disciplina di cui all’art. 52 c.d.s., con la conseguente legittimità del verbale di accertamento opposto, con cui era stata rilevata la violazione del divieto di sosta in uno spazio riservato esclusivamente a cicli e motocicli (e non anche a motoveicoli, nei quali si ricomprende il citato microcar, per come evincibile dalla previsione di cui al successivo art. 53, lett. h, c.d.s. e dalla stessa annotazione della tipologia del mezzo risultante dalla carta di circolazione)”.

La Corte di Cassazione è stata chiamata a decidere sul ricorso promosso dall’Agenzia delle Entrate, che riteneva non esente da imposte l’atto di cessione di quote societarie, generatore di una plusvalenza, attuato tra due coniugi, nell’ambito di un accordo di separazione, ritenendo che l’indirizzo giurisprudenziale venutosi a consolidare negli ultimi dieci anni, favorevole ad una applicazione generalizzata dell’esenzione a qualsivoglia accordo funzionalmente subordinato alla negoziazione complessiva dei rapporti tra i coniugi a momento della loro separazione, aveva ad oggetto i soli trasferimenti immobiliari.

La Suprema Corte, con l’allegata ordinanza 23623/2022, depositata il 7 settembre 2022, ha respinto il ricorso dell’Ente impositore sulla base delle seguenti argomentazioni:

  • l’art. 19 della Legge n°74 del 1987, che ha introdotto nuove norme in punto di divorzio, dispone che “tutti gli atti, i  documenti  ed  i  provvedimenti  relativi  al procedimento di scioglimento del matrimonio  o  di  cessazione  degli effetti civili del matrimonio nonché’ ai procedimenti anche esecutivi e cautelari diretti ad ottenere  la  corresponsione  o  la  revisione degli assegni di cui agli articoli 5 e  6  della  legge  1°  dicembre 1970, n. 898, sono esenti dall’imposta di bollo,  di  registro  e  da ogni altra tassa”;
  • la Corte Costituzionale, con sentenza 29 aprile-10 maggio 1999, n. 154 ha successivamente dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 19 “nella parte in cui non estende l’esenzione in esso prevista a tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di separazione personale dei coniugi”;
  • “va riconosciuta l’applicabilità dell’esenzione di cui alla n. 74 del 1987 a tutti gli atti e a tutte convenzioni che i coniugi pongono in essere nell’intento di regolare sotto il controllo del giudice i loro rapporti patrimoniali conseguenti allo scioglimento del matrimonio o alla separazione personale, ivi compresi gli accordi che contengono il riconoscimento o il trasferimento della proprietà esclusiva di beni mobili ed immobili all’uno o all’altro coniuge” (cfr., tra le tante, Cass. 14157/2013, 3110/2016, 13840/2020 e 3074/2021)”;
  • “è, quindi, del tutto irrilevante il fatto che l’accordo patrimoniale concluso in sede di separazione abbia ad oggetto la cessione di quote sociali, piuttosto che il trasferimento di beni immobili, con applicazione di tributi indiretti. La norma esentativa, infatti, non opera alcuna distinzione tra atti aventi ad oggetto beni immobili e atti riferiti a beni mobili, nè l’art. 19 1. 74/1987 contiene una limitazione dell’ambito di operatività del regime di esenzione alle sole imposte indirette”.

avv. Marzia Capomagi

Come noto, la nuova formulazione dell’art. 543 c.p.c. ha introdotto l’ulteriore onere in capo al creditore procedente di notificare, a pena di inefficacia del pignoramento, l’avviso di iscrizione a ruolo tanto al debitore quanto ai terzi pignorati.

In particolare, a seguito della novella di cui all’art. 1, comma 32, della Legge 206/2021, sono stati introdotti commi 5 e 6, che prevedono rispettivamente:

  • che “Il creditore, entro la data dell’udienza di comparizione indicata nell’atto di pignoramento, notifica al debitore e al terzo l’avviso di avvenuta iscrizione a ruolo con indicazione del numero di ruolo della procedura e deposita l’avviso notificato nel fascicolo dell’esecuzione. La mancata notifica dell’avviso o il suo mancato deposito nel fascicolo dell’esecuzione determina l’inefficacia del pignoramento” (comma 5).
  • che “Qualora il pignoramento sia eseguito nei confronti di più terzi, l’inefficacia si produce solo nei confronti dei terzi rispetto ai quali non è notificato o depositato l’avviso. In ogni caso, ove la notifica dell’avviso di cui al presente comma non sia effettuata, gli obblighi del debitore e del terzo cessano alla data dell’udienza indicata nell’atto di pignoramento” (comma 6).

 

Negli scorsi mesi, tuttavia, è sorta una grande confusione tra gli addetti circa la necessità che il predetto avviso fosse notificato unicamente tramite UNEP, con conseguente preclusione ai difensori della facoltà di procedere alla notifica in proprio, a seguito di una nota diramata dal Ministero di Giustizia (Nota del Ministero 20 settembre 2022 IV-DOG/03-1/2022/CA), in cui quest’ultimo inquadrava il predetto tra gli “…adempimenti che vanno a perfezionare l’intera procedura del pignoramento presso terzi, l’attività posta in essere dal funzionario UNEP/ufficiale giudiziario va configurata nell’ambito dell’esecuzione forzata e i relativi atti di notifica dell’avviso di avvenuta iscrizione a ruolo con indicazione del numero di ruolo della procedura al debitore e al terzo sono da iscrizione nel registro cronologico…”.

