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separazione-e-soldi_smallLa Suprema Corte, con la sentenza n°1119 del 20 gennaio 2020, chiarisce che il mero mutamento di natura e funzione dell’assegno divorzile, affermato con la recente sentenza n. 18287 del 2018 delle Sezioni Unite, non costituisce ex se giustificato motivo valutabile ai sensi dell’articolo 9 legge divorzio per ottenere la modifica delle condizioni di divorzio, essendo comunque necessario l’accertamento dell’esistenza di una sopravvenuta modifica delle condizioni economiche dei coniugi rispetto all’assetto patrimoniale valutato in sede di divorzio.

In particolare, gli Ermellini enunciano i seguenti, condivisibili principi:

  • “…l’interpretazione delle norme giuridiche da parte della Corte di Cassazione e, in particolare, delle Sezioni Unite mira ad una tendenziale stabilità e valenza generale, sul presupposto, tuttavia, di una efficacia non cogente ma solo persuasiva, trattandosi di attività consustanziale all’esercizio stesso della funzione giurisdizionale, sicché un mutamento di orientamento reso in sede di nomofilachia non soggiace al principio di irretroattività, non è assimilabile allo ius superveniens ed è suscettibile di essere disatteso dal giudice di merito…”;
  • come più volte affermato, “…la revisione dell’assegno divorzile di cui alla L. n. 898 del 1970, articolo 9, postula l’accertamento di una sopravvenuta modifica delle condizioni economiche degli ex coniugi idonea a mutare il pregresso assetto patrimoniale realizzato con il precedente provvedimento attributivo dell’assegno, secondo una valutazione comparativa delle condizioni suddette di entrambe le parti. In particolare, in sede di revisione, il giudice non può procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei presupposti o della entità dell’assegno, sulla base di una diversa ponderazione delle condizioni economiche delle parti già compiuta in sede di sentenza divorzile, ma, nel pieno rispetto delle valutazioni espresse al momento della attribuzione dell’emolumento, deve limitarsi a verificare se, ed in che misura, le circostanze, sopravvenute e provate dalle parti, abbiano alterato l’equilibrio così raggiunto e adeguare l’importo, o lo stesso obbligo della contribuzione, alla nuova situazione patrimoniale reddituale accertate” (così recentemente anche Cass. n. 787 del 2017 e n. 11177 del 2019);
  • il predetto principio si coniuga altresì “…con quello secondo cui in tema di statuizioni c.d. determinative il giudicato si forma sempre rebus sic stantibus e cioè esso è modificabile in caso di successive variazioni di fatto, le quali, per avere rilevanza, devono, poi, esser dedotte mediante l’esperimento dell’apposito procedimento di revisione, fermo restando che il diritto a percepirlo di un ex coniuge ed il corrispondente obbligo dell’altro a versarlo, nella misura e nei modi stabiliti dalla sentenza di divorzio, conservano la loro efficacia sino a quando non intervenga la modifica di tale provvedimento, rimanendo del tutto ininfluente il momento in cui di fatto sono maturati i presupposti per la modificazione o la soppressione dell’assegno, talché’ ‘in mancanza di specifiche disposizioni, in base ai principi generali relativi all’autorità, intangibilità e stabilità, per quanto temporalmente limitata (rebus sic stantibus), del precedente giudicato impositivo del contributo di mantenimento, la decisione giurisdizionale di revisione non può avere decorrenza anticipata al momento dell’accadimento innovativo, rispetto alla data della domanda di modificazione’” (così anche Cass. n. 16173 del 2015; cfr. pure Cass. n. 17689 del 2019, in tema di opposizione a precetto).

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downloadIl caso

La Corte d’Appello di Trento, con sentenza n°144 del 26 maggio 2017, confermava il provvedimento con cui il giudice di prime cure:

  • aveva affidato in via esclusiva i figli minori alla madre;
  • aveva quantificato in €350,00 mensili il mantenimento dovuto per ciascun figlio.

