[:it]downloadLa Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza n°13870 del 1° giugno 2017 ritorna sull’annosa questione della validità delle notifiche effettuate mediante servizi postali privati.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da una creditrice, la cui domanda di ammissione al passivo di un fallimento era stata rigettata in quanto ritenuta tardiva, essendo stata proposta oltre il termine di 30 giorni decorrenti dalla comunicazione del Curatore dell’esito del procedimento di accertamento al passivo.

In particolare, la ricorrente lamentava l’omessa considerazione, da parte del Tribunale di primo grado, della nullità e/o inesistenza della predetta comunicazione in quanto effettuata “…trasmessa per il tramite di organismo diverso dal “fornitore del servizio universale”, ovvero da Poste Italiane, che fornisce l’intero servizio postale universale su tutto il territorio nazionale a norma del D.Lgs. n. 261 del 1999, artt. 1 e 4”.

La Suprema Corte, investita della questione, condividendo la tesi della ricorrente, dichiara la nullità della predetta comunicazione sulla base dei seguenti condivisibili motivi:

  • l’art.97, comma 2 fall. (nel testo, qui da applicarsi, anteriore alle modifiche introdotte nel 2012), là dove prescrive che la comunicazione in questione “sia data tramite raccomandata con avviso ricevimento”, fa implicito riferimento al disposto del D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4, secondo cui “per esigenze di ordine pubblico, sono affidati in via esclusiva al fornitore del servizio universale: a) i servizi inerenti le notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, e successive modificazioni; b) i servizi inerenti le notificazioni a mezzo posta di cui al D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 201)”;
  • l’unico fornitore del servizio universale (art. 1Lgs. n. 261cit.) è pertanto da ritenersi l’Ente Poste;
  • le comunicazioni, di contro, effettuate per il tramite di posta privata, devono ritenersi pertanto inidonee a fornire “…valida prova in ordine alla data di decorrenza iniziale -corrispondente a quella di consegna della comunicazione-, il termine per proporre l’opposizione non può considerarsi decorso al momento della proposizione”.

La Corte, pertanto, in accoglimento del ricorso, ha ritenuta pertanto nulla la comunicazione effettuata dal curatore a mezzo posta privata, “…atteso che le attestazioni redatte dagli incaricati di un servizio di posta privata non sono assistite dalla funzione probatoria che il già richiamato D.Lgs. n. 261 ricollega alla nozione di “invii raccomandati”, di talché la comunicazione effettuata mediante posta privata deve considerarsi inidonea.

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[:it]Risultati immagini per judge cartoon imageLa sezione VI/2 della Corte di Cassazione, ordinanza 11 gennaio 2017, n. 548, nell’esaminare la questione:

  • cita l’art. 14, d.lgs. n. 150/2011 secondo cui «il Tribunale decide le controversie in materie di compensi per gli avvocati sempre “in composizione collegiale”, rientrando tali controversie nella riserva prevista per i procedimenti in camera di consiglio dall’art. 50-bis, comma 2, c.p.c.».
  • rileva che, nella fattispecie, ovvero più in generale in materia di liquidazione degli onorari e dei diritti dell’avvocato, si configura una vera e propria competenza funzionale dell’ufficio giudiziario di merito adito per il processo nel quale l’avvocato ha prestato la propria opera;
  • stabilisce conseguentemente la Suprema Corte, che tali questioni devono essere trattate con rito sommario di cognizione, anche nell’ipotesi in cui la domanda riguardi l’an della pretesa, escludendo la possibilità per il giudice di trasformare tale rito in ordinario o dichiarare l’inammissibilità della domanda.

Per tali motivi la Corte ha accolto il regolamento di competenza, ha cassato il provvedimento impugnato, dichiarando la competenza del Tribunale di Roma in composizione collegiale.

Cass. civ. Sez. VI/2 Ordinanza 11 gennaio 2017 n. 548

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Ritenuto che:

– G.G. convenne, dinanzi al Tribunale di Roma D.G.R., chiedendo la condanna dello stesso al pagamento della somma di Euro 2.358,00 a titolo di compensi per le prestazioni professionali di avvocato svolte in diverse controversie svoltesi dinanzi al detto tribunale;

– nella contumacia del convenuto, il Tribunale di Roma, con ordinanza del 22.12.2015, negò la propria competenza ratione valoris, dichiarando competente il Giudice di pace di Roma;

avverso tale ordinanza ha proposto istanza di regolamento di competenza, ai sensi dell’art. 42 cod. proc. civ., G.G., sulla base di un unico motivo;

