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[:it]downloadDi recente, l’Avvocato Generale Wathelet, tra i massimi esperti di diritto internazionale privato dell’UE, ha presentato delle interessanti conclusioni all’interno della richiesta di rinvio pregiudiziale presentata dalla Corte Costituzionale della Romania, ritenendo gli Stati membri obbligati a concedere ai coniugi, anche dello stesso sesso, di cittadini UE il permesso a soggiornare permanentemente sul proprio territorio.

Il giudizio a quo

 La vicenda trae origine dalla diniego opposto dalle autorità rumene alla richiesta, presentata da parte di un cittadino rumeno, del rilascio in favore del proprio coniuge – cittadino statunitense con il quale aveva convissuto per 4 anni negli U.S.A., per poi sposarsi a Bruxelles e ritrasferirsi con quest’ultimo in Romania – dei documenti necessari affinché questi potesse ivi lavorare e soggiornare in modo permanente.

Detto diniego veniva motivato sulla scorta del mancato riconoscimento da parte della Romania dei matrimoni tra le persone dello stesso sesso, con conseguente impossibilità, ad avviso delle autorità rumene, di poter concedere al sig. Hamilton il diritto di soggiorno spettante, secondo la Direttiva 2004/38/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004 relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, al coniuge di un cittadino UE.

La coppia decide pertanto di proporre ricorso avverso detta decisione, sollevando un’eccezione di incostituzionalità relativa all’art. 277, paragrafi 2 e 4 del c.c. rumeno, ritenendo che “…il mancato riconoscimento dei matrimoni tra persone dello stesso sesso conclusi all’estero, ai fini dell’esercizio del diritto di soggiorno, costituisce una violazione delle disposizioni della Costituzione rumena che tutelano il diritto alla vita intima, familiare e privata nonché delle disposizioni relative al principio di uguaglianza”.

Le questioni pregiudiziali sottoposte alla CGUE

La Corte costituzionale, investita della questione, decide pertanto di interrompere il giudizio, sottoponendo alla CGUE le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)   Se il termine “coniuge”, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/38, in combinato disposto con gli articoli 7, 9, 21 e 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, si applichi a un cittadino di uno Stato che non è membro dell’Unione, dello stesso sesso del cittadino dell’Unione con il quale egli è legittimamente sposato in base alla legge di uno Stato membro diverso da quello ospitante.

2)   In caso di risposta affermativa, se gli articoli 3, paragrafo 1, e 7, paragrafo [2], della direttiva 2004/38, in combinato disposto con gli articoli 7, 9, 21 e 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, richiedano che lo Stato membro ospitante conceda il diritto di soggiorno sul proprio territorio per un periodo superiore a 3 mesi al coniuge dello stesso sesso di un cittadino dell’Unione.

3)     In caso di risposta negativa alla prima questione, se il coniuge dello stesso sesso, proveniente da uno Stato che non è membro dell’Unione, di un cittadino dell’Unione con il quale il cittadino si è legittimamente sposato in base alla legge di uno Stato membro diverso da quello ospitante, possa essere qualificato come “ogni altro familiare” ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/38 o “partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata” ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2004/38, con il corrispondente obbligo dello Stato ospitante di agevolare l’ingresso e il soggiorno dello stesso, anche se lo Stato ospitante non riconosce i matrimoni tra persone dello stesso sesso né prevede qualsiasi altra forma alternativa di riconoscimento giuridico, come le unioni registrate.

4)     In caso di risposta affermativa alla terza questione, se gli articoli 3, paragrafo 2, e 7, paragrafo 2, della direttiva 2004/38, in combinato disposto con gli articoli 7, 9, 21 e 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, richiedano che lo Stato membro ospitante conceda il diritto di soggiorno sul proprio territorio per un periodo superiore a 3 mesi al coniuge dello stesso sesso di un cittadino dell’Unione».

Le conclusioni dell’A.G.

Sulla questione ha espresso le seguenti condivisibili valutazioni, l’avvocato Generale Watelet.

Partendo dal dato normativo, il prof. Watelet, afferma che:

  • l’art. 3, par. 1 della Direttiva 2004/38/CE, definisce gli aventi diritto come “…qualsiasi cittadino dell’Unione che si rechi o soggiorni in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, nonché [i] suoi familiari ai sensi dell’articolo 2, punto 2, che accompagnino o raggiungano il cittadino medesimo…”;
  • detta direttiva, di per sé, non consente “…di fondare un diritto di soggiorno derivato a favore di cittadini di paesi terzi, familiari di un cittadino dell’Unione, nello Stato membro di cui tale cittadino possieda la cittadinanza”;
  • tuttavia, vi sono alcuni casi in cui “…un diritto di soggiorno derivato possa fondarsi sull’articolo 21, paragrafo 1, TFUE e che, in tale contesto, la direttiva 2004/38 debba essere applicata per analogia...”;
  • ciò accade, in particolare, come già sottolineato dalla CGUE, «…quando, nel corso di un soggiorno effettivo del cittadino dell’Unione nello Stato membro ospitante, ai sensi e nel rispetto delle condizioni dell’articolo 7, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2004/38, si sia sviluppata o consolidata una vita familiare in quest’ultimo Stato membro, l’efficacia pratica dei diritti che al cittadino dell’Unione interessato derivano dall’articolo 21, paragrafo 1, TFUE impone che la vita familiare che detto cittadino abbia condotto nello Stato membro ospitante possa proseguire al suo ritorno nello Stato membro di cui possiede la cittadinanza, grazie alla concessione di un diritto di soggiorno derivato al familiare interessato, cittadino di un paese terzo. Difatti, in mancanza di un siffatto diritto di soggiorno derivato, tale cittadino dell’Unione sarebbe dissuaso dal lasciare lo Stato membro di cui possiede [la] cittadinanza al fine di avvalersi del suo diritto di soggiorno, ai sensi dell’articolo 21, paragrafo 1, TFUE, in un altro Stato membro, a causa della circostanza che egli non ha la certezza di poter proseguire nello Stato membro di origine una vita familiare con i propri stretti congiunti sviluppata o consolidata nello Stato membro ospitante…»;
  • l’art. 2, punto 2, lett. a), della direttiva 2004/38/CE “…non contiene alcun rinvio al diritto degli Stati membri per determinare la qualifica di «coniuge”, con la conseguenza di dover dare una nozione di “coniuge”, ai sensi della predetta direttiva, che sia autonoma e uniforme per l’intera Unione, indipendentemente dalla definizione data dai singoli Stati membri;
  • la nozione “evolutiva” di coniuge, recepita dalla giurisprudenza della Corte EDU, ha portato a ritenere inaccettabile una disparità di trattamento basata unicamente e/o prevalentemente su “…considerazioni relative all’orientamento sessuale delle persone interessate…”, con conseguente necessità di attribuire alla nozione di coniuge ai sensi dell’art. 2, punto 2, lett. a), della direttiva 2004/38 “…autonoma indipendente dall’orientamento sessuale”.