Il padre, lungi dal darsi per vinto, ricorre alla Suprema Corte:

  • dolendosi del fatto che il giudice della famiglia, in violazione dell’art. 337 quater c.c., avrebbe illegittimamente disposto l’affido esclusivo dei minori alla madre sulla base di “… un giudizio prognostico sul comportamento dell’odierno ricorrente disancorato da basi solide”;
  • ritenendo la sentenza impugnata nulla “…per assenza di motivazione circa le ragioni che hanno condotto la corte di merito a ritenere che le minori non avrebbero tratto beneficio dal perdurare della relazione con il padre”;
  • lamentandosi dell’omessa considerazione delle “…dichiarazioni delle figlie minori dalle quali era emersa l’importanza della figura paterna nelle scelte relative la loro vita”.

I principi enunciati dalla Suprema Corte

Di diverso avviso la Suprema Corte che, con ordinanza n°28244/2019, dichiara l’inammissibilità del ricorso alla luce dei seguenti e condivisibili principi:

  1. in materia di affidamento dei figli minori, il giudice della separazione e del divorzio deve attenersi al criterio fondamentale (…) rappresentato dall’esclusivo interesse morale e materiale della prole”;
  2. in tale ottica, il Giudice deve privilegiare “…quel genitore che appaia il più idoneo a ridurre al massimo i danni derivati dalla disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il migliore sviluppo della personalità del minore”;
  3. l’individuazione del genitore affidatario e/o collocatario deve avvenire in base ad “…un giudizio prognostico circa la capacità del padre o della madre di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione di genitore singolo”, basato su elementi concreti, quali le “…modalità con cui il medesimo ha svolto in passato il proprio ruolo, con particolare riguardo alla sua capacità di relazione affettiva, di attenzione, di comprensione, di educazione, di disponibilità ad un assiduo rapporto, nonché sull’apprezzamento della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente che è in grado di offrire al minore”;
  4. la predetta valutazione, poiché rientrante nella discrezionalità del giudice di merito, deve ritenersi insuscettibile di censura in sede di legittimità, purché ispirata al parametro di riferimento del superiore interesse del minore e sufficientemente motivata.

Ad avviso della Cassazione, nel caso di specie, il giudizio prognostico operato dal giudice di merito doveva considerarsi sufficientemente motivato e ispirato al criterio del superiore interesse del minore, avendo il giudicante disposto l’affido esclusivo dei minori alla madre in ragione:

  • del “trasferimento [del padre] in regione diversa e distante da quella di residenza delle minori”;
  • della “mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento per la prole” da parte del padre;
  • della “scarsa partecipazione alle scelte inerenti le vite delle figlie” da parte del padre;
  • della “trascuratezza dei propri doveri genitoriali” da parte del padre;
  • della effettiva valutazione e ponderazione da parte del giudice “…delle dichiarazioni rilasciate dalle figlie il cui esame, pertanto, non può di certo definirsi omesso”.

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classmates-snack-time-1465989-1279x1251A distanza di pochi mesi dal deposito della sentenza n°20504 del 30 luglio 2019, con cui le Sezioni Unite avevano ritenuto obbligatoria la fruizione della mensa scolastica da parte degli alunni in quanto rientrante nella finalità di “educazione alimentare” perseguita dal sistema scolastico italiano, il T.A.R. Lazio ritorna sull’annosa questione della legittima scelta da parte dei genitori di preferire il pranzo da casa.

In particolare, ad avviso del giudice amministrativo, non vi sarebbero ragioni per impedire ai genitori la facoltà di scegliere tra mensa scolastica e pranzo da casa:

  • essendo il servizio di ristorazione scolastica previsto dal D.M. 31 dicembre 1983 “…facoltativo sia per l’Ente Locale, libero anche di non erogarlo, sia per l’utenza, libera di non servirsene”;
  • dovendo essere “…riconosciuto agli studenti non interessati a fruire del servizio mensa il diritto a frequentare ugualmente il tempo mensa, senza essere costretti ad abbandonare i locali scolastici in pieno orario curriculare”;
  • essendo innecessario e sproporzionato, al fine di “…prevenire il rischio igienico-sanitario”, vietare agli studenti di portare il pranzo da casa in considerazione del fatto che gli stessi discenti sono ad ogni modo liberi di portare da casa le merende del mattino.

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[:it]La VI^ sezione della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 1072/2018 chiarisce quando un coniuge in caso di separazione ha diritto alla restituzione della metà delle rate del mutuo che egli ha versato per intero, non ricorrendo la fattispecie dell’accollo interno.

