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Ribadisce la Corte di Cassazione, con ordinanza 2 marzo 2018, n. 4913 che, in tema di locazione di immobili urbani per uso diverso da quello abitativo, la cosiddetta autoriduzione del canone, cioè a dire il pagamento di questo in misura inferiore a quella convenzionalmente stabilita, costituisce fatto arbitrario ed illegittimo del conduttore, che provoca il venir meno dell’equilibrio sinallagmatico del negozio, anche nell’ipotesi in cui l’autoriduzione sia stata effettuata dal conduttore in riferimento al canone dovuto a norma dell’art. 1578, primo comma, cod. civ., per ripristinare l’equilibrio del contratto, turbato dall’inadempimento del locatore e consistente nei vizi della cosa locata. Tale norma, infatti, non dà facoltà al conduttore di operare detta autoriduzione, ma solo a domandare la risoluzione del contratto o una riduzione del corrispettivo, essendo devoluto al potere del giudice di valutare l’importanza dello squilibrio tra le prestazioni dei contraenti.

Qui di seguito il testo della decisione

Corte di cassazione, Sez. III civ. ordinanza 2 marzo 2018, n. 4913
Svolgimento del processo

La …………. s.r.l. ricorre per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Napoli che, rigettando l’appello e confermando la sentenza del Tribunale di Benevento, ha consolidato la pronuncia di primo grado di risoluzione del contratto di locazione intercorso con ……… s.r.l., di condanna della ………. al rilascio dell’immobile e al pagamento della somma di Euro 119.247,45 e di Euro 7.428,43 a titolo di canoni di locazione fino alla riconsegna dell’immobile, oltre interessi. All’origine del giudizio la ………… agì con sfratto per morosità nei confronti di ……… che si era sottratta al pagamento dei canoni di locazione per l’importo totale di Euro 110.247,45 pari a 15 mensilità e al pagamento del deposito cauzionale e della metà dell’imposta di registro.

La…………  costituendosi in giudizio, rappresentò che gli immobili erano pieni di rifiuti tossici sicchè il proprio inadempimento trovava causa e giustificazione nell’assai più grave inadempimento della locatrice, responsabile anche dei danni provocati dal mancato esercizio dell’attività di impresa. Il Tribunale di Benevento accolse la domanda, dichiarò risolto il contratto di locazione per grave inadempimento del conduttore, condannando ….al rilascio dell’immobile e al pagamento dei canoni.
Avverso la sentenza la ……….propose appello reiterando l’eccezione di inadempimento, dal momento che l’immobile non era idoneo all’uso pattuito. La Corte d’Appello ha rigettato il gravame in base all’argomento che al conduttore non è consentito astenersi dal versare il canone di locazione o di ridurlo unilateralmente anche quando si assume che tale evento sia ricollegabile al fatto del locatore, atteso che la sospensione è legittima solo quando viene a mancare la controprestazione del locatore e non anche in presenza di un’alterazione del sinallagma contrattuale che determina uno squilibrio tra le prestazioni. Il conduttore avrebbe dovuto agire con la garanzia per i vizi al fine di ottenere la risoluzione del contratto o la riduzione del corrispettivo essendo devoluta al Giudice la valutazione dello squilibrio tra le prestazioni. La società conduttrice sarebbe stata inoltre ben consapevole dello stato dell’immobile avendo dichiarato di trovarlo idoneo all’uso convenuto. La CTU ha poi confermato la presenza di rifiuti tossici mentre la società conduttrice ha esonerato il locatore da ogni obbligo anche in relazione all’adeguamento degli impianti ed ha accettato lo stesso nelle condizioni in cui si trovava. Vi era sicuramente una causa ostativa all’accoglimento dell’eccezione di inadempimento contrattuale.
Avverso la sentenza d’appello la …………….. propone ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo illustrato da memoria. Resiste la ………. s.r.l. con controricorso. Il P.G. ha depositato le conclusioni nel senso del rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
Con l’unico motivo di ricorso denuncia la violazione ex art. 360, comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’art. 1460 c.c., omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti: corrispondente ai diversi lavori accollati dal conduttore rispetto ai pretesi obblighi contrattuali.
Ad avviso della ricorrente la conduttrice si sarebbe accollata una serie di obbligazioni proprie della parte locatrice ed avrebbe legittimamente rifiutato di pagare il canone a fronte dell’inesistente prestazione della locatrice. La conduttrice si sarebbe trovata di fronte ad un aliud pro alio, e la società locatrice si sarebbe trovata a far fronte ad un’attività di bonifica ambientale. L’inerzia serbata dalla società locatrice avrebbe, pertanto, legittimato il conduttore all’eccezione di inadempimento, fondata sull’inesistenza del sinallagma. Anche laddove vi fosse stato un inadempimento di Allmetek rispetto agli obblighi contrattuali assunti, giammai Sofab avrebbe potuto chiedere ed ottenere il pagamento dei canoni, in ragione dell’impossibilità di disporre dell’immobile all’uso convenuto. L’immobile a rischio crollo, contaminato da fibre di amianto e da rifiuti tossici frammisti a materiali ferrosi e residui di demolizione i non era certamente in condizioni di poter accogliere l’attività contrattualmente pattuita.
Il motivo è infondato. La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel senso di ritenere che il sinallagma proprio del rapporto locativo non consente al conduttore di sospendere il pagamento del canone; infatti la sospensione totale o parziale dell’adempimento dell’obbligazione del conduttore è legittima solo qualora venga completamente a mancare la controprestazione (Cass., 3, n. 10639 del 26/6/2012: ” In tema di locazione di immobili urbani per uso diverso da quello abitativo, la cosiddetta autoriduzione del canone (e, cioè, il pagamento di questo in misura inferiore a quella convenzionalmente stabilita) costituisce fatto arbitrario ed illegittimo del conduttore, che provoca il venir meno dell’equilibrio sinallagmatico del negozio, anche nell’ipotesi in cui detta autoriduzione sia stata effettuata dal conduttore in riferimento al canone dovuto a norma dell’art. 1578 c.c., comma 1, per ripristinare l’equilibrio del contratto, turbato dall’inadempimento del locatore e consistente nei vizi della cosa locata. Tale norma, infatti, non dà facoltà al conduttore di operare detta autoriduzione, ma solo a domandare la risoluzione del contratto o una riduzione del corrispettivo, essendo devoluto al potere del giudice di valutare l’importanza dello squilibrio tra le prestazioni dei contraenti”) Peraltro il conduttore, nonostante abbia continuato a denunziare per iscritto l’estrema gravità dei vizi riscontrati nell’immobile locato lo ha lasciato solo a distanza di oltre un anno dall’ordinanza provvisoria di rilascio, ha perciò continuato ad occuparlo nè può dirsi che la sospensione dei pagamenti sia scaturita da fatti nuovi. La sentenza impugnata è pienamente conforme alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la sospensione unilaterale del pagamento dei canoni di locazione costituisce fatto arbitrario ed illegittimo del conduttore che altera il sinallagma contrattuale e determina uno squilibrio tra le prestazioni delle parti per effetto di un’unilaterale ragione fattasi dal conduttore che, perciò configura inadempimento colpevole all’obbligo di adempiere esattamente e puntualmente al contratto stipulato ovvero all’obbligazione principale del conduttore.
Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato, con le conseguenze sulle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo e sul raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio di cassazione liquidate in Euro 6000 (oltre Euro 200 per esborsi), più accessori di legge e spese generali al 15%. Dà atto dell’esistenza dell’obbligo da parte del ricorrente di pagare una somma corrispondente a quanto versato per il ricorso principale a titolo di contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 5 ottobre 2017.
Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2018

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[:it]La mancata registrazione del contratto di locazione di immobili, ad uso abitativo o come nella specie ad uso diverso da abitazione è causa di nullità dello stesso. Il contratto non registrato in toto, contenente l’indicazione del reale corrispettivo della locazione, è infatti “sconosciuto” all’Erario dal punto di vista fiscale ed è nullo dal punto di vista civilistico in virtù della testuale previsione di cui all’art. 1, comma 346, della legge finanziaria 2005, che ricollega la sanzione di invalidità al comportamento illecito alla violazione dell’obbligo di registrazione, trattandosi di prescrizione non avente esclusivo carattere tributario bensì regola di diritto civile, comminante una speciale nullità nei rapporti tra privati. Trattandosi di nullità essa è pertanto rilevabile anche d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del giudizio.

