[:it]La sentenza di separazione non può essere revocata per dolo processuale anche nel caso in cui uno dei coniugi abbia taciuto la sua infedeltà.

Così si è espressa la prima sezione civile della Suprema Corte di cassazione che, con sentenza n. 5648 del 10 aprile 2012, ha dato torto a un marito condannato a contribuire al mantenimento della moglie anche se quest’ultima aveva taciuto la sua conclamata relazione extraconiugale dinnanzi al presidente del tribunale (dalla quale era successivamente nato un figlio).

La Corte ha così motivato detta sua decisione: – «il dolo processuale di una delle parti in danno dell’altra in tanto può costituire motivo di revocazione della sentenza, ai sensi dell’art. 395, n. 1, cod. proc. civ., in quanto consista in un’attività deliberatamente fraudolenta, concretantesi in artifici o raggiri tali da paralizzare o sviare la difesa avversaria e impedire al giudice l’accertamento della verità, facendo apparire una situazione diversa da quella reale»; – non sono pertanto idonei a realizzare la fattispecie descritta «la semplice allegazione di fatti non veritieri favorevoli alla propria tesi, il silenzio su fatti decisivi della controversia o la mancata produzione di documenti, che possono configurare comportamenti censurabili sotto il diverso profilo della lealtà e correttezza processuale, ma non pregiudicano il diritto di difesa della controparte, la quale resta pienamente libera di avvalersi dei mezzi offerti dall’ordinamento al fine di pervenire all’accertamento della verità».

Ad avviso degli Ermellini, forse, in questo caso, più che di dolo processuale si potrebbe parlare di una linea difensiva mal impostata: il legale dell’uomo avrebbe dovuto eccepire prontamente la conoscenza della relazione durante la separazione, una volta venutone a conoscenza.[:]

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Una signora, divorziata, notifica al suo ex marito un decreto ingiuntivo di pagamento al fine di ottenere da lui il pagamento del 50% della spese straordinarie in favore del figlio (nella specie cure dentarie)
L’ex marito propone opposizione, che il Tribunale di Napoli respinge confermando l’opposto decreto ingiuntivo. In appello, la decisione di primo grado viene riformata e il decreto ingiuntivo revocato, in considerazione del fatto che dovendosi ogni decisione interpretare sulla base del contenuto del dispositivo e della motivazione, dal complessivo esame della sentenza che aveva pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio delle parti emergeva un esplicito richiamo agli accordi intervenuti tra le stesse, per cui doveva ritenersi operante quanto disposto, ovvero che le spese straordinarie, quali quelle relativa alle cure ortodontiche di cui si controverte, dovessero essere preventivamente concordate tra le parti.
Avverso tale pronuncia la signora ha promosso, inutilmente, ricorso per Cassazione.
La prima sezione della Cassazione, con sentenza 27 aprile 2011 n. 9376, ha osservato, sia pure con riferimento al quadro normativo applicabile, ratione temporis, alla vicenda (antecedente all’entrata in vigore della disciplina in tema di affido condiviso), quanto segue:
a) pur non essendovi coincidenza tra le decisioni di maggiore interesse per i figli e le spese straordinarie, ragion per cui non è configurabile a carico del coniuge affidatario alcun obbligo di previa concertazione con l’altro coniuge sulla determinazione delle spese straordinarie, nei limiti in cui le stesse non implichino decisioni di maggior interesse per i figli, tuttavia, tale principio non è inderogabile, essendo sempre possibile che il giudice determini, oltre che la misura, anche i modi con i quali il coniuge non affidatario contribuisce al mantenimento dei figli, in modo difforme da quanto previsto in linea di principio dalla legge;
b) deve, quindi, verificarsi se con la decisione che, pronunciando sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio, aveva dettato i provvedimenti inerenti all’affidamento del figlio, viene disposta anche la previa concertazione in relazione alle spese straordinarie.
c) Nella specie già con la decisione che aveva pronunciato la separazione personale dei coniugi, il Tribunale di Napoli aveva disposto che le spese mediche di carattere straordinario dovessero essere preventivamente concordate tra le parti, ponendole a carico dell’ex marito in ragione del 50 per cento. Successivamente, nel corso del giudizio relativo alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, le parti avevano raggiunto degli accordi, ribadendo, tra l’altro, il contenuto di tale statuizione.
d) Risulta, pertanto, correttamente applicato il principio secondo cui nell’ordinario giudizio di cognizione, l’esatto contenuto della pronuncia va individuato non alla stregua del solo dispositivo, ma integrando questo con la motivazione nella parte in cui la medesima rivela l’effettiva volontà del giudice.
e) Ne consegue che, in assenza di un vero e proprio contrasto tra dispositivo e motivazione, è da ritenere prevalente la statuizione contenuta in una di tali parti del provvedimento che va, quindi, interpretato in base all’unica statuizione che, in realtà, lo stesso contiene.