– D.G.R., ritualmente intimato, non ha svolto attività difensiva;

– il Procuratore Generale, con requisitoria scritta, ha concluso per l’accoglimento dell’istanza di regolamento e la declaratoria della competenza del Tribunale di Roma in composizione collegiale;

Atteso che:

– il regolamento di competenza è ammissibile, giacchè, sebbene nel dispositivo dell’ordinanza il giudice di Roma abbia respinto il ricorso, in realtà la motivazione del provvedimento contiene una vera e propria declaratoria della incompetenza del giudice adito con conseguente individuazione del giudice ritenuto competente (il Giudice di pace di Roma), cosicchè la statuizione di rigetto contenuta nel dispositivo deve ritenersi ad abundantiam, apparente ed inidonea a passare in cosa giudicata, rimanendo il provvedimento impugnabile col rimedio del regolamento di competenza in coerenza col suo reale contenuto (cfr. Sez. U, Sentenza n. 3840 del 20/02/2007, Rv. 595555, Sez. 2, Sentenza n. 19754 del 27/09/2011, Rv. 619327);

– il ricorso è fondato, giacchè il D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14 configura, per le controversie in materia di liquidazione degli onorari e dei diritti di avvocato di cui alla L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 28, una vera e propria “competenza funzionale” dell’ufficio giudiziario di merito adito per il processo nel quale l’avvocato ha prestato la propria opera, stabilendo che tali controversie siano trattate col rito sommario di cognizione, rito” va applicato anche nell’ipotesi in cui la domanda riguardi l’an della pretesa, senza possibilità per il giudice adito di trasformare il rito sommario in rito ordinario o di dichiarare l’inammissibilità della domanda (Sez. 6 – 3, Sentenza n. 4002 del 29/02/2016, Rv. 638895);

– trattandosi di competenza funzionale non rileva il valore della controversia;

– è inconferente il precedente richiamato nel provvedimento impugnato (Cass., 23691 del 2011), avendo esso riguardo ad una causa introdotta prima dell’entrata in vigore della riforma di cui al D.Lgs. n. 150 del 2011;

– l’art. 14 del richiamato D.Lgs. n. 150 del 2011 prevede che il Tribunale decide le controversie in materia di compensi per gli avvocati sempre “in composizione collegiale”, rientrando tali controversie nella riserva prevista per i procedimenti in camera di consiglio dall’art. 50-bis, secondo comma, cod. proc. civ. (Sez. U, Sentenza n. 12609 del 20/07/2012, Rv. 623299);

– il regolamento va pertanto accolto, spettando al Tribunale di Roma in composizione collegiale la competenza a decidere la causa;

– va pertanto cassato il provvedimento impugnato e va dichiarata la competenza del Tribunale di Roma in composizione collegiale, dinanzi al quale la causa deve essere riassunta dalle parti nel termine di cui in dispositivo;

– il Tribunale dichiarato competente provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

accoglie l’istanza, cassa il provvedimento impugnato e dichiara la competenza del Tribunale di Roma in composizione collegiale, dinanzi al quale dispone la riassunzione della causa nel termine di legge decorrente dalla comunicazione della presente ordinanza; spese al merito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta Sezione Civile, il 21 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2017[:]

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Risultati immagini per immagine giuramento processoIl Tribunale di  Palermo, con ordinanza 23 dicembre 2016, dichiara l’inammissibilità del giuramento decisorio deferito al coniuge allo scopo di dimostrare l’effettiva consistenza delle sue risorse economiche nell’ambito di un giudizio di separazione o di divorzio.

Il giudice arriva a detta decisione considerando non tanto l’indisponibilità sostanziale del diritto alla prestazione di natura assistenziale,  quanto sulla base della dirimente argomentazione per cui il suo deferimento non legittimerebbe, in ogni caso,  un’automatica decisione sul punto, dal momento che le dichiarazioni da esso scaturenti rappresenterebbero solo semplici elementi presuntivi, idonei al più a riscontrare altre prove.

TRIBUNALE DI PALERMO – SEZIONE I CIVILE – ORDINANZA 23 DICEMBRE 2016

Il Giudice Esaminati gli atti e sciolta la riserva assunta all’udienza del 13 dicembre 2016, Osserva Il problema dell’ammissibilità del giuramento decisorio finalizzato ad una più compiuta descrizione e quantificazione delle risorse economiche dei coniugi ha suscitato un vivace dibattito, sia in ambito giurisprudenziale che in prospettiva dottrinale, tra i sostenitori dell’indisponibilità del diritto all’assegno di mantenimento e coloro i quali, invece, accettano l’idea che tale posizione soggettiva rientri nel potere dispositivo delle parti (cfr., tra i precedenti dogmaticamente più solidi in giurisprudenza, Cass. Civ. 4 giugno 1983, n. 3811 per la tesi affermativa e Cass. Civ. 9 novembre 1970, n. 2287, per la prospettazione negativa).