Così si è recentemente espressa la Corte di cassazione, Sez. III civ. ordinanza 9 marzo 2018, n. 565

Qui di seguito il testo del provvedimento:

 

Svolgimento del processo

Con sentenza del 17/9/2015 la Corte d’Appello di Milano, rigettato quello in via principale spiegato dalla società …………. s.r.l., in accoglimento del gravame in via principale interposto dall’Istituto Suore ……………………………..e in conseguente parziale riforma della pronunzia Trib. Milano 10/12/2013, ha accolto – per quanto ancora d’interesse in questa sede – la domanda da quest’ultimo nei confronti della prima proposta di pagamento dei canoni arretrati relativi al contratto di locazione tra di essi intercorso avente ad oggetto immobile sito all’interno della Clinica …………….. sito in …………., già dichiarato risolto dal giudice di prime cure. Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito la società………… s.r.l. propone ora ricorso per cassazione affidato a 3 motivi.

Resiste con controricorso l’Istituto Suore ………………….
Motivi della decisione
Con il 2 motivo la ricorrente denunzia “violazione o falsa applicazione” degli artt. 112, 115, 132 c.p.c., artt. 1367, 1418, 1421, L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 346, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4. Si duole che la corte di merito abbia omesso di pronunziare in merito alla “mancata produzione in atti delle certificazioni dell’avvenuta registrazione”, conseguentemente non accogliendo la domanda di annullamento e/o riforma dell’impugnata sentenza di 1^ grado. Il motivo, che va previamente esaminato in quanto logicamente prioritario, è fondato e va accolto nei termini di seguito indicati. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, la mancata registrazione del contratto di locazione di immobili, ad uso abitativo o come nella specie ad uso diverso da abitazione è causa di nullità dello stesso (v. Cass., Sez. Un., 9/10/2017, n. 23601). Il contratto non registrato in toto, contenente l’indicazione del reale corrispettivo della locazione, è infatti “sconosciuto” all’Erario dal punto di vista fiscale ed è nullo dal punto di vista civilistico in virtù della testuale previsione di cui all’art. 1, comma 346, Legge Finanziaria 2005, che ricollega la sanzione di invalidità al comportamento illecito alla violazione dell’obbligo di registrazione, trattandosi di prescrizione non avente esclusivo carattere tributario bensì di regola di diritto civile, comminante una speciale nullità nei rapporti tra privati (sia pure per effetto di una violazione di carattere tributario) (v. Cass., Sez. Un., 9/10/2017, n. 23601). Trattandosi di nullità essa è pertanto rilevabile (anche) d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del giudizio. Orbene, nell’affermare che “quanto al merito, l’errore in cui sarebbe incorso il primo giudice per essersi pronunciato su un’eccezione mai sollevata dall’attuale appellante è in realtà ininfluente ai fini della decisione impugnata, atteso che l’appellante non ha contestato… l’esistenza e la validità del contratto, e quindi la pronuncia di risoluzione, che tale validità presuppone”, la corte di merito ha nell’impugnata sentenza invero disatteso il suindicato principio. Della medesima, assorbiti gli altri motivi, va pertanto disposta la cassazione in relazione, con rinvio alla Corte d’Appello di Milano, che in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo del suindicato disattesoprincipio applicazione. Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il 2^ motivo, assorbiti gli altri. Cassa in relazione l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’Appello di Milano, in diversa composizione. Così deciso in Roma, il 5 ottobre 2017. Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2018

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teacher-and-studentEpisodi di bullismo e di violenza tra studenti e insegnanti sono aimè sempre più frequenti non solo nella cronaca quotidiana ma anche nelle aule di Tribunale. Di recente la Corte di Cassazione pronunciandosi su un delicato giudizio originato dal ricorso presentato da una docente – vittima di una serie di infanganti ed infondate diffamazioni da parte del padre di un suo alunno – ha colto detta occasione per inviare un importante monito non relegabile al solo mondo giuridico.

I fatti di cui è causa

La vicenda trae origine, nel lontano 1998, da un ricorso con cui un’insegnante di una scuola elementare toscana conveniva dinnanzi al Tribunale di Pisa il padre di un suo alunno al fine di ottenere il risarcimento dei danni conseguenti alla “…condotta gravemente diffamatoria ripetutamente tenuta dal convenuto nei suoi confronti”, il quale, oltre ad averle data del “mostro” nel corso di una riunione, aveva inviato numerose lettere in cui l’accusava di gravi comportamenti nei confronti dei suoi alunni. In particolare, a seguito di dette azioni, la stessa docente era stata sottoposta a valutazione psichiatrica medico-legale, a procedimento penale per i reati di cui agli artt. 572 e 582 c.p. dal Procuratore della Repubblica di Pisa (reati da cui è stata successivamente assolta, con piena formula, per insussistenza del fatto) nonché alla misura interdittiva della sospensione dal pubblico servizio. Il clamore mediatico, conseguente alle predette accuse, aveva poi spinto i suoi superiori a disporne il trasferimento d’ufficio in altra sede.

La domanda attorea veniva tuttavia rigettata in primo grado per carenza di prova in merito al “comportamento illecito, lesivo della reputazione dell’attrice, attribuito al convenuto” e confermata nel successivo grado d’appello dalla Corte territorialmente competente, la quale dichiarava l’insegnante decaduta dalla prova per testi a seguito della loro omessa intimazione in primo grado.

Il ricorso per cassazione

L’insegnante, lungi dal darsi per vinta, ricorreva avverso la decisione della Corte d’Appello sino in cassazione eccependo inter alia l’illegittimità della dichiarazione di decadenza dall’assunzione dei mezzi di prova sulla scorta delle seguenti motivazioni:

  • In caso di omessa intimazione dei testimoni ad opera della parte interessata, difatti, affinchè il giudice possa legittimamente dichiararla decaduta dalla relativa prova, sarebbe necessario, da un canto, che l’omessa intimazione sia eccepita dalla parte interessata nella stessa udienza alla quale si riferisce l’inattività, e, dall’altro, che tale udienza non sia di mero rinvio”;
  • di contro, nel caso di specie, “…non ricorrerebbe nessuna delle suddette condizioni: 1) l’udienza nella quale vi era stata la mancata intimazione dei testimoni era stata tenuta non dal giudice titolare del procedimento, bensì da un G.O.T., e pertanto celebrata al solo scopo di procedere ad un mero rinvio officioso della causa; 2) la controparte, nella medesima udienza, non aveva sollevato alcuna eccezione di decadenza”.

La Suprema Corte, riconoscendo la fondatezza della tesi della ricorrente, afferma due importanti principi.

In primis che: “…la mancata intimazione dei testi non comporta la decadenza dal diritto di assunzione della prova tutte le volte che la relativa udienza abbia avuto il solo scopo di rinviare ex officio la causa (nella specie, per assenza del giudice istruttore titolare del procedimento)” alla luce della seguente condivisibile argomentazione:

  • L’art. 104 disp. att. c.p.c., comma 1 nell’attuale formulazione (applicabile ai giudizi instaurati dopo la data di entrata in vigore della  18 giugno 2009, n. 69), prevede che “se la parte senza giusto motivo non fa chiamare i testimoni davanti al giudice, questi la dichiara, anche d’ufficio, decaduta dalla prova, salvo che l’altra parte dichiari di avere interesse all’audizione“;
  • prima della modifica legislativa esistevano due opposti orientamenti interpretativi del testo previgente, che recitava “se la parte senza giusto motivo non fa chiamare i testimoni davanti al giudice, questi la dichiara decaduta dalla prova“;
  • di questi, deve ritenersi preminente l’orientamento ad avviso del quale “…la norma andrebbe interpretata nel senso che il giudice dichiara la decadenza di ufficio, senza necessità di preventiva istanza della controparte, dovendosi, per ragioni di coerenza, ritenere applicabile a tale ipotesi lo stesso meccanismo previsto dall’art. 208 c.p.c.per l’ipotesi di non comparizione del difensore che ha intimato i testi.. 24/11/2004, n. 22146,13-08-2004, n. 15759, 09-081997, n. 7436, affermano che la sanzione di decadenza dalla prova di cui all’art. 104 disp. att. c.p.c. è predisposta non per ragioni di ordine pubblico ma nell’interesse delle parti, e la norma in esame, da interpretarsi in coordinazione sistematica con l’art. 250 c.p.c., deve essere intesa nel senso che la decadenza dalla prova, nel caso di omessa citazione dei testi, senza giusto motivo, per l’udienza fissata per il raccoglimento della prova, deve essere pronunziata quando tale omissione venga posta in essere in relazione all’udienza nella quale la prova deve essere assunta e deve essere eccepita dalla parte interessata nella stessa udienza alla quale si riferisce la inattività, che ne costituisce il presupposto di fatto, salvo che sussista un valido motivo per rinviare all’udienza successiva la proposizione dell’eccezione”.