 

La vicenda nasce dalla Corte d’Appello di L’Aquila che accoglieva l’appello proposto da M.A., ex moglie di G.L., contro la sentenza di primo grado che l’aveva condannata a restituire al suo ex marito le rate di un mutuo ipotecario che i coniugi avevano stipulato per l’acquisto della casa familiare.

Nonostante fosse intervenuta la separazione dei coniugi ed il conseguente scioglimento della comunione legale, infatti, l’ex marito aveva continuato a pagare esclusivamente e per intero le rate del mutuo ipotecario.

Per la Corte d’ Appello, il provvedimento presidenziale che aveva stabilito in via provvisoria le condizioni economiche del divorzio, anche se non aveva posto a carico dell’ex marito l’obbligo di pagamento delle rate del mutuo, come misura sostitutiva dell’assegno divorzile, si fondava sulla premessa di un’assunzione volontaria di tale impegno da parte del marito; impegno che veniva qualificato come accollo interno, in base al quale l’ex marito non aveva diritto alla restituzione, non rilevando invece che la sentenza che aveva dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio avesse respinto la domanda della moglie volta a ottenere la corresponsione di un assegno divorzile.

L’ex marito, vista la sentenza della Corte d’Appello, propone ricorso per Cassazione, deducendo, in particolare, violazione degli artt. 1273, 1322, 1326, 1362 e 1299 c.c..

Il ricorrente si doleva del fatto che il giudice a quo avesse desunto erroneamente la prova della volontà del ricorrente di accollarsi per intero le rate del mutuo solo dalla premessa del provvedimento presidenziale, rilevando che la manifestazione di tale pretesa volontà non risultava in nessun verbale precedente.

La Suprema Corte, nell’accogliere l’impugnazione dell’ex marito, osserva che la prova dell’accollo non può e non deve desumersi dalle mere premesse di un provvedimento. Ciò ancor di più con riferimento al caso di specie, in cui il provvedimento:

  • era addirittura temporaneo e quindi destinato ad esaurire i suoi effetti col passaggio in giudicato della sentenza di divorzio;
  • non solo conteneva alcuna statuizione a riguardo, ma ometteva addirittura di dare atto delle modalità attraverso le quali il ricorrente avrebbe manifestato l’effettiva volontà di assumere per l’intero l’obbligazione di pagamento.

Gli Ermellini, chiariscono altresì che la motivazione della sentenza impugnata deve considerarsi meramente apparente in quanto:

  • basata solo su un’interpretazione del provvedimento presidenziale, totalmente sganciata dalla valutazione dei fatti;
  • la prova in questione, di contro, avrebbe dovuto essere tratta da elementi documentali.

Articolo redatto dalla dott.ssa Maria della Pietra

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Risultati immagini per immagine moglie mantenimentoLa Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza 30 ottobre 2019 n. 27771 ha statuito che  all’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa. Detta natura discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate e senza che la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, venga finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma piuttosto al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza 7 giugno – 30 ottobre 2019, n. 27771
Presidente Genovese – Relatore Bisogni

Rilevato che:

  1. Con ricorso del 6 ottobre 2014 il sig. C. ha chiesto al Tribunale di Milano di pronunciare lo scioglimento del matrimonio contratto il (omissis) con M.C.
    2. Il Tribunale di Milano con sentenza n. 3588/2016 ha dichiarato lo scioglimento del matrimonio e ha imposto al sig. C. il pagamento di un assegno divorzile mensile di 3.500 Euro.
    3. La Corte di appello di Milano con sentenza n. 5422/2017 ha ridotto la misura dell’assegno a 2.500 Euro, con decorrenza dal mese di novembre 2017 confermando nel resto la impugnata sentenza del Tribunale. Ha compensato per metà le spese del giudizio di appello e ha condannato il sig. C. al pagamento della residua quota in favore della sig.ra M. .
    4. Ricorre per cassazione il sig. C. secondo il quale il parametro dell’autosufficienza di cui alla sentenza n. 11504/2017 della Corte di Cassazione in materia di assegno divorzile non è stato interpretato in maniera rigorosa dalla Corte di appello che ha così violato e falsamente applicato la L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6. Rileva il ricorrente che la sig.ra M. gode di una pensione per complessivi Euro 12.192 annui, è proprietaria della sua abitazione in (…) e dispone di un ulteriore immobile in (…). Nell’ottobre 2015 ha estinto il mutuo ipotecario che comportava il pagamento di una rata mensile di 946,51 Euro. È quindi in possesso di mezzi adeguati di sussistenza. Il ricorrente censura poi con il secondo motivo il mancato esame della produzione documentale relativa ai redditi della sig.ra M. .
  2. M.C. si difende con controricorso e deposita memoria difensiva. Propone ricorso incidentale articolato in due motivi con i quali deduce: a) la violazione e falsa applicazione di legge con riferimento alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, per ciò che concerne il criterio di determinazione dell’an dell’assegno divorzile; b) la violazione e falsa applicazione di legge con riferimento alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, per ciò che concerne la mancata e comunque non corretta applicazione dei criteri per la determinazione del quantum dell’assegno divorzile posti da tale norma.