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[:it]La Corte di Appello di Milano, con decisione del  21 febbraio 2011 ammonisce la madre ex art. 709 ter c.p.c. per aver assunto, unilateralmente, la decisione inerente alla catechesi del bambino, così non rispettando l’obbligo di condividere con l’altro genitore le decisioni sulle scelte religiose.[:]

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Così si è espressa la Corte di cassazione che, con sentenza 17 febbraio 2011 n. 3905, ha respinto il ricorso di un imprenditore, condannato a versare complessivamente oltre € 2.000,00 al mese, che chiedeva la riduzione dell’assegno di divorzio in favore della moglie e quello di mantenimento in favore della prima figlia.

Il Tribunale, in primo grado, aveva ridotto leggermente il contributo economico.

Ma la Corte d’Appello di Roma, su ricorso della ex moglie, aveva ripristinato l’importo originario dell’assegno, anche se la dichiarazione presentata dall’imprenditore era più bassa di quella presentata dalla sua ex moglie.

Contro questa decisione l’ex marito ha presentato un lungo ricorso in Cassazione, ma senza fortuna.
Gli Ermellini hanno bocciato tutti i motivi del gravame, sostenendo, nella lunga articolata motivazione, che la dichiarazione dei redditi “attesa la sua funzione tipicamente fiscale, non ha valore vincolante, potendo piuttosto essere valutata discrezionalmente, e quindi disattesa alla luce della altre risultanze probatorie” (così anche Cass., 28 aprile 2006, n. 9876).

Cioè a dire: è sufficiente presentare un modello unico troppo basso, poco credibile, per quantificare la misura dell’assegno divorzile e di mantenimento su altre basi (nella specie: potenzialità dell’attività di impresa esercitata dal coniuge obbligato e dell’entità oggettiva degli immobili di cui quest’ultimo risulti proprietario)

E ciò in quanto “il Giudice può fondare il suo convincimento su altre risultanze probatorie idonee a superare, con elementi gravi precisi e concordanti, le emergenze fiscali come desumibili dalle dichiarazioni dei redditi, determinando in via presuntiva ed induttiva l’entità dei redditi effettivi, valorizzando gli elementi di fatto come fonti di prova, sempre che la motivazione adottata al riguardo sia congrua dal punto di vista logico, immune da errori di diritto e rispettosa dei principi che regolano la prova per presunzioni” (così Cassazione 14 maggio 2005 n. 10135).

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Con sentenza n. 3572 del 14 febbraio 2011 la Corte di Cassazione ha interpretato la legge, nel caso in esame l’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 24 aprile 1967 in materia di adozioni dei minori, ratificata con legge n.357 del 1974, ponendo in rilievo:

– che la norma in questione non è autoapplicativa, nel senso che “non conferisce immediatamente ai giudici italiani il potere di concedere l’adozione di minori a persone singole al di fuori dei limiti entro i quali tale potere è attribuito dalla legge nazionale“;

– che la norma attribuisce “al legislatore nazionale la facoltà – e non l’obbligo – di prevedere la possibilità di adozione anche per le persone singole, cosicché perché tale adozione possa avere luogo in Italia è necessaria l’interposizione di una legge interna che determini i presupposti di ammissione e gli effetti all’adozione da parte della persona singola.