La Suprema Corte, poi, riconoscendo la violazione degli articoli 115 e 116 c.p.c. 5.3, afferma il seguente principio di diritto: “al cospetto di una pluralità di fatti storici, ciascuno portatore di una propria, singola valenza indiziaria, il giudice non può procedere alla relativa valutazione attraverso un procedimento logico di scomposizione atomistica di ciascuno di essi, per poi svalutarne, singolarmente e frammentatamente, la relativa efficacia dimostrativa”.

Nel caso di specie, gli Ermellini censurano il decisum del giudice di appello, ritenendo che qualora gli il giudice dell’impugnazione avesse di contro correttamente operato una “…valutazione necessariamente diacronica e complessivamente sintetica dei fatti di causa…” dalla stessa sarebbe emerso “…che la condotta denigratoria ascritta all’odierno resistente ebbe diacronicamente a dipanarsi attraverso una serie di atti e comportamenti univocamente e pervicacemente intesi a ledere l’onore, il prestigio e la stessa dignità dell’insegnante”, con conseguenze gravissime sull’insegnante, senza che dette azioni possano ritenersi “…scriminate né sminuite, come erroneamente mostra di ritenere il giudice d’appello, nella scia del convincimento del tribunale, né dalla circostanza che anche altri, insieme al M., avrebbero contribuito alla verificazione degli eventi (tale affermazione ponendosi in evidente e irredimibile contrasto con il dettato dell’art. 41 c.p., in tema di con-causalità dell’evento), né dalla accertata diacronia delle condotte – il cui dipanarsi nel tempo costituisce non una scriminante ma, di converso, un aggravante della condotta stessa – né tantomeno “dall’ormai conclamata dimensione collettiva e pubblica” dei fatti, ovvero dalla “autonoma risonanza” che la vicenda avrebbe assunto con lo scorrere del tempo”.

Rilevante, a sommesso avviso dello scrivente è altresì il messaggio etico e sociale con cui la Suprema Corte conclude il proprio iter argomentativo affermando che, sebbene con sia certamente “…compito della giurisdizione sindacare, sul piano etico e sociale, il comportamento dei consociati in una determinata epoca storica, poiché il processo civile (e in particolare quello avente ad oggetto vicende di responsabilità civile) è funzionale ad offrire precise risposte, rigorosamente circoscritte al piano del diritto, a singole vicende che riguardano singole persone che chiedono tutela al giudice”, dall’altro lato il “giudice civile, nella valutazione e liquidazione del quantum deleatur, non può e non deve ignorare, – quasi che la dimensione della giurisdizione si collochi entro un asettico territorio di pensiero tanto avulso dal reale, quanto insensibile ai mutamenti sociali e culturali in cui essa viene esercitata (in argomento, tra le altre, Cass. 21619/2007, che discorre di “dimensione storica” dei criteri di causalità; Cass. 5146/2018, che ricostruisce espressamente il risarcimento da perdita di chance in termini di scelta “di politica del diritto”) – il preoccupante clima di intolleranza e di violenza, non soltanto verbale, nel quale vivono oggi coloro cui è demandato il processo educativo e formativo delle giovani e giovanissime generazioni”.

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[:it]a9ca56cc71bfe3ce1a405ec2c7699cf4Lo scorso 12 aprile 2018, l’Avvocato Generale (di seguito anche A.G.) presso la Corte di Giustizia dell’Unione europea, Maciej Szpunar, ha depositato le proprie conclusioni in vista dell’oramai prossima pronuncia della Corte di Lussemburgo sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Suprema Corte di Cassazione bulgara (causa C-338/17 Neli Valcheva c. Georgios Babanarakis.

Il giudizio a quo

La vicenda trae origine da un’intricata vicenda transfrontaliera familiare e dall’impossibilità per una nonna bulgara di intrattenere rapporti significativi con il nipote a seguito del suo trasferimento in Grecia, conseguente all’affidamento esclusivo dello stesso al padre, cittadino ellenico residente in Grecia, disposto dal giudice ellenico, competente in base al criterio della c.d. residenza abituale.

La nonna, in particolare, non essendo riuscita ad ottenere dalle autorità greche misure atte a garantire detto “contatto significativo” con il nipote, adiva il Tribunale distrettuale bulgaro al fine di veder riconosciuto il proprio diritto di visita e determinate le relative modalità di esercizio.

Il Tribunale prima e la Corte d’Appello poi, ritenendo, tuttavia, applicabile a detta controversia il regolamento Bruxelles II bis, dichiaravano la loro incompetenza ai sensi dell’art. 8 del regolamento medesimo individuando nel giudice ellenico, autorità dello Stato di residenza abituale del minore, l’unico competente a pronunciarsi su siffatta domanda.

La sig.ra Valcheva decideva pertanto di presentare ricorso per Cassazione. La Suprema Corte Bulgara, in qualità di giudice di ultima istanza, nonostante condividesse il pensiero delle Tribunali inferiori, decideva di adire la Corte di Giustizia sottoponendo la seguente questione pregiudiziale: «Se la nozione di “diritto di visita” utilizzata nell’articolo 1, paragrafo 2, lettera a) e nell’articolo 2, punto 10, del regolamento n. 2201/2003 debba essere interpretata in modo da ricomprendervi non solo la visita del minore da parte dei genitori, bensì anche la visita da parte di altri parenti distinti dai genitori, quali i nonni».

Il ragionamento dell’A.G.

Apprezzabile è il ragionamento tenuto dall’avvocato generale, il quale, preliminarmente, sottolinea l’impossibilità di scorporare la questione “internazionalprivatistica” relativa all’applicabilità o meno del citato regolamento Bruxelles II bis, da un’analisi della questione fondamentale ad essa sottesa: “…l’importanza per un minore di intrattenere rapporti personali con i propri nonni, nei limiti in cui tali contatti non siano contrari al suo interesse”, letta alla luce del primato che il superiore interesse del minore deve sempre ricoprire in qualsivoglia controversia lo riguardi.

L’avvocato Generale, pertanto, opera un’analisi testuale, storica e teleologica del regolamento n°2201/03 al fine di chiarire se esso concerna non solo il diritto di visita dei genitori ma anche degli altri membri della famiglia, anche allargata:

  • partendo dal dato testuale, l’avvocato Szpunar pone in evidenza come l’art. 2, punti 7, 8 e 10 del citato regolamento, utilizzi espressioni e formule volontariamente generiche – quali “i diritti e i doveri”, “qualsiasi persona, “in particolare” – che testimonierebbero “…la volontà del legislatore dell’Unione di optare per una definizione ampia del diritto di cui trattasi” con la conseguenza di poter ritenere che “…il regolamento n. 2201/2003 includa anche un diritto di visita distinto da quello concesso dal diritto nazionale a uno dei due genitori (la madre, nel caso di specie) e se, di conseguenza, l’esercizio di tale diritto possa essere richiesto anche da terzi, come i nonni”;
  • passando ad un’interpretazione teleologica delle disposizioni del regolamento in parola, l’A.G. evidenzia come, nonostante la pacifica l’assenza di disposizioni specifiche relative al diritto di visita di un nonno, non sussista nel regolamento alcuna lacuna normativa in quanto “…dagli obiettivi del regolamento n. 2201/2003 emerge chiaramente che nulla giustifica l’esclusione del diritto di visita dall’ambito di applicazione di tale regolamento qualora il richiedente il diritto di visita sia una persona diversa dai genitori, avente legami familiari di diritto o di fatto con il minore, come nel caso di specie”;
  • detto pensiero risulterebbe poi confermato da un’interpretazione storica delle disposizioni del regolamento, lette alla luce dei lavori preparatori, nonché da un lettura congiunta dello stesso con gli altri strumenti internazionali concernenti le relazioni personali con i minori, quali la Convenzione dell’Aja del 1996;
  • da ultimo, l’avvocato generale pone in evidenza come anche questioni di opportunità e di economia processuale rendano certamente preferibile concentrare la competenza giurisdizionale sul giudice dello Stato di residenza abituale del minore, al fine di evitare provvedimenti conflittuali e contrasti di giurisdizione.