Ritenuto che:

  1. La controversia deve essere esaminata alla luce della nuova giurisprudenza in materia di assegno divorzile compendiata nella sentenza n. 18287 dell’11 luglio 2018 delle Sezioni Unite Civili di questa Corte che, come è noto, ha affermato che il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto. Infatti all’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate e senza che la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, venga finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma piuttosto al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi.
  2. Alla luce di questa nuova giurisprudenza il primo motivo del ricorso principale si rivela infondato perché teso a far valere una interpretazione della L. sul divorzio, art. 5, comma, tutta costruita sulla giurisprudenza introdotta con la sentenza n. 11504/2017, della rigida ripartizione bifasica della determinazione dell’an e del quantum dell’assegno divorzile, della riaffermazione della funzione unicamente assistenziale dell’assegno di divorzio, della perimetrazione del quantum nei limiti della attribuzione di una somma idonea a garantire l’autosufficienza economica al coniuge beneficiario dell’assegno. Principi che la citata sentenza delle Sezioni Unite ha ritenuto non coerenti alla funzione complessa dell’assegno e alla rilevanza del contributo fornito dal coniuge richiedente al fine di realizzare quella solidarietà post-coniugale che la Costituzione intende garantire al coniuge che ha apportato un contributo rilevante al benessere familiare e che ha sacrificato le proprie potenzialità e aspirazioni lavorative e professionali per dedicarsi alla cura del nucleo familiare. In questa prospettiva è invece fondato il ricorso incidentale così come il secondo motivo di quello principale perché entrambi sono intesi alla rivalutazione del materiale probatorio da parte del giudice del rinvio alla luce della funzione tripartita dell’assegno di divorzio e presuppongono una adeguata valutazione della capacità reddituale ed economica delle parti.
  3. Va pertanto respinto il primo motivo del ricorso principale mentre va accolto il ricorso incidentale e il secondo motivo del ricorso principale con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Corte di appello di Milano che, in diversa composizione, rivaluterà la controversia alla luce dei principi indicati dalla citata sentenza delle Sezioni Unite n. 18287/2018 e deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso incidentale e il secondo motivo del ricorso principale di cui rigetta il primo motivo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Milano che, in diversa composizione, deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
Dispone che in caso di pubblicazione della presente sentenza siano omesse le generalità e le indicazioni identificative delle parti.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.[:]

[:it]downloadLe Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza n°24608 del 02 ottobre 2019 hanno chiarito, in una controversia transfrontaliera concernente la richiesta di affido e il mantenimento di figlio minore all’interno di un giudizio di separazione, il difetto di giurisdizione del giudice italiano qualora il minore non risieda abitualmente in Italia, e ciò indipendentemente sia dalla sua cittadinanza che dalla sua residenza anagrafica.

Il caso

Una coppia, composta da un marito italiano e da una moglie greca e residente in Italia, contrae matrimonio in Italia. A distanza di 2 anni, nel 2015, gli sposi si trasferiscono in Grecia al fine di permettere ai genitori della sposa di assisterla durante la fase terminale della gravidanza.

Alla nascita la bambina acquista la doppia cittadinanza italiana e greca e viene iscritta tanto all’ufficio dello stato civile del comune italiano in cui i genitori avevano fissato la residenza al momento del matrimonio che in Grecia.

Dopo la nascita il marito si ritrasferisce in Italia, chiedendo alla moglie di ivi ritrasferirvi unitamente alla figlia.