Sulla stregua di dette premesse, l’avvocato generale conclude, pertanto, affermando che:

«1)  L’articolo 2, punto 2, lettera a), della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE dev’essere interpretato nel senso che la nozione di “coniuge” si applica a un cittadino di uno Stato terzo sposato con un cittadino dell’Unione europea dello stesso sesso.

2)   Gli articoli 3, paragrafo 1, e 7, paragrafo 2, della direttiva 2004/38 devono essere interpretati nel senso che il coniuge dello stesso sesso di un cittadino dell’Unione che accompagna detto cittadino nel territorio di un altro Stato membro beneficia in tale Stato di un diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi, purché quest’ultimo risponda alle condizioni di cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettere a), b) o c), di tale direttiva.

L’articolo 21, paragrafo 1, TFUE dev’essere interpretato nel senso che, in una situazione in cui un cittadino dell’Unione ha sviluppato o consolidato una vita familiare con un cittadino di uno Stato terzo in occasione di un soggiorno effettivo in uno Stato membro diverso da quello di cui possiede la cittadinanza, le disposizioni della direttiva 2004/38 si applicano per analogia se detto cittadino dell’Unione rientra, con il familiare interessato, nel proprio Stato membro d’origine. In tale ipotesi, le condizioni per la concessione di un diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi al cittadino di uno Stato terzo, coniuge dello stesso sesso di un cittadino dell’Unione, non dovrebbero, in via di principio, essere più severe di quelle previste all’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2004/38.

3)   L’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2004/38 dev’essere interpretato nel senso che è applicabile alla situazione di un cittadino di uno Stato terzo, sposato con un cittadino dell’Unione dello stesso sesso conformemente alla legge di uno Stato membro, in qualità di “altro familiare” o come “partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata”.

4)   L’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2004/38 dev’essere interpretato nel senso che:

  • non impone agli Stati membri di concedere un diritto di soggiorno nel loro territorio per un periodo superiore a tre mesi al cittadino di uno Stato terzo legalmente sposato con un cittadino dell’Unione dello stesso sesso;
  • gli Stati membri sono tuttavia tenuti ad assicurarsi che la loro legislazione contenga criteri che consentano a detto cittadino di ottenere una decisione sulla sua domanda di ingresso e di soggiorno fondata su un esame approfondito della sua situazione personale e motivata in caso di rifiuto;
  • sebbene gli Stati membri abbiano un ampio potere discrezionale nella scelta di detti criteri, questi ultimi, tuttavia, devono essere conformi al significato comune del termine “agevola” e non devono privare tale disposizione del suo effetto utile, e
  • il rifiuto opposto alla domanda di ingresso e di soggiorno, in ogni caso, non può fondarsi sull’orientamento sessuale della persona interessata».

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downloadLa Corte di Giustizia dell’Unione europea, pronunciandosi sul rinvio pregiudiziale del Tribunale regionale di Gorzów Wielkopolski (Polonia), ha affermato che “L’articolo 1, paragrafo 2, lettere k) ed l), nonché l’articolo 31 del regolamento (UE) n. 650/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 luglio 2012, relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e all’accettazione e all’esecuzione degli atti pubblici in materia di successioni e alla creazione di un certificato successorio europeo, devono essere interpretati nel senso che essi ostano al diniego di riconoscimento, da parte di un’autorità di uno Stato membro, degli effetti reali del legato «per rivendicazione», conosciuto dal diritto applicabile alla successione, per il quale un testatore abbia optato conformemente all’articolo 22, paragrafo 1, di detto regolamento, qualora questo diniego si fondi sul motivo vertente sul fatto che tale legato ha ad oggetto il diritto di proprietà su un immobile situato in detto Stato membro, la cui legislazione non conosce l’istituto del legato ad effetti reali diretti alla data di apertura della successione”.

Il giudizio a quo

La pronuncia trae origine da una procedura iniziata da una cittadina polacca, residente in Germania, tesa ad ottenere la redazione da parte di un notaio tedesco di un testamento pubblico che prevedesse «…un legato “per rivendicazione”, consentito a norma del diritto polacco, a favore di suo marito, relativo alla quota di cui è proprietaria nell’immobile comune situato a Francoforte sull’Oder». Il notaio, tuttavia, si rifiutava ritenendo detto legato contrario alle normative e alla giurisprudenza tedesca relativa ai diritti reali e al catasto, proponendo alla sig.ra di ricorrere alla diversa figura del c.d. “legato obbligatorio”, previsto dall’art. 968 del codice civile tedesco, alla luce anche dell’adattamento dei legati per rivendicazione stranieri in legati obbligatori in virtù dell’art. 31 del regolamento 650/12/UE, che recita: «Se una persona invoca un diritto reale che le spetta secondo la legge applicabile alla successione e la legge dello Stato membro in cui il diritto è invocato non conosce il diritto reale in questione, tale diritto è adattato, se necessario e nella misura del possibile, al diritto reale equivalente più vicino previsto dalla legge di tale Stato, tenendo conto degli obiettivi e degli interessi perseguiti dal diritto reale in questione nonché dei suoi effetti».

