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car-accident-1995852_960_720I fatti di cui è causa

I congiunti ed eredi di due giovani, morti a seguito di un incidente stradale, convenivano in giudizio il conducente della vettura – che, invadendo la loro corsia di marcia, ne aveva causato la morte – unitamente alla compagnia assicurativa, al fine di vedersi condannati in solido al risarcimento dei danni, dagli stessi quantificati in € 1.650.000,00.

Il Tribunale di Cuneo, investito della questione, pur ritenendo accertata la responsabilità esclusiva del conducente convenuto, a seguito dell’acquisizione delle risultanze della C.T.U. svolta nel giudizio penale:

  • riconosceva, in applicazione delle Tabelle di Milano l’importo di € Euro 200.000,00 ai genitori delle vittime, l’importo di € 80.000 in favore della sorella, l’importo di € 4.000 iure hereditatis per danni alla moto condotta dai ragazzi, nonché l’importo di circa € 120.000,00 quale danno non patrimoniale iure proprio subito da un altro congiunto delle vittime, accertato iure proprio, accertato con la CTU (Euro 119.781,67);
  • negava tuttavia la liquidazione del danno tanatologico iure hereditatis in favore dei congiunti di una delle due vittime;
  • negava ai congiunti il danno patrimoniale da perdita delle contribuzioni reddituali dei figli defunti.

La Corte d’Appello, in parziale accoglimento del gravame proposto dagli eredi di una delle due vittime, condannava i convenuti al pagamento di ulteriori € 3.000,00 per danni patrimoniali (spese funeratizie) oltre interessi e spese di lite.

Il ricorso per cassazione

Gli eredi, tuttavia, non si davano per vinti, ricorrendo sino in Cassazione, lamentando il mancato riconoscimento, nei primi due gradi di giudizio, del danno morale soggettivo. Ad avviso dei ricorrenti, infatti, i giudici di merito, pur applicando il criterio della c.d. “…omnicomprensività ed unitarietà del risarcimento del danno non patrimoniale, finalizzato ad evitare duplicazioni”, non avevano riconosciuto e dato “…adeguata protezione per ciascuna delle lesioni prodotte alla sfera della persona”.

La decisione della Suprema Corte

La III^ sezione della Corte di Cassazione, investita della questione, reputa fondata censura, alla stregua della seguente condivisibile argomentazione:

  • “…l’ordinamento riconosce e disciplina (soltanto) le fattispecie del danno patrimoniale (nelle due forme del danno emergente e del lucro cessante: art. 1223 c.c.) e del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.; art. 185 c.p.)”;
  • “[L]a natura unitaria e onnicomprensiva del danno non patrimoniale (…) dev’essere interpretata, sul piano delle categorie giuridiche (anche se non sotto quello fenomenologico) rispettivamente nel senso: a) di unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto e non suscettibile di valutazione economica; b) di onnicomprensività intesa come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze (modificative “in peius” della precedente situazione del danneggiato) derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, procedendo, a seguito di compiuta istruttoria, a un accertamento concreto e non astratto del danno, a tal fine dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni”.
  • “…[N]el procedere all’accertamento e alla quantificazione del danno risarcibile, il giudice di merito deve dunque tenere conto da una parte dell’insegnamento della Corte costituzionale (Corte cost. n. 235 del 2014, punto 10.1 e ss. in motivazione) e, dall’altra, del recente intervento del legislatore sugli artt. 138 e 139 codice delle assicurazioni, come modificati dalla 4 agosto 2017, n. 124, art. 1, comma 17, la cui novellata rubrica (titolata “danno non patrimoniale”, in sostituzione della precedente “danno biologico”), e il cui contenuto consentono di distinguere definitivamente il danno dinamico-relazionale da quello morale”;
  • “[N]e deriva che il giudice deve congiuntamente, ma distintamente, valutare la compiuta fenomenologia della lesione non patrimoniale, e cioè tanto l’aspetto interiore del danno sofferto (cd. danno morale, sub specie del dolore, come in ipotesi della vergogna, della disistima di sè, della paura, ovvero della disperazione) quanto quello dinamico-relazionale (destinato a incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto)”.
  • “[L]a misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme (…) può essere poi aumentata, nella sua componente dinamico-relazionale, solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale, eccezionali e affatto peculiari…”.
  • “[L]a liquidazione finalisticamente unitaria di tale danno (non diversamente da quella prevista per il danno patrimoniale) avrà pertanto il significato di attribuire al soggetto una somma di danaro che tenga conto del pregiudizio complessivamente subito tanto sotto l’aspetto della sofferenza interiore, quanto sotto quello dell’alterazione/modificazione peggiorativa della vita di relazione in ogni sua forma e considerata in ogni suo aspetto, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche (Cass., 20/04/2016, n. 7766).