I provvedimenti presidenziali di non luogo a provvedere

Dopo poco nascono insanabili contrasti che portano il marito a depositare nel 2016 un ricorso per separazione esponendo una diversa ricostruzione dei fatti – accusando la moglie di non essere voluta rientrare in Italia dopo il parto – e chiedendo:

  • l’addebito della separazione alla moglie;
  • l’affido esclusivo della figlia;
  • l’adozione di opportuni provvedimenti per il rientro della minore e il divieto di espatrio senza l’autorizzazione del padre.

Si costituiva la moglie, negando la ricostruzione operata dal marito e chiedendo, a sua volta, l’affido esclusivo della minore, senza tuttavia eccepire il difetto di giurisdizione del giudice italiano.

Con provvedimento presidenziale, il Presidente del Tribunale di Ancona autorizzava i genitori a vivere separati, dichiarando, tuttavia, non luogo a provvedere sulle domande relative alla minore in quanto nata e risieduta da sempre in altro Stato dell’Unione Europea.

Il reclamo

Il marito proponeva reclamo avverso la dichiarazione di non luogo a provvedere alla luce del fatto che:

  • la resistente non avesse eccepito alcun difetto di giurisdizione;
  • la giurisdizione del giudice italiano fosse sussistente “in quanto la bambina è cittadina italiana e residente anagraficamente in Italia dalla nascita”.

Si costituiva la moglie contestando la giurisdizione del giudice italiano in favore di quello greco, quale giudice dello Stato di residenza abituale della figlia.

La Corte di appello di Ancona con provvedimento dell’11 gennaio 2017 rigettava il reclamo aderendo alla contestazioni della moglie, alla luce del chiaro disposto dell’art. 8 del Regolamento UE n°2201/2003 (cd. Bruxelles II bis).

Il giudizio dinnanzi al Tribunale di Atene

Il marito ricorreva allora al Tribunale di Atene al fine di ottenere il rientro della minore ai sensi dell’art. 11 del predetto regolamento Bruxelles II bis.

La domanda veniva tuttavia rigettata, non ricorrendo né l’ipotesi del trasferimento illecito della minore, in quanto avvenuto con il consenso di ambedue i genitori, né tantomeno dell’illecito trattenimento della stessa.

Il regolamento di giurisdizione

Il padre decideva pertanto di proporre regolamento di giurisdizione ex art. 41 c.p.c. eccependo:

  • che il giudice italiano non avrebbe potuto “…sollevare d’ufficio eccezione di difetto di giurisdizione”;
  • che ad ogni modo la controparte avrebbe accettato implicitamente la giurisdizione italiana;
  • che non era stato incardinato in Grecia alcun analogo giudizio;
  • che il criterio della residenza abituale dovesse concorrere con ulteriori criteri previsti a livello europeo, quale quello della residenza abituale dell’attore.

Gli ermellini rigettano, tuttavia, il ricorso alla luce della seguente condivisibile motivazione:

  • gli articoli artt. 8, par. 1, del Regolamento 2201/03 e 3 del Regolamento 4/2009, individuano quale unico giudice competente a pronunciarsi sulle domande di affido e mantenimento della prole il giudice “…dello Stato di residenza abituale dei minori al momento della loro proposizione”;
  • attraverso il predetto criterio, il Legislatore europeo ha inteso “…salvaguardare l’interesse superiore e preminente dei medesimi a che i provvedimenti che li riguardano siano adottati dal giudice più vicino al luogo di residenza effettiva degli stessi, nonchè realizzare la tendenziale concentrazione di tutte le azioni che li riguardano, attesa la natura accessoria della domanda relativa al mantenimento rispetto a quella sulla responsabilità genitoriale”;
  • una deroga al predetto criterio, richiede, ai sensi dell’art. 12 “…una esplicita accettazione della giurisdizione anche sulla materia della responsabilità genitoriale da parte di entrambi i coniugi, accettazione che deve essere esplicitamente e inequivocamente intervenuta alla data in cui il giudice è stato adito con la domanda di separazione o al momento della formazione del contraddittorio, dovendo altrimenti ritenersi non derogabile il criterio esclusivo della residenza abituale del minore”;
  • non è sufficiente al fine di derogarvi, la mera proposizione di difese o domande riconvenzionali dinnanzi al giudice incompetente, non potendosi attribuire alcuna “…rilevanza implicita al comportamento processuale delle parti”;
  • non sussiste parimenti un’ipotesi di sottrazione internazionale di minore, come correttamente valutato dal Tribunale di Atene, unico competente a decidere sulla istanza di rientro.