In conclusione, L’A.G. ritiene pertanto che nulla osti a ricomprendere nella nozione di diritto di visita, di cui al regolamento 2201/2003/CE “…persone diverse dai genitori ma aventi legami familiari di diritto o di fatto con il minore (in particolare, sorelle o fratelli, oppure l’ex coniuge o l’ex partner di un genitore). Infatti, tenuto conto delle costanti trasformazioni della nostra società e dell’esistenza di nuove forme di strutture familiari, le possibilità, riguardo alle persone interessate dall’esercizio del diritto di visita ai sensi del regolamento n. 2201/2003, potrebbero essere numerose. Il caso dell’ex partner del genitore titolare della responsabilità genitoriale e, conseguentemente, dei genitori di detto ex partner – considerati dal minore come nonni – o, ancora, il caso di una zia o di uno zio incaricati, nell’assenza temporanea di uno o di entrambi i genitori, di occuparsi del minore sono soltanto alcune illustrazioni con le quali la Corte potrebbe eventualmente confrontarsi nel contesto dell’interpretazione del regolamento in parola”.

L’avvocato della Corte è tuttavia chiaro nell’affermare che, se da un lato è quanto mai essenziale “…disporre di una regola di competenza unica e uniforme, vale a dire quella delle autorità dello Stato membro della residenza abituale del minore, al fine di garantire il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni pronunciate nei vari Stati membri”, dall’altro spetterà solo ed unicamente al legislatore nazionale chiarire “…a chi sarà – o meno – concesso un diritto di visita”.

In conclusione

Le conclusioni testè analizzate senza dubbio rappresentano un passo in avanti verso la tutela del diritto di visita degli ascendenti e/o discendenti nonché dei membri delle sempre più frequenti famiglie allargate; questo non solo per il dato probabilistico dell’allineamento della Corte al pensiero del suo A.G., circostanza questa che statisticamente avviene nella maggioranza assoluta dei casi.

Occorre tuttavia sottolineare l’importante ruolo che conserva il legislatore nazionale nell’individuazione dei familiari a cui tale diritto di visita possa essere riconosciuto con conseguente possibile frustrazione di legittime pretese a fronte della divergente disciplina sostanziale in vigore nello Stato di residenza abituale del minore.

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separazione-e-soldi_smallI matrimoni di comodo sono una realtà mai passata. Di recente, la Suprema Corte è stata investita di una rocambolesca vicenda che ha visto come protagonisti due novelli sposi, convolati a nozze per questioni economiche. Lui, alto ufficiale statunitense, aveva beneficiato di importanti gratifiche economiche riconosciutegli a seguito del matrimonio, mentre la moglie, durante il matrimonio, si era fatta consegnare dal marito oltre 110.000,00 dollari e vari assegni post datati.

Dopo appena 28 giorni di matrimonio, i due decidono di promuovere dinnanzi al Tribunale civile di Genova ricorso per separazione giudiziale con reciproca richiesta di addebito.

Il giudice di primo grado, investito della questione, pur pronunciando la separazione, respingeva sia le richieste di addebito che la domanda di assegno di mantenimento presentata dalla moglie.

Detta ultima statuizione veniva altresì confermata dalla Corte d’Appello di Genova, che, in particolare, rigettava della domanda di assegno alla luce della brevissima durata del matrimonio, di appena 28 giorni, e la conseguente mancata instaurazione di una reale comunione materiale e morale tra i coniugi.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

L’ex moglie, tuttavia, ricorreva avverso detta pronuncia dinnanzi alla Suprema Corte deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.p.c., sostenendo che la breve durata del matrimonio, così come la mancata instaurazione di una convivenza sarebbero irrilevanti al fine di escludere il suo diritto all’assegno di mantenimento. A sostegno di detta tesi, la ricorrente cita la recente sentenza n°1162 dell’8 gennaio 2017 con cui la Suprema Corte avrebbe statuito che “…alla breve durata del matrimonio non può essere riconosciuta efficacia preclusiva del diritto all’assegno di mantenimento, ove di questo sussistano gli elementi costitutivi, rappresentati dalla non addebitabilità della separazione al coniuge richiedente, dalla non titolarità, da parte del medesimo, di adeguati redditi propri, ossia di redditi che consentano di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, e dalla sussistenza di una disparità economica tra le parti mentre, alla durata del matrimonio può essere attribuito rilievo ai fini della determinazione della misura dell’assegno di mantenimento”.

Di diverso avviso si rivelano gli Ermellini, ad avviso dei quali la Corte d’Appello avrebbe correttamente rilevato l’esistenza di un’ipotesi eccezionale di esclusione del diritto all’assegno di mantenimento: la mancata realizzazione, al momento della separazione, alcuna comunione materiale e spirituale tra i coniugi.

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[:it]downloadDi recente, l’Avvocato Generale Wathelet, tra i massimi esperti di diritto internazionale privato dell’UE, ha presentato delle interessanti conclusioni all’interno della richiesta di rinvio pregiudiziale presentata dalla Corte Costituzionale della Romania, ritenendo gli Stati membri obbligati a concedere ai coniugi, anche dello stesso sesso, di cittadini UE il permesso a soggiornare permanentemente sul proprio territorio.

Il giudizio a quo

 La vicenda trae origine dalla diniego opposto dalle autorità rumene alla richiesta, presentata da parte di un cittadino rumeno, del rilascio in favore del proprio coniuge – cittadino statunitense con il quale aveva convissuto per 4 anni negli U.S.A., per poi sposarsi a Bruxelles e ritrasferirsi con quest’ultimo in Romania – dei documenti necessari affinché questi potesse ivi lavorare e soggiornare in modo permanente.

Detto diniego veniva motivato sulla scorta del mancato riconoscimento da parte della Romania dei matrimoni tra le persone dello stesso sesso, con conseguente impossibilità, ad avviso delle autorità rumene, di poter concedere al sig. Hamilton il diritto di soggiorno spettante, secondo la Direttiva 2004/38/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004 relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, al coniuge di un cittadino UE.

La coppia decide pertanto di proporre ricorso avverso detta decisione, sollevando un’eccezione di incostituzionalità relativa all’art. 277, paragrafi 2 e 4 del c.c. rumeno, ritenendo che “…il mancato riconoscimento dei matrimoni tra persone dello stesso sesso conclusi all’estero, ai fini dell’esercizio del diritto di soggiorno, costituisce una violazione delle disposizioni della Costituzione rumena che tutelano il diritto alla vita intima, familiare e privata nonché delle disposizioni relative al principio di uguaglianza”.

Le questioni pregiudiziali sottoposte alla CGUE

La Corte costituzionale, investita della questione, decide pertanto di interrompere il giudizio, sottoponendo alla CGUE le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)   Se il termine “coniuge”, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/38, in combinato disposto con gli articoli 7, 9, 21 e 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, si applichi a un cittadino di uno Stato che non è membro dell’Unione, dello stesso sesso del cittadino dell’Unione con il quale egli è legittimamente sposato in base alla legge di uno Stato membro diverso da quello ospitante.

2)   In caso di risposta affermativa, se gli articoli 3, paragrafo 1, e 7, paragrafo [2], della direttiva 2004/38, in combinato disposto con gli articoli 7, 9, 21 e 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, richiedano che lo Stato membro ospitante conceda il diritto di soggiorno sul proprio territorio per un periodo superiore a 3 mesi al coniuge dello stesso sesso di un cittadino dell’Unione.

3)     In caso di risposta negativa alla prima questione, se il coniuge dello stesso sesso, proveniente da uno Stato che non è membro dell’Unione, di un cittadino dell’Unione con il quale il cittadino si è legittimamente sposato in base alla legge di uno Stato membro diverso da quello ospitante, possa essere qualificato come “ogni altro familiare” ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/38 o “partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata” ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2004/38, con il corrispondente obbligo dello Stato ospitante di agevolare l’ingresso e il soggiorno dello stesso, anche se lo Stato ospitante non riconosce i matrimoni tra persone dello stesso sesso né prevede qualsiasi altra forma alternativa di riconoscimento giuridico, come le unioni registrate.

4)     In caso di risposta affermativa alla terza questione, se gli articoli 3, paragrafo 2, e 7, paragrafo 2, della direttiva 2004/38, in combinato disposto con gli articoli 7, 9, 21 e 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, richiedano che lo Stato membro ospitante conceda il diritto di soggiorno sul proprio territorio per un periodo superiore a 3 mesi al coniuge dello stesso sesso di un cittadino dell’Unione».