La ricorrente decideva di presentare ricorso avverso tale rifiuto, ritenendo insussistenti giustificazioni tali da impedire il riconoscimento in Germania degli effetti reali del legato per rivendicazione e, dall’altro, escludendo la possibilità di ricorrere al legato “ordinario”, “…in quanto quest’ultimo comporterebbe difficoltà collegate alla rappresentanza dei suoi figli minorenni, che possono essere chiamati all’eredità, nonché costi aggiuntivi”.

A fronte del mancato accoglimento del predetto ricorso, la sig.ra Kubicka presentava analogo ricorso dinnanzi al Tribunale regionale di Gorzów Wielkopolski, il quale decideva di sospendere il giudizio e interrogare la Corte di Giustizia dell’Unione europea sulla seguente questione: «… se l’articolo 1, paragrafo 2, lettere k) ed l), nonché l’articolo 31 del regolamento n. 650/2012 debbano essere interpretati nel senso che essi ostano al diniego di riconoscimento, da parte di un’autorità di uno Stato membro, degli effetti reali del legato «per rivendicazione», conosciuto dal diritto applicabile alla successione, per il quale un testatore abbia optato conformemente all’articolo 22, paragrafo 1, di detto regolamento, qualora questo diniego si fondi sul motivo vertente sul fatto che tale legato ha ad oggetto il diritto di proprietà su un immobile situato in un altro Stato membro, la cui legislazione non conosce l’istituto del legato ad effetti reali diretti alla data di apertura della successione».

La pronuncia della Corte

La Corte di Giustizia, risponde negando l’esistenza di motivi ostativi al suo riconoscimento sulla base delle seguenti condivisibili argomentazioni:

  • Il 15° ‘considerando’ del regolamento in oggetto consente ad uno Stato membro di non riconoscere nel proprio ordinamento diritti reali previsti da ordinamenti stranieri su beni situati nel proprio territorio qualora non rientranti nel numerus clausus di quelli contemplati dal proprio ordinamento. Tuttavia, nella fattispecie, tanto il legato “per rivendicazione” previsto dal diritto polacco, quanto il legato “ordinario” previsto dal diritto tedesco, costituiscono mere modalità di trasferimento del medesimo diritto reale di proprietà, contemplato da ambedue gli ordinamenti nazionali;
  • A ciò consegue che l’articolo 1, paragrafo 2, lettera k), del regolamento n. 650/2012 “…osta al diniego di riconoscimento in uno Stato membro, il cui ordinamento giuridico non conosce l’istituto del legato «per rivendicazione», degli effetti reali prodotti da un tale legato alla data di apertura della successione in applicazione della legge sulle successioni che è stata scelta dal testatore”;
  • Parimenti, non osta a tale riconoscimento il dettato dell’art. 1, paragrafo 2, lettera l), del regolamento n. 650/2012, in quanto, poiché «…riguarda solo l’iscrizione in un registro dei diritti su beni mobili o immobili, compresi i requisiti legali relativi a tale iscrizione, e gli effetti dell’iscrizione o della mancata iscrizione di tali diritti in un registro, le condizioni alle quali tali diritti sono acquisiti non rientrano tra le materie escluse dall’ambito di applicazione di tale regolamento in virtù di tale disposizione».
  • Alla luce di quanto sopra esposto la Corte conclude dichiarando che: «L’articolo 1, paragrafo 2, lettere k) ed l), nonché l’articolo 31 del regolamento (UE) n. 650/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 luglio 2012, relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e all’accettazione e all’esecuzione degli atti pubblici in materia di successioni e alla creazione di un certificato successorio europeo, devono essere interpretati nel senso che essi ostano al diniego di riconoscimento, da parte di un’autorità di uno Stato membro, degli effetti reali del legato «per rivendicazione», conosciuto dal diritto applicabile alla successione, per il quale un testatore abbia optato conformemente all’articolo 22, paragrafo 1, di detto regolamento, qualora questo diniego si fondi sul motivo vertente sul fatto che tale legato ha ad oggetto il diritto di proprietà su un immobile situato in detto Stato membro, la cui legislazione non conosce l’istituto del legato ad effetti reali diretti alla data di apertura della successione».

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downloadCon sentenza del 14 giugno 2017, la Corte di Giustizia dell’Unione europea, si è pronunciata sulla domanda di interpretazione pregiudiziale del Tribunale civile di Verona, vertente sulla legittimità della previsione, da parte del legislatore italiano, della mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale relativa a controversie riguardanti la tutela dei consumatori.

Il giudizio a quo e le domande rivolte alla CGUE

La domanda trae origine dall’opposizione presentata da due consumatori avverso il decreto ingiuntivo – ottenuto in loro danno dal proprio istituto bancario, nell’ambito di un regolamento del saldo debitore del conto corrente degli stessi, a seguito dell’apertura di credito loro concessa – senza aver previamente esperito l’obbligatorio procedimento di mediazione.

Il Tribunale di Verona, investito della questione, ritenendo le disposizioni interne in materia di mediazione obbligatoria in contrasto con la direttiva 2013/11/UE, decide di interrogare pertanto la Corte di Lussemburgo. In particolare, ad avviso del tribunale nostrano, la previsione della mediazione quale condizione di procedibilità risulterebbe sfavorevole rispetto a quanto previsto dall’art. 9 della succitata direttiva in quanto, mentre la normativa europea “…lascia alle parti la scelta non solo di partecipare o meno alla procedura ADR [alternative dispute resolution], ma anche di ritirarsi in qualsiasi momento dalla stessa…”, di contro, quella italiana non consente alle parti di “…ritirarsi dalla procedura di mediazione in ogni momento, e senza conseguenze di sorta, se non sono soddisfatte delle prestazioni o del funzionamento della procedura”.