Quindi, in assenza di un’apposita legge (la quale ove emanata non sarebbe in contrasto con la Convenzione), non è possibile, allo stato al giudice accogliere una richiesta di adozione da parte di una persona singola

La Cassazione ha  conseguentemente rigettato quindi la richiesta di una mamma adottiva di Genova di ottenere l’adozione nella formula piena per la bimba, con la quale ha vissuto nella Federazione Russa e negli Usa, dove l’adozione è stata dichiarata efficace.

L’adozione – nella formula «speciale» – è stata però consentita e trascritta in Italia, con decreto della Corte di Appello di Genova nel 2009.

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Una delle forme di garanzia per l’adempimento degli obblighi economici stabiliti in sede di separazione è costituita dall’ordine diretto ai terzi, debitori del coniuge inadempiente, di versare direttamente somme periodiche a favore degli aventi diritto.

Abitualmente, detti terzi sono il datore di lavoro dell’obbligato o il conduttore di un immobile di proprietà dello stesso, ma potrebbe anche trattarsi del debitore di somma determinata, non necessariamente di prestazioni periodiche.

La natura pensionistica del debito del terzo non escluda ovviamente la possibilità per il giudice di ordinare il versamento diretto al coniuge separato (Cass. n.13630/1992).

Il potere di ordinare ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di denaro al coniuge obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto, postula una valutazione di opportunità che prescinde da qualsiasi comparazione tra le ragioni poste a fondamento della richiesta avanzata da questi ultimi e quelle addotte a giustificazione del ritardo nell’adempimento, implicando esclusivamente un apprezzamento in ordine all’idoneità del comportamento dell’obbligato a suscitare dubbi circa l’esattezza e la regolarità del futuro adempimento, e quindi a frustrare le finalità proprie dell’assegno di mantenimento” (Cass. civ. n. 23668/06; n. 1095/90; n.7303/83;).

La misura cautelare in commento è applicabile anche alla separazione consensuale (così come chiarito dalla Corte Costituzionale con sentenza n°144/83).

Ovviamente l’ordine al terzo può essere disposto anche in caso di mancato pagamento di somme dovute per il mantenimento dei figli minori (Cass. n.10813/96 e Cass. n. 6557/97)

Una decisione di merito ha disposto che l’adempimento del debitore, successivo all’istanza di distrazione, non preclude l’accoglimento della stessa (Tribunale Taranto 8.11.1996).

E’ discusso se all’ordine al terzo, pronunciato ex art. 156, 6° co., si applicano i limiti previsti per il pignoramento delle retribuzioni (T. Modena 5.2.1999;  Cass. 12204/98

La competenza spetta Tribunale ordinario, il quale decidere dopo aver sentito l’inadempiente e il pubblico ministero, e aver raccolto le informazioni del caso.

Se il terzo – che non è parte del procedimento – si rifiuta di adempiere all’ordine, eccependo l’inesistenza del debito, il coniuge avente diritto potrà promuovere un giudizio ordinario di accertamento dell’obbligo del terzo, con eventuale richiesta di condanna del terzo al risarcimento del danno.

Nella specie il Tribunale di Caltanissetta 7 febbraio2011, a fronte del ritardo, di pochi giorni, nel versamento dell’assegno di mantenimento alla moglie ordina al marito   il versamento diretto della somma dovuta a chi è tenuto alla corresponsione dello stipendio all’obbligato.

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la Cassazione, in una recentissima pronuncia, ha statuito che si deve continuare a corrispondere l’assegno di mantenimento al figlio maggiorenne, già sposato, se è uno studente universitario e non si è ancora realizzato professionalmente. Il matrimonio di un figlio, infatti, non e’ condizione “sufficiente” per fare sospendere l’assegno di mantenimento a carico dei genitori.

La Suprema Corte si allinea al proprio consolidato indirizzo giurisprudenziale in materia di mantenimento dei figli, che ha affermato che l’assegno di mantenimento va corrisposto in ogni caso in cui il figlio non abbia raggiunto una propria indipendenza economica, senza che assumano rilievo, pertanto, né il raggiungimento della maggiore età (Cass. civ. n°23590/2010) nè lo svolgimento di un’attività lavorativa, purché precaria e da sola non sufficiente a consentirgli un’indipendenza economica (Cass. civ. n°18/2011).