Le conclusioni dell’A.G.

Sulla questione ha espresso le seguenti condivisibili valutazioni, l’avvocato Generale Watelet.

Partendo dal dato normativo, il prof. Watelet, afferma che:

  • l’art. 3, par. 1 della Direttiva 2004/38/CE, definisce gli aventi diritto come “…qualsiasi cittadino dell’Unione che si rechi o soggiorni in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, nonché [i] suoi familiari ai sensi dell’articolo 2, punto 2, che accompagnino o raggiungano il cittadino medesimo…”;
  • detta direttiva, di per sé, non consente “…di fondare un diritto di soggiorno derivato a favore di cittadini di paesi terzi, familiari di un cittadino dell’Unione, nello Stato membro di cui tale cittadino possieda la cittadinanza”;
  • tuttavia, vi sono alcuni casi in cui “…un diritto di soggiorno derivato possa fondarsi sull’articolo 21, paragrafo 1, TFUE e che, in tale contesto, la direttiva 2004/38 debba essere applicata per analogia...”;
  • ciò accade, in particolare, come già sottolineato dalla CGUE, «…quando, nel corso di un soggiorno effettivo del cittadino dell’Unione nello Stato membro ospitante, ai sensi e nel rispetto delle condizioni dell’articolo 7, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2004/38, si sia sviluppata o consolidata una vita familiare in quest’ultimo Stato membro, l’efficacia pratica dei diritti che al cittadino dell’Unione interessato derivano dall’articolo 21, paragrafo 1, TFUE impone che la vita familiare che detto cittadino abbia condotto nello Stato membro ospitante possa proseguire al suo ritorno nello Stato membro di cui possiede la cittadinanza, grazie alla concessione di un diritto di soggiorno derivato al familiare interessato, cittadino di un paese terzo. Difatti, in mancanza di un siffatto diritto di soggiorno derivato, tale cittadino dell’Unione sarebbe dissuaso dal lasciare lo Stato membro di cui possiede [la] cittadinanza al fine di avvalersi del suo diritto di soggiorno, ai sensi dell’articolo 21, paragrafo 1, TFUE, in un altro Stato membro, a causa della circostanza che egli non ha la certezza di poter proseguire nello Stato membro di origine una vita familiare con i propri stretti congiunti sviluppata o consolidata nello Stato membro ospitante…»;
  • l’art. 2, punto 2, lett. a), della direttiva 2004/38/CE “…non contiene alcun rinvio al diritto degli Stati membri per determinare la qualifica di «coniuge”, con la conseguenza di dover dare una nozione di “coniuge”, ai sensi della predetta direttiva, che sia autonoma e uniforme per l’intera Unione, indipendentemente dalla definizione data dai singoli Stati membri;
  • la nozione “evolutiva” di coniuge, recepita dalla giurisprudenza della Corte EDU, ha portato a ritenere inaccettabile una disparità di trattamento basata unicamente e/o prevalentemente su “…considerazioni relative all’orientamento sessuale delle persone interessate…”, con conseguente necessità di attribuire alla nozione di coniuge ai sensi dell’art. 2, punto 2, lett. a), della direttiva 2004/38 “…autonoma indipendente dall’orientamento sessuale”.

Sulla stregua di dette premesse, l’avvocato generale conclude, pertanto, affermando che:

«1)  L’articolo 2, punto 2, lettera a), della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE dev’essere interpretato nel senso che la nozione di “coniuge” si applica a un cittadino di uno Stato terzo sposato con un cittadino dell’Unione europea dello stesso sesso.

2)   Gli articoli 3, paragrafo 1, e 7, paragrafo 2, della direttiva 2004/38 devono essere interpretati nel senso che il coniuge dello stesso sesso di un cittadino dell’Unione che accompagna detto cittadino nel territorio di un altro Stato membro beneficia in tale Stato di un diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi, purché quest’ultimo risponda alle condizioni di cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettere a), b) o c), di tale direttiva.

L’articolo 21, paragrafo 1, TFUE dev’essere interpretato nel senso che, in una situazione in cui un cittadino dell’Unione ha sviluppato o consolidato una vita familiare con un cittadino di uno Stato terzo in occasione di un soggiorno effettivo in uno Stato membro diverso da quello di cui possiede la cittadinanza, le disposizioni della direttiva 2004/38 si applicano per analogia se detto cittadino dell’Unione rientra, con il familiare interessato, nel proprio Stato membro d’origine. In tale ipotesi, le condizioni per la concessione di un diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi al cittadino di uno Stato terzo, coniuge dello stesso sesso di un cittadino dell’Unione, non dovrebbero, in via di principio, essere più severe di quelle previste all’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2004/38.

3)   L’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2004/38 dev’essere interpretato nel senso che è applicabile alla situazione di un cittadino di uno Stato terzo, sposato con un cittadino dell’Unione dello stesso sesso conformemente alla legge di uno Stato membro, in qualità di “altro familiare” o come “partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata”.

4)   L’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2004/38 dev’essere interpretato nel senso che:

  • non impone agli Stati membri di concedere un diritto di soggiorno nel loro territorio per un periodo superiore a tre mesi al cittadino di uno Stato terzo legalmente sposato con un cittadino dell’Unione dello stesso sesso;
  • gli Stati membri sono tuttavia tenuti ad assicurarsi che la loro legislazione contenga criteri che consentano a detto cittadino di ottenere una decisione sulla sua domanda di ingresso e di soggiorno fondata su un esame approfondito della sua situazione personale e motivata in caso di rifiuto;
  • sebbene gli Stati membri abbiano un ampio potere discrezionale nella scelta di detti criteri, questi ultimi, tuttavia, devono essere conformi al significato comune del termine “agevola” e non devono privare tale disposizione del suo effetto utile, e
  • il rifiuto opposto alla domanda di ingresso e di soggiorno, in ogni caso, non può fondarsi sull’orientamento sessuale della persona interessata».

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imagesIl 2017 ha segnato un nuovo anno rivoluzionario nel diritto di famiglia, soprattutto per ciò che attiene ai presupposti per la concessione (an debeautur) e la quantificazione (quantum debeatur) dell’assegno divorzile.

La Suprema Corte, a partire dalla sentenza n°11504 del 10 maggio 2017, ha mutato il suo precedente orientamento, statuendo che la verifica giudiziale sull’an debeatur debba informarsi al “… principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali ‘persone singole’ ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento … [del] la sussistenza delle relative condizioni di legge – ‘mancanza di ‘mezzi adeguati’ o, comunque, impossibilità ‘di procurarseli per ragioni oggettive’” – “…con esclusivo riferimento all’‘indipendenza o autosufficienza economica” del richiedente, essendo irrilevante in tale prima fase “…il tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”;

Di recente, tuttavia, il Tribunale di Roma, appare aver quantomeno mitigato l’applicazione dei suddetti principi, valutando “la mancanza dei mezzi adeguati” proprio alla luce del divario economico tra i coniugi e dello stile di vita goduto in costanza di matrimonio.

I fatti di cui è causa

La vicenda trae origine dal ricorso con cui un facoltoso collega ha chiesto al Tribunale civile di Roma:

  • di pronunciare la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto con l’ex moglie;
  • di revocare l’assegnazione della casa familiare, di sua esclusiva proprietà, disposta in sede di separazione;
  • di disporre il versamento diretto del mantenimento in favore della figlia, studentessa universitaria residente a Milano;
  • di statuire che nulla era dovuto a titolo di mantenimento dell’ex coniuge, in quanto la stessa, pur non lavorando, poteva contare su un considerevole patrimonio immobiliare ricevuto in eredità, nonchè di depositi in denaro, pensione e rendite da terreni boschivi.

Si costituiva l’ex moglie, non opponendosi alla pronuncia sullo status, chiedendo:

  • la conferma dell’assegnazione della casa coniugale, in quanto tuttora frequentata dalla figlia in occasione dei suoi soggiorni romani;
  • il versamento in suo favore di un assegno divorzile del considerevole importo di € 13.000,00;
  • il versamento di ulteriori € 1.700,00 a titolo di mantenimento per la figlia, opponendosi al mantenimento diretto della stessa da parte del padre.