Due, in particolare, sono le domande rivolte alla Corte di Giustizia:

«1) Se 1’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2013/11, nella parte in cui prevede che la medesima direttiva si applichi “fatta salva la direttiva 2008/52”, vada inteso nel senso che fa salva la possibilità per i singoli Stati membri di prevedere la mediazione obbligatoria per le sole ipotesi che non ricadono nell’ambito di applicazione della direttiva 2013/11, vale a dire le ipotesi di cui all’articolo 2, paragrafo 2 della direttiva 2013/11, le controversie contrattuali derivanti da contratti diversi da quelli di vendita o di servizi oltre quelle che non riguardino consumatori

«2) Se l’articolo 1 (…) della direttiva 2013/11, nella parte in cui assicura ai consumatori la possibilità di presentare reclamo nei confronti dei professionisti dinanzi ad appositi organismi di risoluzione alternativa delle controversie, vada interpretato nel senso che tale norma osta ad una norma nazionale che prevede il ricorso alla mediazione, in una delle controversie di cui all’articolo 2, paragrafo 1 della direttiva 2013/11, quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale della parte qualificabile come consumatore, e, in ogni caso, ad una norma nazionale che preveda l’assistenza difensiva obbligatoria, ed i relativi costi, per il consumatore che partecipi alla mediazione relativa ad una delle predette controversie, nonché la possibilità di non partecipare alla mediazione se non in presenza di un giustificato motivo»

La (non) risposta alla prima questione

I giudici dell’Unione affrontando la prima questione, evidenziano come:

  • la direttiva 2008/52/CE, che mira a facilitare l’accesso a strumenti di risoluzione alternativa delle controversie (c.d. ADR), ha un ambito d’applicazione limitato alle sole controversie transfrontaliere in materia civile e commerciale;
  • tuttavia, tanto l’8° considerando della direttiva in oggetto, quanto il 19° considerando della direttiva 2013/11 lascia impregiudicata la facoltà per uno Stato membro di applicare la direttiva 2008/52 anche alle controversie puramente interne;
  • l’Italia ha pertanto legittimamente esteso l’applicazione del decreto legislativo n°28/2010 anche alle controversie puramente interne, avvalendosi della discrezionalità riconosciutale dalla normativa europea.

La Corte, tuttavia, conclude senza dare una risposta alla prima questione, in considerazione del fatto che la suddetta estensione “…non può avere l’effetto di ampliare l’ambito di applicazione della direttiva 2008/52, come definito dall’articolo 1, paragrafo 2, della stessa”.

La risposta alla seconda questione

Passando alla seconda questione, la Corte riformula la domanda del Tribunale italiano individuando tre sotto quesiti:

  1. se la direttiva 2013/11 osti a che una normativa nazionale, quale quella italiana, preveda “…il ricorso obbligatorio a una procedura di mediazione, nelle controversie indicate all’articolo 2, paragrafo 1, di tale direttiva, come condizione di procedibilità della domanda giudiziale relativa a queste medesime controversie”;
  2. se detta direttiva consenta o meno alla normativa nazionale di prevedere che i consumatori debbano essere assistiti da una avvocato in siffatta mediazione;
  3. da ultimo, se la normativa italiana possa legittimamente subordinare la facoltà per i consumatori di sottrarsi ad un previo ricorso alla mediazione unicamente “…se dimostrano l’esistenza di un giustificato motivo a sostegno di tale decisione”.

A riguardo, la Corte preliminarmente individua l’ambito di applicazione della direttiva 2013/11, la quale si applica non già indiscriminatamente a tutte le controversie che coinvolgono consumatori, bensì esclusivamente a quelle che soddisfino i seguenti presupposti cumulativi:

  1. che la procedura sia stata promossa da un consumatore nei confronti di un professionista, secondo le definizioni contenute nella stessa direttiva;
  2. che la controversia abbia ad oggetto obbligazioni contrattuali discendenti da contratti di vendita o di servizi;
  3. che la procedura azionata rispetti i requisiti di cui all’art. 4, par. 1, lett. g), e, in particolare, risulti essere “indipendente, imparziale, trasparente, efficace, rapida ed equa”;
  4. che la procedura sia affidata ad un organismo ADR, istituito su base permanente, inserito nell’elenco di cui all’art. 20, par. 2.

Una volta chiarita l’applicabilità della direttiva in oggetto al caso di specie, la Corte, in risposta al secondo quesito, così come sopra tripartito, afferma che:

  • la previsione da parte dell’Italia di una mediazione obbligatoria è di per sé legittima in quanto, ai sensi del combinato disposto dell’art. 1 della direttiva 2013/11 e art. 3, lett. a) della direttiva 2008/52, agli Stati membri è riconosciuta la discrezionalità di prevedere l’obbligatorietà della partecipazione alle procedure ADR, purché ciò non impedisca il diritto di accesso delle parti al sistema giudiziario;
  • tale previsione, tuttavia, deve rivelarsi compatibile, in un’ottica di bilanciamento, con il principio della tutela giurisdizionale effettiva; compatibilità da ritenersi esistente “...qualora tale procedura non conduca a una decisione vincolante per le parti, non comporti un ritardo sostanziale per la proposizione di un ricorso giurisdizionale, sospenda la prescrizione o la decadenza dei diritti in questione e non generi costi, ovvero generi costi non ingenti, per le parti, a patto però che la via elettronica non costituisca l’unica modalità di accesso a detta procedura di conciliazione e che sia possibile disporre provvedimenti provvisori nei casi eccezionali in cui l’urgenza della situazione lo impone”;
  • tale giudizio di compatibilità è demandato al giudice nazionale che, nel caso de quo, deve verificare la compatibilità tra la normativa nazionale in oggetto (art. 5 del d.lgs. n°28/2010 e art. 141 cod. consumo) e il suddetto principio;
  • di contro, è certamente in contrasto con gli articoli 8, lett. b) e 9, par. 1, lett. b), la previsione da parte della normativa italiana dell’obbligo di assistenza di un avvocato e ciò in quanto i suddetti articoli espressamente impongono agli Stati di garantire “…che le parti abbiano accesso alla procedura ADR senza essere obbligate a ricorrere a un avvocato o a un consulente legale”, prevedendo altresì un obbligo di informazione in tal senso;
  • parimenti, limitare la possibilità per il consumatore di ritirarsi dalla procedura di mediazione nel solo caso in cui dimostri l’esistenza di un giustificato motivo così come la previsione di sanzioni nel successivo procedimento giurisdizionale in caso di ritiro ingiustificato, sono da considerarsi contrari all’obiettivo perseguito dalla direttiva 2013/11 e al disposto dell’art. 9, par. 2, lett. a) della stessa, che “…impone agli Stati membri di garantire che le parti abbiano la possibilità di riteriarsi dalla procedura in qualsiasi momento se non sono soddisfatte dalle prestazioni o dal funzionamento della procedura”, precisando altresì che, nel caso di previsione da parte della normativa nazionale, della partecipazione obbligatoria del professionista a detta procedura il diritto di ritirarsi deve spettare esclusivamente al consumatore e non anche al professionista;
  • da ultimo, la Corte specifica, alla luce delle dichiarazioni del governo italiano – ad avviso del quale la previsione dell’imposizione di un ammenda da parte del giudice nel successivo procedimento non riguarderebbe il caso in cui lo stesso si sia ritirato bensì nel solo caso di mancata partecipazione senza giustificato motivo – che, qualora ciò sia verificato dal giudice a quo, in tale caso la direttiva non osterebbe a una tale previsione “…purché egli possa porvi fine senza restrizioni successivamente al primo incontro”.