Il caso che ha generato la pronuncia in esame ha ad oggetto il ricorso di madre separata, che si era opposta ad un doppio giudizio sfavorevole, nel quale i giudici del Tribunale di Ferrara prima e della Corte d’appello di Bologna, successivamente, avevano esonerato l’ex marito dal continuare a mantenere la figlia sulla base del fatto che aveva conseguito un titolo di laurea spendibile nel mondo del lavoro e si era sposata. La figlia, infatti, pur avendo conseguito un diploma di laurea in scienze motorie che le avrebbe consentito di insegnare educazione fisica, aveva preferito coronare il sogno di fare il medico e si era iscritta a medicina. Inoltre, aveva conosciuto un giovane, marito, anch’egli studente, privo di mezzi economici, con il quale si era poi sposata, pur continuando a vivere con la madre. La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso della madre, afferma che “il matrimonio del figlio maggiorenne gia’ destinatario del contributo del mantenimento a carico di ciascuno dei genitori ne comporta l’automatica cessazione” in quanto “la costituzione del nuovo nucleo” fa si’ che “i coniugi attuino (in potenza) una comunione spirituale e materiale”: tuttavia, nel caso di specie, tale elemento non ha trovato realizzazione visto che al matrimonio non era seguito nessun mutamento sostanziale per la figlia che aveva continuato a vivere, come in passato, con la madre e a frequentare il corso di laurea intrapreso. Inoltre, le condizioni economiche del marito, anche lui ancora studente, non avevano di certo consentito la costituzione di una comunione materiale con la propria moglie.

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[:it]Anche un solo ed unico episodio di percosse, di un coniuge nei confronti dell’altro, costituisce affermazione della supremazia di una persona su di un’altra persona e disconoscimento della parità della dignità di ogni essere umano, che è il principio che sta alla base di tutti i diritti fondamentali considerati dalla nostra Costituzione. Conseguentemente detto episodio, secondo Cassazione 14 gennaio 2011 n. 817, è di per sé idoneo a sconvolgere definitivamente l’equilibrio relazionale della coppia e può, quindi, determinare l’addebito della separazione.