La conferma dell’assegnazione della casa familiare

Alla base della richiesta di revoca dell’assegnazione della casa familiare, il ricorrente poneva la circostanza incontestata del venir meno del relativo presupposto, ovvero la permanenza dei figli nella casa familiare, e ciò in quanto:

  • il figlio maggiore, da tempo economicamente autosufficiente, risiedeva stabilmente in Inghilterra;
  • la figlia, anch’essa maggiorenne ma ancora alle prese con l’università, risiedeva stabilmente a Milano, pernottando nella casa familiare unicamente durante i suoi viaggi a Roma, in occasione delle festività e delle visite a parenti e amici.

Il Tribunale romano, tuttavia, rigetta la domanda attorea, confermando l’assegnazione alla madre della casa familiare “…sino alla sopravvenuta indipendenza economica della figlia…” alla stregua delle seguenti motivazioni:

  • dalle dichiarazioni rese in udienza dalle parti era emerso che la figlia, ancorché non residente più a Roma, aveva mantenuto un legame, anche affettivo, con l’abitazione familiare, ivi soggiornandovi durante periodi di vacanza e festività.
  • la ridotta frequenza dei periodi trascorsi a Roma non sarebbe idonea a interrompere detto legame tra la figlia e la casa coniugale, rappresentando quest’ultima per la stessa un “…punto di riferimento nella città e nel quartiere ove è cresciuta”.
  • La conferma dell’assegnazione della casa familiare alla madre avrebbe pertanto “…[al]lo scopo di garantire alla medesima la conservazione dell’ambiente domestico, quale centro di riferimento di consuetudini, affetti ed interessi”.

L’ordine diretto di pagamento del mantenimento in favore della figlia maggiorenne, economicamente non autosufficiente, non risiedente più quotidianamente con i genitori

Il Tribunale accoglie invece la richiesta di pagamento diretto del mantenimento in favore della figlia, proprio in considerazione “…(del)la mancanza di quotidiana convivenza fra madre e figlia giustifica”.

Ad avviso del Tribunale, infatti, “…la circostanza che allo stato la figlia, pur mantenendo lo stabile collegamento sopra detto con la ex casa coniugale assegnata alla madre, sia domiciliata a (omissis) per motivi di studio e faccia rientro a (omissis) dalla madre solo in occasione dei periodi di vacanza, comporta che sia maggiormente opportuno il versamento della somma di euro 1.500,00 direttamente in suo favore da parte del padre e del residuo importo (euro 200,00 mensili) in favore della madre ed in relazione alle spese necessarie, in proporzione al tempo da questa trascorso presso la casa di (omissis) alla gestione di tale immobile”.

Il diritto dell’ex coniuge all’assegno divorzile in considerazione dell’inadeguatezza dei mezzi, a loro volta considerati alla luce del divario economico tra le parti.

Passando poi alla determinazione della spettanza o meno dell’assegno divorzile in favore dell’ex moglie, il collegio ripercorre puntualmente l’iter dei giudizi di separazione e di modifica delle condizioni di separazione, analizzando la situazione patrimoniale della resistente, confermando la debenza dell’assegno divorzile in favore dell’ex moglie, reputando che la stessa avesse dimostrato “…di non disporre di mezzi adeguati e di non essere in grado di procurarseli per ragioni oggettive”.

Come espressamente ammesso dallo stesso Tribunale, il collegio è arrivato a tale conclusione “…all’esito della valutazione comparativa della complessiva condizione economica delle parti, dalla quale emerge un rilevantissimo divario economico tra le stesse che in alcun modo consente alla resistente, ove non colmato mediante l’assegno in questione di mantenere il medesimo elevato tenore di vita goduto della famiglia durante la convivenza coniugale”.

All’esito della fase istruttoria, era infatti emerso che:

  • il ricorrente, partner di un importante studio legale, vantava una “elevatissima capacità reddituale”, grazie a redditi professionali mensili di circa 30.000,00 euro oltre a immobili e partecipazioni societarie;
  • la resistente, di contro, percepiva un reddito mensile di circa € 1.000,00 a titolo di contributo AGEA per dei boschi siti in Sicilia, era proprietaria di beni immobili per un valore stimato dal C.T.U. di euro 1.827.000,00, disponeva di un fondo pensione e di circa € 80.000,00 su proprio conto corrente bancario.

Ad avviso del Tribunale la corresponsione di un assegno divorzile in favore dell’ex moglie era altresì pienamente conforme a quanto statuito dalla Suprema Corte, la quale, con la succitata sentenza n°11504/17 aveva ribadito: “…la natura assistenziale dell’assegno divorzile e da ciò ha enunciato il principio della “autoresponsabilità economica” degli ex coniugi, quale fondamento della valutazione relativa alla sussistenza del diritto della parte richiedente l’assegno (ad avviso della Suprema Corte infatti nella prima fase prevista dall’art. 5 della legge n. 898/70 e successive modificazioni – quella dell’an debeatur – occorre prescindere, nell’individuare l’adeguatezza o meno dei mezzi del richiedente l’assegno o comunque la sua possibilità di procurarseli, dal parametro del tenore di vita goduto durante la convivenza coniugale e dalla conseguente comparazione delle rispettive condizioni economiche degli ex coniugi e rifarsi piuttosto ad indici specificamente individuali dal giudice di legittimità e concernenti esclusivamente le condizioni del soggetto richiedente quali “1) il possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri latu sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza … della persona che richiede l’assegno; 3) le capacità e possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo; 4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione”.

In particolare, secondo il Tribunale:

  • era indubbio il “…rilevante divario economico tra le parti, tanto dal punto di vista reddituale, quanto da quello patrimoniale”;
  • dall’istruttoria era altresì emerso che la resistente, cinquantacinquenne non aveva mai svolto “…rilevante attività lavorativa nel corso del matrimonio (se non saltuariamente quale restauratrice) e non sembra avere, nonostante le normali condizioni di salute (nulla essendo stato rappresentato in contrario), effettive e concrete possibilità di lavoro personale, peraltro essendosi prevalentemente dedicata nel corso del matrimonio – nell’ambito di un progetto di vita condiviso dagli allora coniugi – al sostegno della brillante carriera del marito ed al soddisfacimento delle esigenze della famiglia e della casa”;
  • il godimento da parte della stessa della casa familiare non poteva essere presa in considerazione in quanto la medesima le sarebbe rimasta assegnata sino all’oramai prossima indipendenza economica della figlia;
  • i redditi derivanti dai contributi AGEA erano appena sufficienti a “provvedere a tutte le esigenze della ex casa coniugale assegnatale”;
  • il patrimonio immobiliare della resistente, ancorché consistente, era inidoneo a produrre elevato reddito da locazione, in quanto un immobile era concesso in comodato d’uso gratuito al padre della stessa; un ulteriore immobile di cui era proprietaria al 20% era abitato per motivi di studi dalla figlia; ulteriori due appartamenti in comproprietà tra i coniugi erano a disposizione per l’utilizzo della figlia; i rimanenti immobili erano ruderi dai quali poteva ricavare non più di € 5.000,00 annui.

Passando poi alla quantificazione del predetto assegno, il Tribunale romano ricorre ancora una volta al raffronto della “…condizione economica complessiva delle parti”, quantificandolo in € 6.500,00 mensili, reputandolo congruo sulla scorta:

  • del predetto divario economico tra i coniugi;
  • del “…l’apporto che ciascuna delle parti ha fornito alla costituzione del patrimonio familiare atteso che se è vero che il nucleo familiare è stato essenzialmente ed egregiamente sostenuto economicamente dal ricorrente in misura largamente prevalente è altrettanto innegabile (e non contestato) che la resistente, fondamentalmente casalinga, abbia provveduto a coordinare la gestione della casa e ad occuparsi della crescita dei figli, dedicandosi con successo alla cura delle relazioni sociali del marito, così fortemente necessaria in relazione alla professione da esso svolta ad elevatissimi livelli”;
  • della rilevante durata del matrimonio.

A sommesso avviso di chi scrive, il ragionamento del Tribunale romano non appare scevro da critiche ponendosi forsanche in contrasto con le linee tracciate dalla Suprema Corte nella sentenza n°11504 del 10 maggio 2017, ad avviso della quale:

  • il divario economico tra i coniugi entra in gioco non già nella determinazione dell’an debeatur ma esclusivamente nella sua eventuale successiva quantificazione;
  • pertanto a nulla rilevando la circostanza che, in costanza di matrimonio, i superiori redditi dell’ex coniuge avevano permesso un tenore di vita più elevato “…se è accertatoche (il richiedente) è economicamente indipendente o effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto tale diritto”.