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imagesLa Suprema Corte di Cassazione, sez. VI^ – 1, con ordinanza n°22411 del 21 maggio 2019, pubblicata in data 6 settembre 2019, ha chiarito la portata da attribuirsi al principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato con particolare riferimento alla modalità di affidamento di un figlio nato fuori dal matrimonio.

La vicenda in esame

I genitori di un bambino nato fuori dal matrimonio si rivolgevano congiuntamente al Tribunale per vedere regolamentato, conformemente all’accordo tra gli stessi intercorso, l’affidamento del minore e le modalità di esercizio del diritto di visita da parte del padre.

La madre, tuttavia, proponeva reclamo avverso il predetto provvedimento, ritenendo che il Tribunale non avesse trasfuso correttamente gli accordi intervenuti trai genitori e che le modalità di frequentazione padre-figlio fossero eccessivamente frammentate. Il giudice del gravame, tuttavia, confermava la statuizione del giudice di prime cure, in quanto ritenuta corrispondente al superiore interesse del minore.

La signora decideva pertanto di ricorrere sino in Cassazione, censurando l’operato della Corte d’Appello in quanto, a suo dire, quest’ultima si sarebbe limitata a verificare la corrispondenza dell’accordo raggiunto trai genitori con quanto disposto dal Tribunale, senza analizzare le sue doglianze, violando così il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

La decisione della Suprema Corte

La VI^ sezione, investita del ricorso, lo reputa tuttavia infondato alla luce delle seguenti condivisibili motivazioni:

  • come noto, i provvedimenti riguardo ai figli di cui all’art. 337 ter c.p.c. devono essere improntati al superiore interesse degli stessi;
  • il giudice pertanto se da un lato può prendere atto degli accordi intervenuti tra i genitori “…solo se gli stessi risultano ‘non contrari all’interesse dei figli’”, dall’altro può pronunciarsi anche ultra petita, difformemente dagli accordi raggiunti tra i genitori, qualora reputati contrari all’interesse dei figli (Cass. n. 25055 del 23/10/2017; Cass. n. 11412 del 22/05/2014;
  • a ciò consegue che la trasposizione del formale accordo dei genitori nel provvedimento giudiziale deve comunque essere conseguente alla valutazione della sua corrispondenza al superiore interesse del minore;
  • nel caso di specie non sarebbe pertanto rilevante la contestazione da parte della madre della non corretta trasposizione degli accordi dei genitori nel provvedimento impugnato, essendo dirimente unicamente l’avvenuta valutazione da parte del giudice della corrispondenza delle statuizioni al superiore interesse del minore;
  • in aggiunta, la ricorrente non avrebbe parimenti chiarito né la regolamentazione vigente né i motivi per i quali riteneva la stessa contraria all’interesse del minore.

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kate-separatedLa Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza ordinanza n°16404 del 19 giugno 2019, ha chiarito che, con riferimento al rimborso delle spese di mantenimento del minore, “…che ove ad esse abbia provveduto integralmente uno soltanto di suoi genitori (come pacificamente accaduto nella specie), a questi spetti il diritto di agire in regresso, per il recupero della quota relativa al genitore inadempiente, secondo le regole generali sul rapporto fra condebitori solidali: come si desume, in particolare, dall’art. 148 c.c. (richiamato dall’art. 261 c.c., entrambi nei rispettivi testi, qui applicabili ratione temporis, vigenti anteriormente al D.Lgs. n. 154 del 2013, entrato in vigore il 7 febbraio 2014), che, prevedendo l’azione giudiziaria contro tale genitore, postula il diritto del genitore adempiente di agire (appunto, in regresso) nei confronti dell’altro (cfr. Cass. n. 15063 del 2000; Cass. n. 10124 del 2004)”.

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separazione-e-soldi_smallI fatti di cui è causa

All’esito del primo e secondo grado di un giudizio di divorzio, un ex marito veniva condannato a corrispondere all’ex coniuge l’importo di € 400,00 mensili a titolo di assegno divorzile.