 

Immediata la reazione del CNF, seguita da diversi Consigli dell’Ordine, che, con nota del 26 settembre 2022:

  • chiariva preliminarmente l’inesistenza di un registro dell’esecuzione forzata;
  • evidenziava come, dal tenore letterale dell’art. 543, comma 5, c.p.c., “…tale avviso non possa essere considerato un atto di esecuzione proprio dell’Ufficiale Giudiziario visto che essa recita testualmente che “il creditore (…) notifica (…) e deposita” l’avviso in parola” e che “La parte {e solo la parte} viene individuata come soggetto onerato della notifica dell’avviso, che è atto proprio del difensore che provvede a formarlo e sottoscriverlo”;
  • rappresentava pertanto che “l’avviso da notificarsi in ottemperanza al nuovo art. 543 c.p.c. è formato e sottoscritto solo dalla parte o da suo difensore e non certo dal “funzionario UNEP/ufficiale giudiziario” evocato nel parere in oggetto: quindi, tale avviso non può essere atto di esecuzione, ma, atto di parte da notificarsi a cura del “creditore” e poi versarsi agli atti del processo”.

 

La querelle, fortunatamente, è stata ricomposta dallo stesso Ministero che, con successiva nota dell’8 novembre scorso, in risposta alle legittime contestazioni sollevate:

  • ha precisato che la precedente nota ministeriale “ha un valore esclusivamente interno all’Amministrazione giudiziaria e attinente alla gestione delle risorse umane (in particolare per quanto attinente all’inquadramento dell’attività svolta dal personale UNEP in quanto richiesta dalla parte procedente) e non incide minimamente sul sistema processuale“;
  • ha ulteriormente chiarito che, “il contenuto della suddetta non lascia intendere in alcuna sua parte – né sarebbe la sedes materiae competente – alcuna immutazione della ordinaria disciplina dell’iscrizione a ruolo del pignoramento presso terzi e della notifica del relativo avviso al debitore e al terzo pignorato“.

Avv. Luigi Romano

Le Sezioni Unite, con l’allegata sentenza 33645/2022, pubblicata in data 15 novembre 2022, hanno posto fine al contrasto giurisprudenziale sussistente in ordine alla questione della risarcibilità del danno da occupazione abusiva di un immobile e del conseguente onere probatorio a carico del danneggiato.

Detto contrasto giurisprudenziale vedeva contrapposi due orientamenti: il primo (fatto proprio, tra l’altro, dalla Seconda sezione civile della Cassazione) che considerava il danno in re ipsa o presunto ed oggetto di una presunzione iuris tantum, discendendo dalla perdita della disponibilità del bene e dalla impossibilità di conseguire l’utilità da esso ricavabile; il secondo (sposato dalla Terza sezione civile della Cassazione), ispirato alla teoria causale del danno, che affermava che il danno da occupazione abusiva, quale danno conseguenza, debba essere invece allegato e provato da parte del danneggiato, anche mediante il ricorso a presunzioni semplici.

In entrambi i casi dunque, il danno subito dal proprietario a seguito di una illegittima occupazione di un immobile era comunque sempre oggetto di una presunzione correlata alla normale fruttuosità del bene.

La Sezioni Unite, nel risolvere il suddetto contrasto di orientamenti, fanno propria la tesi giurisprudenziale sposata dalla più recente giurisprudenza della Seconda Sezione civile, statuendo i seguenti principi di diritto:

  • il fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da occupazione abusiva consiste proprio nella impossibilità per lo stesso di esercitare il diritto di godimento del bene, diretto o indiretto (dunque cedendolo a terzi dietro corrispettivo). Tale fatto va allegato dall’attore danneggiato ed a fronte di tale allegazione il convenuto ha l’onere di specificamente contestare il fatto che il proprietario avrebbe mai esercitato il diritto di godimento che assume aver perduto. Solo in presenza di tale specifica contestazione avversaria, sorge a carico del danneggiato l’onere della prova dello specifico godimento perso, che può essere assolto mediante il ricorso a presunzioni semplici o nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza.
  • Quanto alla liquidazione del danno “sia nel caso di godimento diretto, che in quello di godimento indiretto, il danno può essere valutato equitativamente ai sensi dell’art. 1226 c.c., attingendo al parametro del canone locativo di mercato quale valore economico del godimento nell’ambito di un contratto tipizzato dalla legge, come la locazione, che fa proprio del canone il valore di godimento della cosa”.
  • Resta fermo il diritto del danneggiato al risarcimento del danno da mancato guadagno, ove comprovato da quest’ultimo, da intendersi come “lo specifico pregiudizio subito, quale quello che, in mancanza dell’occupazione, egli avrebbe concesso il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore al canone locativo di mercato e che lo avrebbe venduto ad un prezzo più conveniente a quello di mercato”, con la precisazione che, “ove insorga controversia in relazione al fatto costitutivo del lucro cessante allegato, l’onus probandi anche in questo caso può naturalmente essere assolto mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza o le presunzioni semplici”.

Avv. Marzia Capomagi

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