La Corte conclude pertanto, rispondendo alle questioni postele dal giudice italiano nei seguenti termini:

  • «la direttiva 2013/11 dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che prevede il ricorso a una procedura di mediazione, nelle controversie indicate all’articolo 2, paragrafo 1, di tale direttiva, come condizione di procedibilità della domanda giudiziale relativa a queste medesime controversie, purché un requisito siffatto non impedisca alle parti di esercitare il loro diritto di accesso al sistema giudiziario;
  • la medesima direttiva dev’essere invece interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, la quale prevede che, nell’ambito di una mediazione siffatta, i consumatori debbano essere assistiti da un avvocato e possano ritirarsi da una procedura di mediazione solo se dimostrano l’esistenza di un giustificato motivo a sostegno di tale decisione.»

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[:it]La Corte di Giustizia dell’Unione europea, con sentenza del 6 giugno 2013, si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale proposto, ai sensi dell’art. 267 TFUE, dalla Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) (Regno Unito), avente ad oggetto l’interpretazione dell’art. 6 del regolamento (CE) 343/2003, c.d. di Dublino II, al fine di individuare la competenza ad esaminare una domanda di asilo presentata in più di uno Stato membro da parte di minori non accompagnati e sprovvisti di familiari presenti legalmente nel territorio dell’Unione europea.
La vicenda trae origine dalla controversia sorta tra tre minori richiedenti asilo non accompagnati e privi di legami familiari all’interno dell’Unione ed il Secretary of State for the Home Department, a seguito della decisione delle autorità britanniche di non esaminare la loro domanda d’asilo e di trasferire gli stessi verso gli Stati membri in cui per primi avevano presentato domanda. In particolare, i tre minore, due di nazionalità eritrea e uno di nazionalità irachena, dopo aver presentato inizialmente domanda di asilo rispettivamente in Italia e Olanda, si erano successivamente trasferiti nel Regno Unito presentandone una ulteriore. Le autorità britanniche, tuttavia, prendendo atto dell’esistenza di una domanda già proposta in un diverso Stato membro e del consenso delle autorità italiane ed olandesi, disponevano il loro trasferimento. I richiedenti asilo presentavano ricorso avverso la decisione di trasferimento, la quale veniva tuttavia rigettata dalla High Court of Justice, ad avviso della quale, in forza dell’art. 6, co. 2, del Regolamento Dublino II, la competenza ad esaminare la domanda di asilo spettava unicamente allo Stato in cui tale domanda è stata presentata per la prima volta. A seguito dell’appello avverso tale decisione, la Court of Appeal decideva di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di Giustizia la seguente questione pregiudiziale: «Nel contesto del regolamento [n. 343/2003], quale sia lo Stato membro al quale il secondo comma dell’articolo 6 attribuisce la competenza a pronunciarsi sulla domanda d’asilo quando un richiedente asilo, che sia un minore non accompagnato e sprovvisto di familiari che si trovino legalmente in uno Stato membro, ha presentato domande di asilo in più di uno Stato membro».
La Corte di Giustizia, pronunciandosi sulla questione, preliminarmente rigetta la questione di irricevibilità del ricorso sollevata dal governa belga, ad avviso del quale la questione sottoposta alla Corte aveva di carattere meramente ipotetico, sulla base della presunzione di pertinenza e dell’esistenza di un giudizio di risarcimento su cui doveva ancora pronunciarsi il giudice del rinvio. La Corte successivamente, riformulando la domanda sollevata dalla corte britannica, si interroga sul sistema di ripartizione della competenza ad esaminare una domanda di asilo, ai sensi dell’art. 6 del Regolamento, proposta da un minore non accompagnato sprovvisto di familiari legalmente presenti sul territorio dell’Unione, tra “… o Stato membro nel quale il minore abbia presentato la sua prima domanda ovvero quello in cui egli si trova dopo avervi presentato la sua ultima domanda in tal senso”. A riguardo la Corte chiarisce in primis che, non essendovi presenti familiari regolarmente presenti sul territorio dell’Unione, tale competenza debba essere individuata ai sensi dell’art. 6, co. 2, il quale prevede che la stessa spetti alla Stato membro “…in cui il minore ha presentato la domanda d’asilo”. A tal fine, ad avviso della Corte, poiché la formulazione della norma non chiarisce se tale Stato debba individuarsi con il primo in cui sia stata presentata la domanda ovvero in quello in cui il minore abbia presentato da ultimo la domanda, è necessario procedere alla sua interpretazione contestuale e teleologica.
La Corte individua quale primo elemento da cui far derivare la competenza dell’ultimo Stato membro in cui è presentata la domanda il mancato riferimento nell’art. 6, para. 2 del Regolamento al “primo Stato membro”, presente invece nell’art. 5, para. 2, alla stregua del noto brocardo “ubi voluit dixit”.
La Corte trae ulteriore argomento a supporto della sua conclusione dall’interpretazione teleologica del regolamento. Ad avviso della Corte, poiché esso è volto a garantire l’effettivo accesso all’esame della situazione del richiedente asilo, accordando al contempo particolare attenzione ai minori non accompagnati, quale categoria di persone particolarmente vulnerabili, la procedura di determinazione dello Stato membro competente non dev’essere prolungata più di quanto strettamente necessario con la conseguenza che, in linea di principio, essi non siano trasferiti verso un altro Stato membro.
Queste considerazioni sono da ultimo confortate dalla necessità di rispettare i diritti fondamentali garantiti dall’Unione europea, tra i quali, in particolare, la garanzia che, in tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del minore sia considerato preminente. Di conseguenza, nell’interesse dei minori non accompagnati, è necessario non prolungare inutilmente la procedura di determinazione dello Stato membro competente, bensì assicurare loro un rapido accesso alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato.