Senza darsi per vinto, lo stesso decideva di ricorrere sino in Cassazione, denunciando “la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, nonché il vizio di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5”, contestando il diritto dell’ex moglie alla percezione dell’assegno divorzile in considerazione del fatto che quest’ultima:

  • era titolare “…del diritto di usufrutto su di un appartamento donato alla figlia”;
  • era altresì “…proprietaria di un’altra unità immobiliare – ristrutturata ed ampliata fino a sette vani durante il matrimonio”;
  • aveva “…diritto all’assegno sociale INPS”.

La risposta della Suprema Corte

La Suprema Corte, investita della questione, preliminarmente chiarisce, richiamando la celeberrima pronuncia delle SS.UU. n°18287 del 117/2018, che:

  • l’assegno divorzile, secondo la decisione abbia una funzione assistenziale, compensativa e perequativa, per cui debba essere determinato alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto, e che tali criteri vadano tenuti presenti sia nella attribuzione che nella quantificazione dell’assegno”;
  • la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non sia finalizzata, poi, alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi”.

Entrando nel merito della questione, gli Ermellini dichiarano inammissibile il ricorso rilevando come la Corte d’Appello, nel riconoscere in capo all’ex moglie il diritto ad un assegno divorzile e determinarne l’entità:

  • abbia operato una corretta comparazione dei redditi dei coniugi, tenendo in considerazione sia la percezione da parte della moglie di una modesta pensione mensile e la titolarità in capo alla stessa del diritto di usufrutto su un immobile sia i redditi lordi da lavoro percepiti dal marito;
  • abbia tenuto conto “…della durata del matrimonio (più di quarant’anni) e dell’addebitabilità della crisi coniugale – affermata nella decisione di primo grado e non contestata dal P. – al comportamento tenuto dal marito in costanza di matrimonio”;
  • non abbia tenuto di contro in considerazione della ristrutturazione ed ampliamento dell’immobile, di proprietà dell’ex moglie, in cui la stessa viveva, in quanto circostanza né dedotta né comprovata dal ricorrente nei precedenti gradi di giudizio.

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downloadCorollario del principio del superiore interesse del minore è senza dubbio la sua audizione in ogni procedura giudiziaria che lo riguardi.

Detta audizione è divenuta obbligatoria, anche in Italia, a seguito della ratifica, con legge n°77 del 2003, della Convenzione di Strasburgo sullo esercizio dei diritti del fanciullo del 1996, che all’art. 6 all’uopo espressamente dispone: “Nei procedimenti che riguardano un minore, l’autorità giudiziaria, prima di giungere a qualunque decisione, deve: a) esaminare se dispone di informazioni sufficienti ad fine di prendere una decisione nell’interesse superiore del minore e, se necessario, ottenere informazioni supplementari, in particolare da parte dei detentori delle responsabilità genitoriali; b) quando il diritto interno ritiene che il minore abbia una capacità di discernimento sufficiente: – assicurarsi che il minore abbia ricevuto tutte le informazioni pertinenti, – nei casi che lo richiedono, consultare il minore personalmente, se necessario in privato, direttamente o tramite altre persone od organi, con una forma adeguata alla sua maturità, a meno che ciò non sia manifestamente contrario agli interessi superiori del minore, permettere al minore di esprimere la propria opinione; c) tenere in debito conto l’opinione da lui espressa”.

Come successivamente chiarito dalla Suprema Corte, con sentenza n°16753 del 27 Luglio 2007: “…l’audizione dei minori nelle procedure giudiziarie che li riguardano e in ordine al loro affidamento ai genitori è divenuta comunque obbligatoria con l’art. 6 della Convenzione di Strasburgo sullo esercizio dei diritti del fanciullo del 1996, ratificata con la legge n°77 del 2003 (Cass. 16 aprile 2007 n°9094 e 18 marzo 2006 n°6081), per cui ad essa deve procedersi, salvo che possa arrecare danno al minore stesso, come risulta dal testo della norma sovranazionale e dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. civ.)”.

Al fine di conformarsi al suddetto dettato, il Legislatore italiano, con legge n°219 del 10 dicembre 2012, ha espressamente previsto, all’art. 315 bis, co. 3, c.c. che “Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e procedure che lo riguardano”.

Nonostante il decorso di oltre 15 anni dalla ratifica della Convenzione di Strasburgo e di oltre 6 anni dalla predetta novella legislativa, tutt’oggi numerose sono aimè le procedure giudiziarie in cui, in spregio del suddetto chiaro dettato normativo, le corti territoriali assumono decisioni in punto di affido di figli minori senza alcuna previa loro audizione ovvero senza motivare le ragioni poste alla base della loro mancata audizione.