E’ stato conseguentemente accolto dai Giudici di legittimità il ricorso incidentale, promosso dalla moglie, avverso la pronuncia di appello con cui il giudice di secondo grado aveva escluso l’addebito della separazioni al marito, sotenendo che “un solo episodio di violenza fisica, pur particolarmente riprovevole, non può, ove non corrisponda a un comportamento tendenzialmente reiterativo, ovvero tale da dar vita a un atteggiamento che si radichi in qualche modo nel menage coniugale, considerarsi quale causa o concausa di determinante rilievo della crisi coniugale, proprio in quanto l’isolata episodicità del fatto patologico presuppone in re ipsa che vi sia un contesto di normalità fisiologica del quadro relazionale all’interno della coppia”.
Cassazione, Sezione Prima, 14 gennaio 2011 n. 817
Svolgimento del processo
Con sentenza parziale datata 21.1.04 (dep. il 16.2.2004) il Tribunale di Macerata dichiarava la separazione coniugale tra A.L. e S.C., addebitando la separazione al marito, disponendo la prosecuzione del giudizio al fine di decidere in ordine alle questioni economiche controverse.
Detta sentenza veniva impugnata dall’ A. dinanzi alla Corte d’Appello di Ancona, che, con sentenza 9.11.11.2005, in parziale riforma della sentenza summenzionata, revocava la pronuncia di addebito all’ A. Avverso detta sentenza A.L. ha proposto ricorso per cassazione basato su due motivi illustrati con memoria. S. C. ha resistito con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale, cui l’ A. ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo l’ A. denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto (artt. 143 e 151 c.c. e art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). Deduce il ricorrente che la corte di merito avrebbe omesso ogni pronuncia su alcuni motivi di gravame e precisamente, in sintesi: avrebbe omesso di pronunciare sul motivo attinente alla violazione da parte della S. del dovere di fedeltà coniugale, inteso non solo come esclusività del rapporto sessuale, ma anche come assunzione di un impegno di dedizione fisica e spirituale (intesi come impegno a non tradire l’altrui fiducia, identificandosi detto dovere soprattutto con il concetto di dignità personale e solidarietà familiare. La predetta avrebbe tenuto una serie di comportamenti, come comprovato dalle risultanze processuali, posti in essere al solo scopo di ledere la dignità dell’ A.; avrebbe omesso nel pronunciare su violazioni di doveri, quale quello di cercarsi un lavoro e di rispettare la cultura e professionalità del coniuge, scaricando sullo stesso tutte le proprie frustrazioni ed insoddisfazioni, traducendole in desiderio di rivalsa, con la conseguenza di interpretare ogni affermazione del coniuge nel campo professionale e sociale come diminuzione del proprio essere nella vita familiare e nei rapporti interpersonali. In definitiva la corte di merito non avrebbe valutato violazioni di doveri, rientranti nel cd. principio paritario, implicante l’aiuto vicendevole, la reciproca protezione ed il mutuo sostegno nelle necessità quotidiane.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
Secondo il ricorrente il giudice a quo non avrebbe adeguatamente giustificato la decisione adottata in relazione al motivo attinente alla attività lavorativa mai svolta dalla S., avendo detto giudice ritenuto di escludere il dovere della moglie di attivazione del suo potenziale lavorativo solo alla luce dei consistenti redditi del marito; non avrebbe motivato adeguatamente in ordine alla denunciata violazione del dovere di assistenza morale, avendo preso in considerazione, al fine di operare tale valutazione, esclusivamente l’episodio della mancata partecipazione della moglie alla veglia funebre in occasione del decesso della suocera, senza valutare tale episodio nel contesto di altre circostanze che in una considerazione complessiva dei fatti avrebbero dovuto condurre il giudice a ritenere l’esistenza della denunciata violazione.
I due motivi del ricorso principale, che essendo strettamente connessi possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.
Numerosi studiosi della materia ritengono che l’osservanza dell’esclusiva sessuale rappresenti solo un aspetto ed una naturale conseguenza dell’adempimento del dovere di fedeltà, che andrebbe inteso, secondo un significato più esteso, quale dedizione piena verso l’altro coniuge. Il ricorrente propone in questa sede questa tesi contraddetta, però, da altri validi studiosi. Il ricorrente, sulla base di questo più ampio contenuto del dovere di fedeltà coniugale, elenca alcune circostanze, che non sarebbero state considerate dal giudice a quo, e che, se valutate, avrebbero dovuto portare detto giudice ad addebitare alla S. la separazione.