Di contro, il Tribunale appare aver dato peso al fine della determinazione dell’adeguatezza dei mezzi proprio a quel divario economico trai coniugi che in tale sede non dovrebbe affatto essere preso in considerazione.

L’applicazione rigida del criterio dell’indipendenza economica, infatti, avrebbe certamente dovuto condurre il Tribunale a ritenere sufficiente a garantire l’indipendenza economica della signora:

  • la percezione di un reddito certo di oltre € 1.000,00 mensili, somma che consente la sopravvivenza a diversi milioni di nostri concittadini;
  • la titolarità di diritti reali per oltre € 1.800.000,00 euro;
  • una pensione;
  • la disponibilità di € 80.000,00 sul conto corrente.

La sensazione che anima lo scrivente è che il Tribunale romano abbia tentato di lenire la durezza dei principi ribaditi dalla Suprema Corte in considerazione delle particolarità del caso concreto, volendo apprestare tutela a tutte quelle donne ultracinquantenni che abbiano dedicato, di comune accordo, tutta la propria vita alla cura della famiglia e della casa nonché ad una vita di relazioni sociali e che si ritrovino, dopo un’intera vita matrimoniale, a non poter contare sulla solidità economica dell’ex coniuge per poter continuare a condurre il medesimo stile di vita avuto per tutta una vita.

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[:it]downloadAncora non è sopito il fragore mediatico sollevato dalla sentenza con cui la Corte d’Appello di Milano ha condannato l’ex moglie di Berlusconi a rifondere quanto ottenuto negli anni a titolo di assegno divorzile (sentenza n°4793 del 16 novembre 2017), che la Suprema Corte, con la recente ordinanza n°28326 del 17 ottobre 2017, pubblicata il 28 novembre 2017, ritorna a pronunciarsi sull’annosa questione della debenza dell’assegno divorzile, confermando la necessità di rivedere quelle sentenze basate sul “vecchio” parametro dello stile di vita della famiglia in costanza di matrimonio.

I fatti di causa:

La vicenda trae origine dal ricorso per cassazione presentato da un marito avverso la sentenza con cui la Corte d’Appello di Catania aveva riconosciuto all’ex moglie un assegno di mantenimento, parametrandolo altresì al tenore di vita goduto dai coniugi in costanza di matrimonio. In particolare, il ricorrente deduceva, da un lato, la violazione e falsa applicazione dell’art. 5, co. 6 della legge n°898/70 e, dall’altro, l’omesso esame da parte della Giudice di secondo grado, di un fatto decisivo per il giudizio.

Gli Ermellini, accolgono le doglianze dell’ex marito, richiamando preliminarmente i seguenti principi di diritto affermati nella sentenza n°11504 del 10 maggio 2017:

  • Il diritto all’assegno di divorzio è subordinato alla previa verifica giudiziale, distinta in due fasi nettamente distinte e poste in ordine progressivo dalla stessa norma:
  1. la prima fase, avente ad oggetto l’accertamento dell’an debeatur, che si informa “…al principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali ‘persone singole’ ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento volto al riconoscimento, o meno, del diritto all’assegno divorzile fatto valore dall’ex coniuge richiedente…”;
  2. la seconda fase, a cui si accede solo in caso della conclusione positiva dell’accertamento dell’an, riguarda il quantum debeatur, è invece “…improntata al principio della solidarietà economica dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro quale persona economicamente più debole (artt. 2 e 23 Cost.), che investe soltanto la determinazione dell’importo dell’assegno stesso”.
  • Il giudice del divorzio, dovrà pertanto previamente verificare la debenza dell’assegno accertando la sussistenza delle relative condizioni di legge – “mancanza di ‘mezzi adeguati’ o, comunque, impossibilità ‘di procurarseli per ragioni oggettive“…con esclusivo riferimento all’‘indipendenza o autosufficienza economica” del richiedente, essendo irrilevante in tale prima fase “…il tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”.
  • L’indipendenza o autosufficienza economica dell’ex coniuge richiedente dovrà essere desunta da una serie di indici, quali:
    1. il “…possesso di redditi di qualsiasi specie e/o cespiti mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri latu sensu imposti e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente)…”;
    2. “…(del)la capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso e al mercato del lavoro dipendente o autonomo)…”;
    3. “…(del)la stabile disponibilità di una casa di abitazione”.
  • L’onere di dimostrare l’esistenza dell’indipendenza e/o non autosufficienza economica incombe sull’ex coniuge richiedente, “…fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’altro ex coniuge…”.
  • Nella seconda fase, relativa al quantum debeatur, il giudice dovrà tenere conto “…di tutti gli elementi indicati dalla norma…”, quali:
    1. le condizioni dei coniugi;
    2. le ragioni della decisione;
    3. “…il contributo personale dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune…”;
    4. i redditi di entrambi i coniugi.
  • I suddetti elementi, necessari al giudice per quantificare la misura dell’assegno divorzile, poi, dovranno essere valutati “…anche in rapporto alla durata del matrimonio al fine di determinare in concreto la misura dell’assegno sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte, secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione dell’onere della prova”.

Alla luce dei suddetti principi, pertanto, la Suprema Corte cassa la sentenza della C.d’A. di Catania, poiché “…aveva valutato il conseguimento dell’assegno, con riguardo all’adeguatezza di vita matrimoniale, in base al criterio indicato dalla pregressa giurisprudenza…” disponendo il rinvio alla medesima Corte, in diversa composizione, al fine di valutare nuovamente l’an della richiesta dell’assegno divorzile sulla base del criterio dell’adeguatezza dei mezzi o della sussistenza di ragioni oggettive che impediscano alla moglie di procurarseli.

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[:it]downloadLa Suprema Corte di Cassazione, SS.UU., con ordinanza 5 giugno 2017, n. 13912, si è pronunciata sul ricorso ex art. 41 c.p.c. presentato dalla resistente in un ricorso per la modifica della condizioni di separazione.

In particolare, l’ex moglie, costituitasi in giudizio aveva eccepito il difetto di giurisdizione del giudice italiano, essendosi la stessa trasferita negli USA da oltre due anni unitamente alla figlia.

Con decreto del 28 ottobre 2015, tuttavia, il presidente del Tribunale adito non aveva condiviso l’eccezione della resistente “perché il provvedimento di modifica delle condizioni della separazione aveva natura “integrativa” di quello di separazione, in relazione al quale la signora (OMISSIS) aveva accettato la giurisdizione del giudice italiano” disponendo pertanto la comparizione personale delle parti.

Di qui la presentazione da parte dell’ex moglie di un ricorso ex art 41 c.p.c. alla Suprema Corte:

  1. deducendo la violazione dell’art. 12 del regolamento UE n°2201/2003 (c.d. Regolamento “Bruxelles II bis, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000), in quanto “l’accettazione della giurisdizione del giudice italiano nel procedimento di separazione sarebbe stato erroneamente riferito – nel corso dello stesso – anche al successivo procedimento di revisione, laddove la norma teste’ richiamata, al n. 2, lettera b), prevede che “la competenza esercitata ai sensi del paragrafo 1 (domande di divorzio, separazione personale dei coniugi o annullamento del matrimonio”), cessa non appena la decisione che accoglie o respinge la domanda di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio sia passata in giudicato”;
  2. deducendo l’omesso esame del trasferimento de facto della residenza abituale del marito nel luogo in cui lo stesso esercitava la propria attività commerciale;
  3. censurando l’interpretazione e la legittimità dell’ 37 della l. n°218/1995, attributiva della competenza giurisdizionale italiana “…anche quando uno dei genitori o il figlio è cittadino italiano o risiede in Italia”, nella parte in cui non riconosce primazia alla residenza abituale del minore, criterio consacrato nei regolamenti internazionalprivatistici dell’Unione europea e in varie convenzioni internazionali.

La Corte, investita della questione, preliminarmente afferma:

  • la ricevibilità del ricorso ex art. 41 c.p.c. in quanto “ … la mera delibazione, in via incidentale, in ordine al tema della giurisdizione, contenuta in un provvedimento che, come chiaramente si desume anche dalla parte dispositiva, ha carattere meramente istruttorio ed è quindi privo di natura decisoria – essendo per altro nella specie ogni pronuncia riservata al collegio e non al presidente del tribunale – non può ritenersi preclusiva della proposizione del ricorso per regolamento di giurisdizione”(sul punto Cass., Sez. U, 20 febbraio 2013, n. 4218; Cass., Sez. U., 27 novembre 2011, n. 22382).
  • l’irrilevanza dei provvedimenti assunti nel giudizio a quo successivamente alla proposizione dell’istanza di regolamento preventivo di giurisdizione, da ritenersi condizionati alla conferma del potere giurisdizionale dell’autorità che li ha pronunciati.