Al fine di chiarire la portata dell’obbligo motivazionale in caso di omessa audizione di un minore infradodicenne, è recentemente intervenuta la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n°10774 del 17 aprile 2019.

I fatti di cui è causa:

Un marito adiva il Tribunale di Busto Arsizio chiedendo pronunciarsi sentenza di separazione personale con  addebito alla moglie – la quale aveva abbandonato il tetto coniugale trasferendosi, contro la sua volontà, insieme al figlio infradodicenne in Sicilia – e affido esclusivo in suo favore della prole.

Nel corso del giudizio veniva espletata una CTU, senza, tuttavia, che il consulente incaricato riuscisse né a sentire il minore né ad incontrare la moglie, a causa degli ostacoli frapposti dalla stessa.

All’esito della CTU, il Tribunale, con sentenza:

  • disponeva l’affidamento in via esclusiva del figlio minore al padre, con collocamento presso la di lui abitazione;
  • addebitava la colpa della separazione alla moglie, per abbandono del tetto coniugale.

La Corte d’Appello di Milano, adita dall’ex moglie, con sentenza del 7 ottobre 2015, riformava tuttavia la sentenza:

  • disponendo l’affidamento del figlio minore al Comune presso cui si era trasferita la moglie, con collocamento presso la residenza materna;
  • ponendo sul padre l’obbligo di versare all’ex moglie la somma mensile di € 350,00 a titolo di mantenimento per la prole;
  • revocando il provvedimento di assegnazione della casa familiare in favore del padre.

Ad avviso della Corte, infatti, la moglie – che medio tempore aveva instaurato una nuova stabile convivenza e avuto un figlio dal nuovo compagno – aveva dato prova che il minore “…si era integrato nella nuova famiglia dove viveva sereno, curato, accudito e pertanto nell’interesse del minore doveva essere valorizzata la continuità e disposta la convivenza con la madre ed il suo nuovo nucleo familiare…”.

Il ricorso per cassazione

Avverso detta pronuncia ricorreva per cassazione il marito dogliendosi, inter alia, dell’omessa audizione del minore nel giudizio e nella CTU espletata in primo grado.

La Suprema Corte, pronunciandosi sul punto, preliminarmente chiarisce, sulla scorta dei principi recentemente affermati, con ordinanza n°12957 del 24 maggio 2018, che, “in tema di separazione personale tra coniugi, ove si assumano provvedimenti in ordine alla convivenza dei figli con uno dei genitori”:

  1. “l’audizione del minore infradodicenne, capace di discernimento, costituisce adempimento previsto a pena di nullità;
  2. a ciò consegue l’obbligo per il giudice “…di specifica e circostanziata motivazione – tanto più necessaria quanto più l’età del minore si approssima a quella dei dodici anni, oltre la quale subentra l’obbligo legale di ascolto” qualora:
  3. ritenga di non procedere a detta audizione ritenendo “…il minore infradodicenne incapace di discernimento…” ovvero “…l’esame manifestamente superfluo o in contrasto con l’interesse del minore…”;
  4. “…opti, in luogo dell’ascolto diretto, per un ascolto effettuato nel corso di indagini peritali o demandato ad un esperto al di fuori di detto incarico”.

Applicando i suddetti principi al caso in esame, la Suprema Corte rileva come la Corte d’Appello abbia indebitamente riformato la sentenza di primo grado “…senza tuttavia adempiere all’obbligo di motivare con particolare rigore e pertinenza il motivo per il quale riteneva di collocare il minore presso la madre”:

  • nonostante non si fosse mai previamente proceduto all’audizione del minore né “…dal giudice né da persona da lui incaricata…”;
  • nonostante la stessa CTU non avesse potuto procedere all’audizione del minore né tantomeno ad accertare la capacità genitoriale della madre, “…la quale si era invece sottratta all’esame peritale e nemmeno aveva consentito che vi partecipasse il figlio”.

Di qui, la decisione di cassare la sentenza con rinvio alla Corte d’Appello, in diversa composizione, affinché si pronunci nuovamente, stabilendo la collocazione del minore e le modalità di frequentazione dello stesso con l’altro genitore, all’esito dell’audizione del figlio, ritenuta a tal fine “determinante”.

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