Dalla sentenza impugnata risulta che il giudice a quo ha preso in considerazione i comportamenti addebitati alla moglie dall’ A. e ne ha dato una diversa, adeguata e plausibile giustificazione, diversa da quella che l’ A. ha attribuito agli stessi in sede di merito ed ora vorrebbe attribuire in sede di legittimità, per cui il ricorso appare ai limiti dell’ammissibilità, richiedendo il ricorrente, in definitiva, alla Corte di Cassazione di procedere ad una nuova e diversa valutazioni dei fatti non consentita in sede di legittimità.
Prima di procedere all’esame del ricorso incidentale va esaminata l’eccezione di inammissibilità dello stesso per essere stato notificato alla parte personalmente e non al difensore officiato per la proposizione del ricorso principale.
L’eccezione è infondata. Il controricorso con l’incluso ricorso incidentale, come risulta dalla relata di notifica, è stato notificato ad A.L. presso l’avvocato domiciliatario R. L., in via (…), , che è il legale presso il quale il difensore del ricorrente G. B., del Foro di Macerata, ha eletto il domicilio in (…), come si evince dalla procura in calce al ricorso per cassazione. La predetta notifica soddisfa pertanto l’esigenza di assicurare che il controricorso con il ricorso incidentale vengano portati a conoscenza della parte, come rappresentata dal suo difensore tecnico e come tale qualificato a valutare l’opportunità di contro dedurre, cosa che è stata fatta, sanando in tal modo, ammesso che possa ritenersi sussistente, l’irritualità della notifica.
Con il ricorso incidentale la S. denuncia violazione e falsa applicazione art. 151 c.c., comma 2, e dell’art. 143 c.c., nonché difetto di motivazione.
Tale ricorso è fondato.
Il giudice a quo ha escluso l’addebito della separazioni all’ A., affermando che “un solo episodio di violenza fisica, pur altamente riprovevole, non può, ove non corrisponda ad un comportamento tendenzialmente reiterativo (tale cioè da dar vita ad un atteggiamento che si radichi in qualche modo nel “menage” coniugale) considerarsi quale causa o concausa di determinante rilievo della crisi coniugale, proprio perchè la isolata episodicità del fatto patologico presuppone “in re ipsa” che vi sia un contesto di normalità fisiologica del quadro relazionale all’interno della coppia”.
Tale affermazione non può essere condivisa. Il giudice a quo ha omesso di considerare che la S. è stata indotta a presentare istanza di separazione subito dopo tale gravissimo episodio, asserendo che tale fatto non costituiva un comportamento isolato, ma che il marito era solito “alzare le mani” per futili motivi; circostanza questa che il giudice a quo avrebbe dovuto valutare alla luce delle provate percosse, inflitte dal marito alla moglie per avere la stessa gettato nella spazzatura un pezzo di pane raffermo, cioè per un futilissimo motivo.
Il fatto che risulti provato, per testi, un unico episodio di percosse, non può far ritenere, dinanzi alle affermazioni della S. di comportamenti di violenza non isolati, avvenuti tra le mura domestiche e, quindi, difficilmente provabili, in mancanza di lesioni evidenti, tramite testi, che l’episodicità del fatto, ritenuta senza una adeguata e logica motivazione, presuppone “in re ipsa” che vi sia un contesto di normalità fisiologica del quadro relazionale interno alla coppia.
Con tale affermazione si viene ad affermare che un solo episodio di percosse non è di per sé un fatto grave e non è lesivo e gravemente lesivo della dignità della persona umana, tesi che assolutamente non può essere condivisa. Un simile comportamento costituisce affermazione della supremazia di una persona su di un’altra persona e disconoscimento della parità della dignità di ogni persona, che è il principio che sta alla base di tutti i diritti fondamentali considerati dalla nostra Costituzione, ed è, pertanto, comportamento di per sé idoneo a sconvolgere definitivamente l’equilibrio relazionale della coppia.
Per quanto precede, mentre il ricorso principale – che va previamente riunito a quello incidentale, perchè proposti avverso la medesima sentenza – deve essere respinto, il ricorso incidentale deve essere accolto; la sentenza deve essere cassata in relazione all’accoglimento di tale ricorso e la causa deve essere rinviata alla Corte d’Appello di Ancona, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione, che nel giudicare si adeguerà al principio di diritto sopra enunciato.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale, accoglie l’incidentale, cassa e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Ancona in diversa composizione.
Depositata in Cancelleria il 14.01.2011