Entrando nel merito, poi, gli Ermellini:

  • ribadiscono l’autonomia esistente tra il giudizio di separazione e il giudizio volto alla modifica delle condizioni ivi determinate;
  • negano conseguentemente che l’accettazione della giurisdizione italiana da parte della ricorrente nel giudizio di separazione personale possa riverberare “…la sua efficacia anche nel giudizio di revisione”;
  • affermano che “…il criterio di attribuzione della giurisdizione fondato sulla c.d. vicinanza, dettato nell’interesse superiore del minore (Corte giustizia, 5 ottobre 2010, in causa 296/10), assume una pregnanza tale da comportare anche l’esclusione della validità del consenso del genitore alla proroga della giurisdizione” (Cass., Sez. U, 30 dicembre 2011, n. 30646);
  • affermano che, poiché la richiesta di revisione da parte dell’ex marito verteva unicamente sull’affidamento allo stesso della minore, avente doppia cittadinanza italiana e statunitense, detta doppia cittadinanza rende applicabile il principio, già affermato dalle SS.UU. con sentenza del 9 gennaio 2001, n°1, secondo cui “…ai fini del riparto della giurisdizione e della individuazione della legge applicabile, i provvedimenti in materia di minori devono essere valutati in relazione alla funzione svolta; pertanto quelli che, pur incidendo sulla potestà dei genitori, perseguono una finalità di protezione del minore, rientrano nel campo di applicazione della L. 31 maggio 1995, n. 218, articolo 42, il quale rinvia alla Convenzione de L’Aja del 5 ottobre 1961. Invero nel caso di minore con doppia cittadinanza non può applicarsi l’articolo 4 della Convenzione, che stabilisce la prevalenza delle misure adottate dal giudice dello Stato di cui il minore è cittadino su quelle adottate nel luogo di residenza abituale”.

Alla luce dei suddetti principi, la Corte conclude affermando il difetto di giurisdizione del giudice italiano in favore del giudice della residenza abituale della minore in quanto:

  • “…sotto il profilo oggettivo, del richiamo della citata L. n. 218 del 1995, articolo 42 all’articolo 1 della richiamata Convenzione dell’Aja, anche con riferimento alle misure relative ai figli minori che vengono adottate in sede di separazione personale o di divorzio dei genitori, trova giustificazione nella circostanza che l’Italia non si è avvalsa della facoltà, prevista dall’articolo 15 della Convenzione stessa, di creare una competenza speciale per le misure attinenti ai minori”.
  • “…il parametro della residenza abituale, posto a salvaguardia della continuità affettivo relazionale del minore, non è in contrasto ma, al contrario, valorizza la preminenza dell’interesse del minore” (Cass. SS.UU, 19 gennaio 2017, n°1310 e Cass., 22 luglio 2014, n°16648).

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[:it]separazione-e-soldi_smallLa Suprema Corte si è recentemente pronunciata su un’annosa vicenda familiare relativa alla debenza e alla quantificazione degli assegni di mantenimento dovuti verso i figli e l’ex coniuge, affermando il seguente condivisibile principio: “…le obbligazioni verso i figli e quelle verso la moglie operano su piani differenti e non può la caduta o la riduzione delle prime andare automaticamente a favore delle altre e non può la riduzione delle prime andare automaticamente a favore delle altre”.

Il primo grado di giudizio

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da un ex marito al fine di veder modificate le condizioni della separazione personale omologata dal Tribunale di Bologna, in forza delle quali lo stesso era onerato del mantenimento dei tre figli con assegno mensile di € 5.400,00 (€ 1.800,00 per ciascun figlio) nonché dell’ex moglie, in favore della quale corrispondeva mensilmente l’importo di € 1.600,00. Si costituiva in giudizio l’ex moglie, chiedendo in via riconvenzionale l’aumento del proprio assegno separatizio in caso di revoca o riduzione del mantenimento corrisposto in favore dei tre figli.

All’esito del giudizio di primo grado, il Tribunale di Bologna decideva di:

  • revocare l’assegno di mantenimento in favore del primo genito, oramai maggiorenne ed economicamente autosufficiente;
  • ridurre da € 1.800,00 ad € 1.000,00 il contributo al mantenimento per il figlio secondogenito in quanto maggiorenne ma non ancora economicamente autosufficiente;
  • ha confermato l’assegno di mantenimento di € 1.800,00 in favore del terzo genito, ancora minorenne;
  • accogliere la domanda riconvenzionale dell’ex moglie, aumentando il suo mantenimento da € 1.600,00 ad € 2.400,00 in conseguenza del “…l’incremento delle disponibilità economiche del T. conseguenti alla riduzione dell’onere contributivo a favore dei figli”.

Il grado d’appello

La Corte d’appello di Bologna, adita dai coniugi, riteneva tuttavia di discostarsi dalla decisione del Tribunale di primo grado e, respinto il reclamo dell’ex moglie, accoglieva il reclamo incidentale del marito ritenendo che non potesse disporsi automaticamente un aumento del mantenimento versato in favore dell’ex moglie in conseguenza dei minori esborsi per i figli.

Il ricorso in cassazione

L’ex moglie decideva tuttavia di non darsi per vinta ricorrendo sino in Cassazione, aimè senza fortuna, eccependo da un lato il miglioramento delle condizioni economiche dell’ex marito, conseguenti alla riduzione degli assegni in favore dei figli, dall’altro il peggioramento delle sue condizioni economiche, non potendo più contare sull’assegno di mantenimento in favore dei figli al fine di far fronte alle gravose spese di manutenzione della casa familiare.

Convincente la motivazione degli Ermellini, ad avviso dei quali “…Presupposto per la modifica delle condizioni della separazione è il sopravvenire di circostanze nuove rispetto a quelle esistenti al momento della pronuncia o della omologa della separazione e in ordine alle quali sussiste a carico della parte ricorrente l’onere di dedurle e provarle” (sul punto Cass. civ., sez. 1, n. 4905 del 20 maggio 1999).

In ossequio a tale principio, la Corte d’Appello aveva giustamente ritenuto che l’ex moglie non aveva assolto all’onere di dedurre e comprovare il sopravvenire di circostanze tali da legittimare un aumento dell’assegno separatizio percepito in quanto:

  • la ricorrente si era limitata a dedurre genericamente un miglioramento delle condizioni economiche dell’obbligato senza offrire alcuna prova;
  • di contro, nessuna conseguenza automatica poteva discendere “…dalla riduzione quantitativa dell’obbligo di contribuire al mantenimento dei figli connesso al raggiungimento della loro totale o parziale indipendenza economica…”.

Soffermandosi proprio sull’incidenza della diminuzione o revoca dell’assegno in favore dei figli su quello disposto in favore dell’ex moglie, la Suprema Corte evidenzia come:

  • “…le obbligazioni verso i figli e quelle verso la moglie operano su piani differenti e non può la caduta o la riduzione delle prime andare automaticamente a favore delle altre…”;
  • “…il beneficio economico che ne trae il genitore esonerato non legittima di per sé l’accoglimento della contrapposta domanda di automatico aumento delle contribuzioni rimaste a suo carico…”;
  • “…per ciò che concerne l’assegno di mantenimento in favore del coniuge più debole economicamente, deve aversi riguardo alla circostanza per cui la misura dell’assegno, precedentemente stabilita o concordata, fosse o meno condizionata dal concorrente onere economico nei confronti dei figli e quindi se risultasse o meno sufficiente a integrare di per sé la previsione normativa che impone la corresponsione dell’assegno per il mantenimento del coniuge privo di adeguati redditi propri…”;
  • conseguentemente, in mancanza di prova contraria da parte del coniuge beneficiario “…deve presumersi che la misura dell’assegno corrispondesse alla prescritta necessità di cui all’art. 156c. e non risultasse compressa dal concorrente onere di contribuire al mantenimento dei figli”;
  • parimenti, nessun rilievo può essere dato all’incidenza negativa della revoca e diminuzione del mantenimento in favore dei figli sulle risorse economiche dell’ex moglie – la quale aveva dedotto il loro parziale utilizzo per fare fronte all’onerosa manutenzione della casa familiare – essendo l’onere manutentivo della casa familiare già stato valutato in sede di separazione consensuale.

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