Ad avviso della Suprema Corte, inoltre, “…se è vero che di tali componenti occorre dare la prova, si può ritenere che, rispetto alla morte di un figlio e di una figlia, entrambi in giovane età, appartenga al notorio l’esistenza di un danno soggettivo patito dai congiunti in tutte le sue componenti.”.

Gli ermellini, pertanto, in accoglimento di tale motivo di ricorso, hanno cassa la sentenza e rinviato alla Corte d’Appello competente.

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[:it]Cassazione Sezioni unite 16 febbraio 2016 n. 2951 – legittimazione, titolarità e onere della prova

Le Sezioni Unite – pronuncia 16 febbraio 2016 n. 2951 pur condividendo la distinzione tra legittimazione al processo e titolarità della posizione soggettiva oggetto dell’azione nonché l’affermazione per cui il problema della titolarità della posizione soggettiva attenga al merito della decisione, ritengano che la questione debba rientrare nel potere dispositivo delle parti e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata. Cioè a dire chi fa valere un diritto in giudizio, deve allegare che quel diritto gli appartiene e di conseguenza, sul piano probatorio, deve dimostrare che vi sono ragioni giuridiche che collegano il diritto alla sua persona. Ergo la parte che promuove un giudizio deve prospettare di essere parte attiva del giudizio (ai fini della legittimazione ad agire) e deve poi provare di essere titolare della posizione giuridica soggettiva che la rende parte.

Conseguentemente il convenuto, qualora non condivida l’assunto dell’attore in ordine alla titolarità del diritto, può limitarsi a negarla con una mera difesa e cioè con una presa di posizione negativa, che contrariamente alle eccezioni in senso stretto, non è soggetta a decadenza ex art. 167, secondo comma, c.p.c.. Invero, sebbene il primo comma della norma citata imponga al convenuto di proporre nella comparsa di risposta tutte le difese prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, tale disposizione, contrariamente a quanto sancito nel comma successivo, non prevede decadenza. Detta questione che non si risolva in un’eccezione in senso stretto può essere posta dal convenuto anche oltre quel termine, persino in appello e può essere sollevata d’ufficio dal giudice.

Ciononostante il comportamento processuale tenuto dal convenuto in comparsa di risposta può avere rilievo perché può servire a rendere superflua la prova dell’allegazione dell’attore in ordine alla titolarità del diritto. Ciò avviene qualora il convenuto riconosca il fatto posto dall’attore a fondamento della domanda oppure nel caso in cui articoli una difesa incompatibile con la negazione della sussistenza del fatto costitutivo. Tuttavia il semplice difetto di contestazione non impone un vincolo di meccanica conformazione in quanto il giudice può sempre rilevare l’inesistenza della circostanza allegata da una parte anche se non contestata dall’altra ove tale inesistenza emerga dagli atti e dal materiale probatorio raccolto.

Diverso è invece il caso in cui la parte sia rimasta contumace. Posto che l’art. 115 c.p.c. impone al giudice di porre a fondamento della decisione i fatti non specificamente contestati “dalla parte costituita”, il principio di non contestazione non viene esteso alla parte che non si è costituita, sicchè l’attore deve, in questo caso, fornire la prova dei fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio.

Superata la questione pregiudiziale, nel caso in esame, si chiede alla Corte di stabilire se, in caso di alienazione della proprietà, il diritto al risarcimento del danno spetti a colui che era proprietario al momento in cui il bene ha subito il danno ovvero a colui che è subentrato nella proprietà ed è titolare del diritto al momento della proposizione del giudizio.

Risponde la Corte che il diritto al risarcimento dei danni subiti da un bene spetta al titolare del diritto di proprietà sul bene al momento dell’evento dannoso. E’ un diritto autonomo rispetto al diritto di proprietà e non segue il diritto di proprietà in caso di alienazione, salvo che non sia convenuto il contrario.