La Corte precisa da ultimo come che una siffatta interpretazione non implica tuttavia la possibilità per il minore non accompagnato la cui domanda sia stata respinta nel merito in un primo Stato membro di imporre a un altro Stato membro di esaminare un’altra domanda
La Corte di giustizia conclude pertanto dichiarando che l’art. 6, co. 2, del regolamento n°343/2003 attribuisce la competenza allo Stato membro in cui si trova il minore non accompagnato che non abbia familiari legalmente nel territorio degli Stati membri.[:en]6. Il trasferimento di minori non accompagnati – C-648/11, MA, BT, DA.
La Corte di Giustizia dell’Unione europea, con sentenza del 6 giugno 2013, si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale proposto, ai sensi dell’art. 267 TFUE, dalla Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) (Regno Unito), avente ad oggetto l’interpretazione dell’art. 6 del regolamento (CE) 343/2003, c.d. di Dublino II, al fine di individuare la competenza ad esaminare una domanda di asilo presentata in più di uno Stato membro da parte di minori non accompagnati e sprovvisti di familiari presenti legalmente nel territorio dell’Unione europea.
La vicenda trae origine dalla controversia sorta tra tre minori richiedenti asilo non accompagnati e privi di legami familiari all’interno dell’Unione ed il Secretary of State for the Home Department, a seguito della decisione delle autorità britanniche di non esaminare la loro domanda d’asilo e di trasferire gli stessi verso gli Stati membri in cui per primi avevano presentato domanda. In particolare, i tre minore, due di nazionalità eritrea e uno di nazionalità irachena, dopo aver presentato inizialmente domanda di asilo rispettivamente in Italia e Olanda, si erano successivamente trasferiti nel Regno Unito presentandone una ulteriore. Le autorità britanniche, tuttavia, prendendo atto dell’esistenza di una domanda già proposta in un diverso Stato membro e del consenso delle autorità italiane ed olandesi, disponevano il loro trasferimento. I richiedenti asilo presentavano ricorso avverso la decisione di trasferimento, la quale veniva tuttavia rigettata dalla High Court of Justice, ad avviso della quale, in forza dell’art. 6, co. 2, del Regolamento Dublino II, la competenza ad esaminare la domanda di asilo spettava unicamente allo Stato in cui tale domanda è stata presentata per la prima volta. A seguito dell’appello avverso tale decisione, la Court of Appeal decideva di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di Giustizia la seguente questione pregiudiziale: «Nel contesto del regolamento [n. 343/2003], quale sia lo Stato membro al quale il secondo comma dell’articolo 6 attribuisce la competenza a pronunciarsi sulla domanda d’asilo quando un richiedente asilo, che sia un minore non accompagnato e sprovvisto di familiari che si trovino legalmente in uno Stato membro, ha presentato domande di asilo in più di uno Stato membro».
La Corte di Giustizia, pronunciandosi sulla questione, preliminarmente rigetta la questione di irricevibilità del ricorso sollevata dal governa belga, ad avviso del quale la questione sottoposta alla Corte aveva di carattere meramente ipotetico, sulla base della presunzione di pertinenza e dell’esistenza di un giudizio di risarcimento su cui doveva ancora pronunciarsi il giudice del rinvio. La Corte successivamente, riformulando la domanda sollevata dalla corte britannica, si interroga sul sistema di ripartizione della competenza ad esaminare una domanda di asilo, ai sensi dell’art. 6 del Regolamento, proposta da un minore non accompagnato sprovvisto di familiari legalmente presenti sul territorio dell’Unione, tra “… o Stato membro nel quale il minore abbia presentato la sua prima domanda ovvero quello in cui egli si trova dopo avervi presentato la sua ultima domanda in tal senso”. A riguardo la Corte chiarisce in primis che, non essendovi presenti familiari regolarmente presenti sul territorio dell’Unione, tale competenza debba essere individuata ai sensi dell’art. 6, co. 2, il quale prevede che la stessa spetti alla Stato membro “…in cui il minore ha presentato la domanda d’asilo”. A tal fine, ad avviso della Corte, poiché la formulazione della norma non chiarisce se tale Stato debba individuarsi con il primo in cui sia stata presentata la domanda ovvero in quello in cui il minore abbia presentato da ultimo la domanda, è necessario procedere alla sua interpretazione contestuale e teleologica.
La Corte individua quale primo elemento da cui far derivare la competenza dell’ultimo Stato membro in cui è presentata la domanda il mancato riferimento nell’art. 6, para. 2 del Regolamento al “primo Stato membro”, presente invece nell’art. 5, para. 2, alla stregua del noto brocardo “ubi voluit dixit”.
La Corte trae ulteriore argomento a supporto della sua conclusione dall’interpretazione teleologica del regolamento. Ad avviso della Corte, poiché esso è volto a garantire l’effettivo accesso all’esame della situazione del richiedente asilo, accordando al contempo particolare attenzione ai minori non accompagnati, quale categoria di persone particolarmente vulnerabili, la procedura di determinazione dello Stato membro competente non dev’essere prolungata più di quanto strettamente necessario con la conseguenza che, in linea di principio, essi non siano trasferiti verso un altro Stato membro.
Queste considerazioni sono da ultimo confortate dalla necessità di rispettare i diritti fondamentali garantiti dall’Unione europea, tra i quali, in particolare, la garanzia che, in tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del minore sia considerato preminente. Di conseguenza, nell’interesse dei minori non accompagnati, è necessario non prolungare inutilmente la procedura di determinazione dello Stato membro competente, bensì assicurare loro un rapido accesso alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato.