Si ritiene, d’altronde, che un ragionevole approccio alla tematica in questione debba muovere dall’assunto per cui il diritto all’assegno di mantenimento, sia in regime di separazione che in quello di divorzio, è disponibile nella misura in cui il giudice, per poterlo riconoscere, necessita della domanda di parte, ma che – in linea con le più autorevoli meditazioni dottrinali sul tema – a tale disponibilità processuale relativa fa da contraltare una autentica indisponibilità sostanziale, la quale riceve conferma dalla stessa natura assistenziale dell’assegno. È pur vero che alcuni interpreti riconnettono l’inammissibilità del giuramento decisorio alla sola porzione “alimentare” dell’assegno (in quanto ritenuta indisponibile), mostrandosi al contrario inclini ad ammetterlo per tutto ciò che esula dallo stato di bisogno.

Tuttavia, al netto delle più che fondate riserve sulla legittimità dell’impostazione esegetica fatta propria dalla parte deferente, va comunque rimarcato che il deferimento del giuramento decisorio sulle risorse economiche dei coniugi non permetterebbe – come osservato dai più autorevoli interpreti – un’automatica decisione sul punto (tant’è vero che si è ritenuto che le dichiarazioni che ne costituiscono il contenuto rappresenterebbero né più né meno che semplici elementi presuntivi, idonei al più a riscontrare altre prove).

Quanto appena osservato induce a ritenere che, indipendentemente dalla querelle dogmatica circa la sua dignità di mezzo di prova, il giuramento decisorio in relazione all’assegno di mantenimento del coniuge più debole, in quanto espressione imperfetta del potere dispositivo delle parti nel processo, non assolverebbe pienamente la sua funzione tombale di risoluzione della controversia, che – come è noto – non lascia all’organo giudicante alcun margine di apprezzamento.

PQM

dichiara inammissibile il giuramento decisorio deferito da … a …. sui capitolati articolati nella nota autorizzata del (OMISSIS). Rinvia all’udienza del … per la precisazione delle conclusioni. Palermo, 23 dicembre 2016

IL GIUDICE Michele Ruvol

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Risultati immagini per immagine sequestroL’art.670 c.p.c. prevede come elementi necessari per la concessione della misura cautelare esclusivamente a) la controversia sulla proprietà o il possesso b) l’opportunità di provvedere alla loro custodia o alla loro gestione temporanea.
In ordine al primo requisito (“controversia sulla proprietà o sul possesso”) ciò che conta, secondo l’elaborazione giurisprudenziale più recente, non è tanto la causa petendi del giudizio (azione petitoria ovvero reale) quanto l’effetto restitutorio conseguente al petitum (cfr. ex multis Cass. 9645/1994 e n. 10333 del 19110/1993).
Conseguentemente, chiarisce l’ordinanza 17 novembre 2016 del Tribunale di Grosseto, non v’è dubbio che il sequestro giudiziario debba reputarsi ammissibile nel caso in cui la domanda abbia ad oggetto l’accertamento della qualità di eredi appunto perché ciò che assume rilievo non è tanto la causa petendi del giudizio (azione petitoria ovvero reale) quanto l’effetto restitutorio della quota ereditaria ritenuta di spettanza conseguente all’accoglimento del petitum.
A giustificare la concessione del sequestro giudiziario tuttavia non basta che si controverta sulla proprietà o sul possesso di un bene, né basta la pura e semplice pretesa di una parte su un bene che sia di proprietà di altri, ma occorre che tale pretesa sia fondata su ragioni tali da far ritenere probabile l’esistenza del diritto di proprietà in colui che richiede la misura cautelare.
Tale requisito assume una particolare valenza quando oggetto della richiesta di sequestro giudiziario, come nel caso di cui si controverte, sono beni ereditari, per di più «qualora alcuni degli eredi abbia di tali beni il godimento esclusivo ed altri chiedano che se ne attui la divisione, previo accertamento dei loro diritti sulla massa ereditaria».
Ebbene, questa situazione determina in re ipsa la ricorrenza del requisito utile per la concessione del sequestro giudiziario, specialmente ove «uno degli eredi disponga in maniera esclusiva ed unilaterale dei beni ereditari».
Ancora sul punto: «per la concessione del sequestro giudiziario, non si richiede, come per il sequestro conservativo, che ricorra il pericolo, concreto ed attuale, di sottrazione o alterazione del bene, essendo invece sufficiente, ai fini dell’estremo dell’opportunità richiesto dall’art. 670 n. 1 c.p.c., che lo stato di fatto esistente in pendenza del giudizio comporti la mera possibilità, sia pure astratta, che si determinino situazioni tali da pregiudicare l’attuazione del diritto controverso» (in questi termini, Trib. Savona, 30 ottobre 2013 proprio in una controversia in cui si intendeva tutelare la massa ereditaria nelle more del giudizio di divisione promosso previa determinazione delle quote spettanti).