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All’affidamento condiviso può derogarsi solo ove la sua applicazione risulti pregiudizievole per l’interesse dei figli minori.

A tale regola non fa eccezione il Tribunale di Nicosia (cfr. l’allegata ordinanza del 14 dicembre 2010, pronunciata all’esito della fase presidenziale del giudizio di separazione tra coniugi), secondo cui: «l’eventuale relazione omosessuale della madre, laddove non comporti un pregiudizio per la prole, non costituisce ostacolo all’affidamento condiviso dei minori ed alla individuazione della dimora degli stessi presso l’abitazione della genitrice, stante la tenera età dei bambini».

Analoghe considerazioni si rinvengono in altre sentenze: Trib. Bologna 15 luglio 2008; Trib. Napoli, 28 giugno 2006, in Giur. merito, 2007, 178, poi confermata da App. Napoli, 11 aprile 2007, n. 1067, in Fam., pers. e succ., 2008, 234 e, da ultimo, Cass., sez. I., 18 giugno 2008, n. 16593, inFamiglia e dir., 2008, 1106….

Il tribunale ha anche affermato che l’atteggiamento del marito non può essere considerato discriminatorio nei confronti della ex moglie: “E’ umanamente comprensibile – scrive il giudice – soltanto in questa prima fase per il disagio conseguente al fallimento dell’unione matrimoniale e tenuto conto del contesto sociale di un piccolo centro“; essendo tuttavia evidente che il protrarsi di tale condotta potrebbe essere sintomatico della sua inidoneità ad affrontare le maggiori responsabilità che l’affidamento condiviso dei figli comporta anche a carico del genitore non stabilmente convivente con loro, non valendo ad offrire ai figli quell’ambiente familiare stabile e sereno a cui gli stessi hanno diritto (cfr. sul punto anche Cass. 17 dicembre 2009, n. 26587, inForo it., 2010, I, 428).

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Ribadisce la Cassazione, sezione lavoro con sentenza 13 dicembre 2010, n. 25145:

– “la qualifica di dirigente non spetta al solo prestatore di lavoro che, come “alter ego” dell’imprenditore, ricopra un ruolo di vertice nell’organizzazione o, comunque, occupi una posizione tale da poter influenzare l’andamento aziendale, essendo invece sufficiente che il dipendente, per l’indubbia qualificazione professionale, nonché per l’ampia, responsabilità in tale ambito demandata, operi con un corrispondente grado di autonomia e responsabilità, dovendosi, a tal fine, far riferimento, in considerazione della complessità della struttura dell’azienda, alla molteplicità delle dinamiche interne nonché alle diversità delle forme di estrinsecazione della funzione dirigenziale (non sempre riassumibili a priori in termini compiuti) ed alla contrattazione collettiva di settore, idonea ad esprimere la volontà delle associazioni stipulanti in relazione alla specifica esperienza nell’ambito del singolo settore produttivo”.

– Ne consegue che tenendo conto della possibile complessità delle strutture aziendali contemporanee, sono qualificabili come veri e propri dirigenti anche quelli c.d. medi o minori “sempre che rientrino nella previsione e definizione della contrattazione collettiva, che ne può differenziare  nell’ambito dell’autonomia negoziale propria delle organizzazioni sindacali -pure la disciplina attraverso una modulazione delle tutele rescissorie sulla base del grado di rappresentatività, di autonomia e di responsabilità in concreto riconosciuto” (così Cass. S.U. n. 7880/07, cit.).

– Restano peraltro esclusi dalla disciplina speciale, legale e contrattuale collettiva, stabilita per la categoria dei dirigenti unicamente “i c.d. pseudo-dirigenti cioè quei lavoratori che seppure hanno di fatto il nome ed il trattamento dei dirigenti, per non rivestire nell’organizzazione aziendale un ruolo di incisività e rilevanza analogo a quelli dei c.d. dirigenti convenzionali (dirigenti apicali, medi o minori), non sono classificabili come tali dalla contrattazione collettiva”.

Conseguentemente:

– La nozione contrattuale di giustificatezza del licenziamento adottata da alcuni contratti collettivi per la categoria dei dirigenti si discosta, sia sul piano soggettivo che su quello oggettivo, da quella di giustificato motivo di cui all’art. 3 della legge n. 604 del 1966:

sul piano soggettivo l’asimmetria trova giustificazione nel rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro in ragione delle mansioni a lui affidate per la realizzazione degli obiettivi aziendali. Anche la semplice inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili ex ante o ad una importante deviazione del medesimo dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro o un comportamento extralavorativo incidente sulla immagine aziendale a causa della posizione rivestiva dal dirigente, possono, pertanto, costituire ragione di rottura di tale rapporto fiduciario.

sul piano oggettivo la concreta posizione assegnata al dirigente nell’articolazione della struttura direttiva dell’azienda può divenire nel tempo non pienamente adeguata nello sviluppo delle strategie del datore di lavoro nell’esercizio di impresa e quindi rendere giustificata la sua espulsione nel quadro di scelte orientate al miglior posizionamento della stessa sul mercato.

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