La Corte precisa da ultimo come che una siffatta interpretazione non implica tuttavia la possibilità per il minore non accompagnato la cui domanda sia stata respinta nel merito in un primo Stato membro di imporre a un altro Stato membro di esaminare un’altra domanda
La Corte di giustizia conclude pertanto dichiarando che l’art. 6, co. 2, del regolamento n°343/2003 attribuisce la competenza allo Stato membro in cui si trova il minore non accompagnato che non abbia familiari legalmente nel territorio degli Stati membri.
[:fr]6. Il trasferimento di minori non accompagnati – C-648/11, MA, BT, DA.
La Corte di Giustizia dell’Unione europea, con sentenza del 6 giugno 2013, si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale proposto, ai sensi dell’art. 267 TFUE, dalla Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) (Regno Unito), avente ad oggetto l’interpretazione dell’art. 6 del regolamento (CE) 343/2003, c.d. di Dublino II, al fine di individuare la competenza ad esaminare una domanda di asilo presentata in più di uno Stato membro da parte di minori non accompagnati e sprovvisti di familiari presenti legalmente nel territorio dell’Unione europea.
La vicenda trae origine dalla controversia sorta tra tre minori richiedenti asilo non accompagnati e privi di legami familiari all’interno dell’Unione ed il Secretary of State for the Home Department, a seguito della decisione delle autorità britanniche di non esaminare la loro domanda d’asilo e di trasferire gli stessi verso gli Stati membri in cui per primi avevano presentato domanda. In particolare, i tre minore, due di nazionalità eritrea e uno di nazionalità irachena, dopo aver presentato inizialmente domanda di asilo rispettivamente in Italia e Olanda, si erano successivamente trasferiti nel Regno Unito presentandone una ulteriore. Le autorità britanniche, tuttavia, prendendo atto dell’esistenza di una domanda già proposta in un diverso Stato membro e del consenso delle autorità italiane ed olandesi, disponevano il loro trasferimento. I richiedenti asilo presentavano ricorso avverso la decisione di trasferimento, la quale veniva tuttavia rigettata dalla High Court of Justice, ad avviso della quale, in forza dell’art. 6, co. 2, del Regolamento Dublino II, la competenza ad esaminare la domanda di asilo spettava unicamente allo Stato in cui tale domanda è stata presentata per la prima volta. A seguito dell’appello avverso tale decisione, la Court of Appeal decideva di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di Giustizia la seguente questione pregiudiziale: «Nel contesto del regolamento [n. 343/2003], quale sia lo Stato membro al quale il secondo comma dell’articolo 6 attribuisce la competenza a pronunciarsi sulla domanda d’asilo quando un richiedente asilo, che sia un minore non accompagnato e sprovvisto di familiari che si trovino legalmente in uno Stato membro, ha presentato domande di asilo in più di uno Stato membro».
La Corte di Giustizia, pronunciandosi sulla questione, preliminarmente rigetta la questione di irricevibilità del ricorso sollevata dal governa belga, ad avviso del quale la questione sottoposta alla Corte aveva di carattere meramente ipotetico, sulla base della presunzione di pertinenza e dell’esistenza di un giudizio di risarcimento su cui doveva ancora pronunciarsi il giudice del rinvio. La Corte successivamente, riformulando la domanda sollevata dalla corte britannica, si interroga sul sistema di ripartizione della competenza ad esaminare una domanda di asilo, ai sensi dell’art. 6 del Regolamento, proposta da un minore non accompagnato sprovvisto di familiari legalmente presenti sul territorio dell’Unione, tra “… o Stato membro nel quale il minore abbia presentato la sua prima domanda ovvero quello in cui egli si trova dopo avervi presentato la sua ultima domanda in tal senso”. A riguardo la Corte chiarisce in primis che, non essendovi presenti familiari regolarmente presenti sul territorio dell’Unione, tale competenza debba essere individuata ai sensi dell’art. 6, co. 2, il quale prevede che la stessa spetti alla Stato membro “…in cui il minore ha presentato la domanda d’asilo”. A tal fine, ad avviso della Corte, poiché la formulazione della norma non chiarisce se tale Stato debba individuarsi con il primo in cui sia stata presentata la domanda ovvero in quello in cui il minore abbia presentato da ultimo la domanda, è necessario procedere alla sua interpretazione contestuale e teleologica.
La Corte individua quale primo elemento da cui far derivare la competenza dell’ultimo Stato membro in cui è presentata la domanda il mancato riferimento nell’art. 6, para. 2 del Regolamento al “primo Stato membro”, presente invece nell’art. 5, para. 2, alla stregua del noto brocardo “ubi voluit dixit”.
La Corte trae ulteriore argomento a supporto della sua conclusione dall’interpretazione teleologica del regolamento. Ad avviso della Corte, poiché esso è volto a garantire l’effettivo accesso all’esame della situazione del richiedente asilo, accordando al contempo particolare attenzione ai minori non accompagnati, quale categoria di persone particolarmente vulnerabili, la procedura di determinazione dello Stato membro competente non dev’essere prolungata più di quanto strettamente necessario con la conseguenza che, in linea di principio, essi non siano trasferiti verso un altro Stato membro.
Queste considerazioni sono da ultimo confortate dalla necessità di rispettare i diritti fondamentali garantiti dall’Unione europea, tra i quali, in particolare, la garanzia che, in tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del minore sia considerato preminente. Di conseguenza, nell’interesse dei minori non accompagnati, è necessario non prolungare inutilmente la procedura di determinazione dello Stato membro competente, bensì assicurare loro un rapido accesso alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato.
La Corte precisa da ultimo come che una siffatta interpretazione non implica tuttavia la possibilità per il minore non accompagnato la cui domanda sia stata respinta nel merito in un primo Stato membro di imporre a un altro Stato membro di esaminare un’altra domanda