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Ribadisce la  Sez. VI – 3 della Corte di Cassazione, con ordinanza 29 aprile 2016, n. 8474 che nel caso in cui tra due procedimenti, pendenti dinanzi al medesimo ufficio o a sezioni diverse del medesimo ufficio, esista un rapporto di identità o di connessione, il giudice del giudizio pregiudicato non può adottare un provvedimento di sospensione ex art. 295 c.p.c., ma deve rimettere gli atti al capo dell’ufficio, secondo le previsioni degli artt. 273 o 274 c.p.c., a meno che il diverso stato in cui si trovano i due procedimenti non ne precluda la riunione.

La ragione si rinviene nella circostanza che entrambi i giudizi fra i quali è stato ravvisato, a torto o a ragione non rileva, il rapporto di pregiudizialità pendono davanti allo stesso ufficio giudiziario e, pertanto, potendo aver luogo, a norma dell’art. 274 c.p.c., comma 2, la loro riunione (siccome aveva tendenzialmente suggerito il provvedimento del Presidente del Tribunale disponendo che fossero chiamati davanti allo stesso magistrato persona) in funzione della trattazione congiunta con il rito ordinario, giusta il terzo comma dell’art. 40 c.p.c. (subendo il rito locativo della prima controversia vis actractiva di quello ordinario della seconda, tenuto conto che quella norma inverte il rapporto solo con riferimento alle cause di lavoro, che indica con riferimenti normativi, ed è di stretta interpretazione), la sospensione per l’ipotetica pregiudizialità non era in alcun modo configurabile.

E ciò, in conformità a consolidata giurisprudenza di questa Corte: si veda Cass. (ord.) n. 13194 del 2008, secondo cui “Nel caso in cui tra due procedimenti, pendenti dinanzi al medesimo ufficio o a sezioni diverse del medesimo ufficio, esista un rapporto di identità o di connessione, il giudice del giudizio pregiudicato non può adottare un provvedimento di sospensione ex art. 295 cod. proc. civ., ma deve rimettere gli atti al capo dell’ufficio, secondo le previsioni degli artt. 273 o 274 cod. proc. civ., a meno che il diverso stato in cui si trovano i due procedimenti non ne precluda la riunione. La violazione di tale principio può essere sindacata, anche d’ufficio, dalla Corte di cassazione in sede di regolamento di competenza proposto avverso il provvedimento di sospensione.”; in precedenza: Cass. (ord.) n. 21727 del 2006; successivamente: Cass. (ord.) n. 17468 del 2010; (ord.) n. 16963 del 2011; (ord.) n. 13330 del 2012; (ord.) n. 20149 del 2914; (ord.) n. 18286 del 2015; (ord.) 22292 del 2015).

Ne discende, conclude la Cassazione (adita in sede di rogolamento di competenza), la caducazione dell’ordinanza impugnata, con conseguente prosecuzione del giudizio.[:]

[:it]Ribadisce la Corte di Cassazione, con sentenza 27 aprile 2016, n. 8264, che deve essere riformata e può essere decisa nel merito la sentenza che abbia errato nel compensare le spese processuali in mancanza di soccombenza reciproca o di “gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione“.

Nel caso di specie, la Suprema Corte ha riformato la decisione del Tribunale che, in sede di opposizione allo stato passivo, aveva accolto la domanda dell’opponente e compensato le spese di lite.[:en]Cass. 27 aprile 2016, n. 8264 – Compensazione delle spese di litein mancanza di soccombenza reciproca o di gravi ed eccezionali ragion[:fr]Cass. 27 aprile 2016, n. 8264 – Compensazione delle spese di litein mancanza di soccombenza reciproca o di gravi ed eccezionali ragion[:es]Cass. 27 aprile 2016, n. 8264 – Compensazione delle spese di litein mancanza di soccombenza reciproca o di gravi ed eccezionali ragion[:]

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Ove uno dei coniugi acquisti in regime di comunione o effettui la costruzione di un edificio su suolo comune ad entrambi, tanto il primo cespite quanto il secondo, diventano, pro quota, di proprietà di entrambi i coniugi.