Il principio trova frequente applicazione in ambito condominiale. Accade infatti, assai spesso, che il condominio agisca per ottenere il risarcimento dei danni subiti. Nel caso di vittoria della lite le somme ricavate vanno attribuite a chi era proprietario dell’immobile al momento del sinistro e non anche agli attuali proprietari.

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[:it]Un uomo,  in qualità di erede di una defunta, sosteneva che quest’ultima aveva pagato sine titulo ad un signore, convenuto in giudizio, un’ingente somma di denaro a mezzo assegno bancario. Chiedeva, pertanto, al Tribunale la condanna della controparte alla restituzione di tale pagamento indebito, limitatamente alla propria quota ereditaria.

Il convenuto si costituiva in giudizio contestando che il pagamento ricevuto dalla defunta fosse privo di titolo in quanto quest’ultima  gli aveva corrisposto detto importo a titolo di prezzo, a fronte della la vendita di alcuni arredi alla madre di lui e pagata con assegno che per volontà della stessa creditrice, era stato tratto dalla debitrice all’ordine del figlio.

Il giudice di primo grado rigettava con sentenza la domanda di indebito proposta dall’erede e quest’ultimo proponeva appello.

Il giudice di secondo grado accoglieva ritenendo: – che l’attore aveva allegato che il pagamento del convenuto era nella sostanza una donazione nulla per mancanza di forma; che, quindi, in assenza di un atto scritto spettava al convenuto fornire la prova di una valida causa solvendi diversa dalla donazione; il convenuto, tuttavia, non aveva assolto quest’onere, sicché la domanda di indebito andava accolta.

La III^ Sezione della Corte di Cassazione, con sentenza 6 ottobre 2015 n. 19902, confermava la decisione di appello.

In particolare, l’attore assumeva che il pagamento era avvenuto a titolo di mutuo o donazione e nel contempo, aveva sostenuto l’invalidità di ambedue i suddetti contratti. Quindi, nel primo caso, la somma concessa in mutuo andava comunque restituita per obbligo contrattuale, mentre nel secondo eccepiva la nullità della donazione perché stipulata in forma orale.

A fronte della predetta prospettazione spettava al convenuto: o di provare l’avvenuto pagamento del contratto di mutuo secondo la regola di riparto dell’onere probatorio dettata dall’art. 1218 c.c.; o di provare che la donazione era stata stipulata per atto pubblico; ovvero di provare che la somma corrisposta era stata pagata per altro e valido titolo giustificativo. Non avendo dunque, il convenuto fornito nessuna di tali prove, per i giudici di legittimità, correttamente la Corte di Appello ha accolto la domanda attorea.

In altri termini: l’azione di  indebito  è accordata al solvens sia quando abbia effettuato un pagamento sulla base di un titolo invalido ab initio o divenuto invalido in seguito; sia quando abbia effettuato un pagamento senza alcun titolo, come nel caso di  indebito  oggettivo.

Chi chiede la ripetizione dell’ indebito  dunque, a fondamento della propria domanda può prospettare sia l’invalidità, sia l’inesistenza d’una iuxta causa obligationis. Se nella prospettazione attorea si assuma che il pagamento dell’ indebito  sia avvenuto in assenza totale di qualsiasi titolo giustificativo, l’attore non avrà alcun onere di allegare e provare che un titolo di pagamento formalmente esista, ma sia invalido. In questo caso il solo onere dell’attore è allegare l’inesistenza d’un giusto titolo dell’obbligazione. Sarà poi il convenuto, in ossequio al principio c.d. di vicinanza della prova, a dover dimostrare che il pagamento era sorretto da una giusta causa. L’unico limite che l’attore incontra nella prospettazione dei fatti posti a fondamento della domanda di  indebito è il restare silente sull’esistenza o sull’inesistenza del titolo del pagamento. Se, infatti, l’attore nel giudizio di  indebito  dichiarasse addirittura di ignorare se il pagamento di cui chiede la restituzione sia sorretto da un titolo, la citazione andrebbe dichiarata nulla ex art. 164 c.p.c., a causa della mancata esposizione della causa petendi.[:]

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