La Corte di giustizia conclude pertanto dichiarando che l’art. 6, co. 2, del regolamento n°343/2003 attribuisce la competenza allo Stato membro in cui si trova il minore non accompagnato che non abbia familiari legalmente nel territorio degli Stati membri.
[:es]6. Il trasferimento di minori non accompagnati – C-648/11, MA, BT, DA.
La Corte di Giustizia dell’Unione europea, con sentenza del 6 giugno 2013, si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale proposto, ai sensi dell’art. 267 TFUE, dalla Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) (Regno Unito), avente ad oggetto l’interpretazione dell’art. 6 del regolamento (CE) 343/2003, c.d. di Dublino II, al fine di individuare la competenza ad esaminare una domanda di asilo presentata in più di uno Stato membro da parte di minori non accompagnati e sprovvisti di familiari presenti legalmente nel territorio dell’Unione europea.
La vicenda trae origine dalla controversia sorta tra tre minori richiedenti asilo non accompagnati e privi di legami familiari all’interno dell’Unione ed il Secretary of State for the Home Department, a seguito della decisione delle autorità britanniche di non esaminare la loro domanda d’asilo e di trasferire gli stessi verso gli Stati membri in cui per primi avevano presentato domanda. In particolare, i tre minore, due di nazionalità eritrea e uno di nazionalità irachena, dopo aver presentato inizialmente domanda di asilo rispettivamente in Italia e Olanda, si erano successivamente trasferiti nel Regno Unito presentandone una ulteriore. Le autorità britanniche, tuttavia, prendendo atto dell’esistenza di una domanda già proposta in un diverso Stato membro e del consenso delle autorità italiane ed olandesi, disponevano il loro trasferimento. I richiedenti asilo presentavano ricorso avverso la decisione di trasferimento, la quale veniva tuttavia rigettata dalla High Court of Justice, ad avviso della quale, in forza dell’art. 6, co. 2, del Regolamento Dublino II, la competenza ad esaminare la domanda di asilo spettava unicamente allo Stato in cui tale domanda è stata presentata per la prima volta. A seguito dell’appello avverso tale decisione, la Court of Appeal decideva di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di Giustizia la seguente questione pregiudiziale: «Nel contesto del regolamento [n. 343/2003], quale sia lo Stato membro al quale il secondo comma dell’articolo 6 attribuisce la competenza a pronunciarsi sulla domanda d’asilo quando un richiedente asilo, che sia un minore non accompagnato e sprovvisto di familiari che si trovino legalmente in uno Stato membro, ha presentato domande di asilo in più di uno Stato membro».
La Corte di Giustizia, pronunciandosi sulla questione, preliminarmente rigetta la questione di irricevibilità del ricorso sollevata dal governa belga, ad avviso del quale la questione sottoposta alla Corte aveva di carattere meramente ipotetico, sulla base della presunzione di pertinenza e dell’esistenza di un giudizio di risarcimento su cui doveva ancora pronunciarsi il giudice del rinvio. La Corte successivamente, riformulando la domanda sollevata dalla corte britannica, si interroga sul sistema di ripartizione della competenza ad esaminare una domanda di asilo, ai sensi dell’art. 6 del Regolamento, proposta da un minore non accompagnato sprovvisto di familiari legalmente presenti sul territorio dell’Unione, tra “… o Stato membro nel quale il minore abbia presentato la sua prima domanda ovvero quello in cui egli si trova dopo avervi presentato la sua ultima domanda in tal senso”. A riguardo la Corte chiarisce in primis che, non essendovi presenti familiari regolarmente presenti sul territorio dell’Unione, tale competenza debba essere individuata ai sensi dell’art. 6, co. 2, il quale prevede che la stessa spetti alla Stato membro “…in cui il minore ha presentato la domanda d’asilo”. A tal fine, ad avviso della Corte, poiché la formulazione della norma non chiarisce se tale Stato debba individuarsi con il primo in cui sia stata presentata la domanda ovvero in quello in cui il minore abbia presentato da ultimo la domanda, è necessario procedere alla sua interpretazione contestuale e teleologica.
La Corte individua quale primo elemento da cui far derivare la competenza dell’ultimo Stato membro in cui è presentata la domanda il mancato riferimento nell’art. 6, para. 2 del Regolamento al “primo Stato membro”, presente invece nell’art. 5, para. 2, alla stregua del noto brocardo “ubi voluit dixit”.
La Corte trae ulteriore argomento a supporto della sua conclusione dall’interpretazione teleologica del regolamento. Ad avviso della Corte, poiché esso è volto a garantire l’effettivo accesso all’esame della situazione del richiedente asilo, accordando al contempo particolare attenzione ai minori non accompagnati, quale categoria di persone particolarmente vulnerabili, la procedura di determinazione dello Stato membro competente non dev’essere prolungata più di quanto strettamente necessario con la conseguenza che, in linea di principio, essi non siano trasferiti verso un altro Stato membro.
Queste considerazioni sono da ultimo confortate dalla necessità di rispettare i diritti fondamentali garantiti dall’Unione europea, tra i quali, in particolare, la garanzia che, in tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del minore sia considerato preminente. Di conseguenza, nell’interesse dei minori non accompagnati, è necessario non prolungare inutilmente la procedura di determinazione dello Stato membro competente, bensì assicurare loro un rapido accesso alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato.
La Corte precisa da ultimo come che una siffatta interpretazione non implica tuttavia la possibilità per il minore non accompagnato la cui domanda sia stata respinta nel merito in un primo Stato membro di imporre a un altro Stato membro di esaminare un’altra domanda
La Corte di giustizia conclude pertanto dichiarando che l’art. 6, co. 2, del regolamento n°343/2003 attribuisce la competenza allo Stato membro in cui si trova il minore non accompagnato che non abbia familiari legalmente nel territorio degli Stati membri.
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