Il coniuge rimasto estraneo alla formazione dell’atto deve ritenersi litisconsorte necessario nelle controversie in cui si chiede al giudice una pronuncia destinata ad incidere direttamente e immediatamente sul diritto costituente oggetto del trasferimento, dovendosi, viceversa, ritenere escluso tale litisconsorzio in tutte le vicende processuali volte ad ottenere una decisione che incida direttamente e immediatamente sulla validità o sulla efficacia del negozio traslativo (Cass. S.U. n°9660/2009).

Conseguentemente la domanda di demolizione di opere illegittimamente costruite sul fondo, proposta dal confinante nei confronti del proprietario del fondo contiguo, ha natura reale.

Nel caso in esame, essendo il confinante coniugato in regime di comunione legale sussiste il litisconsorzio necessario con il coniuge, in quanto l’eventuale accoglimento della domanda inciderebbe sul contenuto del diritto di proprietà dell’immobile e sulle facoltà di godimento e di disposizione di esso, di cui sono titolari entrambi i comproprietari del bene, a prescindere dall’autore dell’opera illegittimamente realizzata (v. Cass. n°8441/2008);

Per le suesposte ragioni, la Corte di Cassazione, con sentenza 28 aprile 2016 n°8468, ha accolto il ricorso con rinvio ad altro giudice territoriale.[:]

[:it]Cassazione Sezioni unite 16 febbraio 2016 n. 2951 – legittimazione, titolarità e onere della prova

Le Sezioni Unite – pronuncia 16 febbraio 2016 n. 2951 pur condividendo la distinzione tra legittimazione al processo e titolarità della posizione soggettiva oggetto dell’azione nonché l’affermazione per cui il problema della titolarità della posizione soggettiva attenga al merito della decisione, ritengano che la questione debba rientrare nel potere dispositivo delle parti e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata. Cioè a dire chi fa valere un diritto in giudizio, deve allegare che quel diritto gli appartiene e di conseguenza, sul piano probatorio, deve dimostrare che vi sono ragioni giuridiche che collegano il diritto alla sua persona. Ergo la parte che promuove un giudizio deve prospettare di essere parte attiva del giudizio (ai fini della legittimazione ad agire) e deve poi provare di essere titolare della posizione giuridica soggettiva che la rende parte.

Conseguentemente il convenuto, qualora non condivida l’assunto dell’attore in ordine alla titolarità del diritto, può limitarsi a negarla con una mera difesa e cioè con una presa di posizione negativa, che contrariamente alle eccezioni in senso stretto, non è soggetta a decadenza ex art. 167, secondo comma, c.p.c.. Invero, sebbene il primo comma della norma citata imponga al convenuto di proporre nella comparsa di risposta tutte le difese prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, tale disposizione, contrariamente a quanto sancito nel comma successivo, non prevede decadenza. Detta questione che non si risolva in un’eccezione in senso stretto può essere posta dal convenuto anche oltre quel termine, persino in appello e può essere sollevata d’ufficio dal giudice.

Ciononostante il comportamento processuale tenuto dal convenuto in comparsa di risposta può avere rilievo perché può servire a rendere superflua la prova dell’allegazione dell’attore in ordine alla titolarità del diritto. Ciò avviene qualora il convenuto riconosca il fatto posto dall’attore a fondamento della domanda oppure nel caso in cui articoli una difesa incompatibile con la negazione della sussistenza del fatto costitutivo. Tuttavia il semplice difetto di contestazione non impone un vincolo di meccanica conformazione in quanto il giudice può sempre rilevare l’inesistenza della circostanza allegata da una parte anche se non contestata dall’altra ove tale inesistenza emerga dagli atti e dal materiale probatorio raccolto.

Diverso è invece il caso in cui la parte sia rimasta contumace. Posto che l’art. 115 c.p.c. impone al giudice di porre a fondamento della decisione i fatti non specificamente contestati “dalla parte costituita”, il principio di non contestazione non viene esteso alla parte che non si è costituita, sicchè l’attore deve, in questo caso, fornire la prova dei fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio.

Superata la questione pregiudiziale, nel caso in esame, si chiede alla Corte di stabilire se, in caso di alienazione della proprietà, il diritto al risarcimento del danno spetti a colui che era proprietario al momento in cui il bene ha subito il danno ovvero a colui che è subentrato nella proprietà ed è titolare del diritto al momento della proposizione del giudizio.

Risponde la Corte che il diritto al risarcimento dei danni subiti da un bene spetta al titolare del diritto di proprietà sul bene al momento dell’evento dannoso. E’ un diritto autonomo rispetto al diritto di proprietà e non segue il diritto di proprietà in caso di alienazione, salvo che non sia convenuto il contrario.

Il principio trova frequente applicazione in ambito condominiale. Accade infatti, assai spesso, che il condominio agisca per ottenere il risarcimento dei danni subiti. Nel caso di vittoria della lite le somme ricavate vanno attribuite a chi era proprietario dell’immobile al momento del sinistro e non anche agli attuali proprietari.

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[:it]Risultati immagini per immagine internet

E’ stato pubblicato sul Portale dei Servizi Telematici il provvedimento del 28 dicembre 2015  del Responsabile dei Sistemi Informativi Automatizzati del Ministero della Giustizia, che modifica le Specifiche Tecniche del 16 aprile 2014 individuando le modalità dell’attestazione di conformità apposte su un documento informatico separato, ai sensi del terzo comma dell’art.16-undecies del decreto legge 18 ottobre 2012, n.179, convertito con modificazioni dalla legge 17 dicembre 2012, n.212.

In base all’art. 19 ter l’attestazione deve contenere:

  • la sintetica descrizione del documento di cui si sta attestando la conformità;
  • il nome del file;
  • la sottoscrizione con firma digitale o firma elettronica qualificata.

Qualora la copia informatica del documento sia destinata al deposito in via telematica il documento informatico contenente l’attestazione di conformità dovrà essere inserito come allegato nella busta telematica.

Qualora, invece, la copia informatica sia destinata alla notifica ex L. 53/94 l’attestazione di conformità dovrà essere inserita nella relata di notifica.

Qualora la copia informatica viene trasmessa tramite pec (senza valore di notifica) l’attestazione di conformità dovrà essere inserita come allegato al messaggio di posta elettronica.

In ogni altra ipotesi l’attestazione di conformità sarà inserita in un documento informatico in formato PDF contenente i medesimi elementi di cui al primo comma, l’impronta del documento informatico di cui si sta attestando la conformità nonché il riferimento temporale.

L’impronta del documento può essere omessa in tutte le ipotesi in cui il documento informatico contenente l’attestazione di conformità è inserito, unitamente alla copia informatica del documento, in una struttura informatica idonea a garantire l’immodificabilità del suo contenuto.

L’attestazione di conformità può riferirsi anche a più documenti informatici.[:]

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Un uomo  propone azione di revocazione straordinaria ex art. 395 comma 1, n. 1 c.p.c. avverso la sentenza d’appello che confermava la paternità naturale dello stesso, sostenendo che tale pronuncia fosse il frutto del dolo dell’altra parte, e cioè del figlio, che si era rifiutato di sottoporsi all’esame del DNA.

La domanda di revocazione veniva rigettata in sede di merito in quanto:

– il comportamento del figlio era successivo alla sentenza e, quindi, per definizione non poteva avere avuto alcuna efficacia causale rispetto alla decisione adottata;

– il rifiuto di sottoporsi ad esami non poteva in alcun modo essere considerato alla stregua di attività fraudolenta, mancando quell’alterazione della realtà che la contraddistingue.

L’uomo impugnava la decisione in Cassazione, ma senza successo.

La sezione 6-1 della Corte di legittimità, con ordinanza 16 dicembre 2015 n. 25317, rigetta il ricorso affermando che ai  fini della sussistenza del dolo processuale revocatorio è necessario accertare l’attività fraudolenta di una delle parti e che la sentenza sia conseguenza di tale attività.  Non può quindi essere valutata quale attività fraudolenta, il mero rifiuto da parte del figlio di sottoporsi al test del DNA, perché tale comportamento non è idoneo a sviare la difesa avversaria e ad alterare la realtà dei fatti,  impedendo al giudice di accertare la verità.

Il ricorso in esame si focalizza sulla riconducibilità generica del mendacio e del silenzio al dolo processuale revocatorio, ma non spiega in che modo la condotta di controparte avrebbe sviato la difesa e alterato la realtà dei fatti.[:]

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