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La Cassazione, con sentenza 3 dicembre 2015 n. 24629,  risolve il contrasto che, ormai da alcuni anni ha, diviso la giurisprudenza di merito su fronti contrapposti. Ritiene la Corte che nel giudizio che si instaura per l’opposizione al decreto ingiuntivo – e dopo la pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione dello stesso – l’onere di avviare la mediazione obbligatoria deve gravare sulla parte opponente.

È infatti questa che ha interesse ad avviare il procedimento di mediazione pena il consolidamento degli effetti del decreto ingiuntivo.

D’altro canto la norma che prevede la condizione di procedibilità ex lege è stata costruita in funzione deflativa e quindi deve essere interpretata alla luce del principio del ragionevole processo e così dell’efficienza processuale. Secondo questa prospettiva la disposizione normativa «mira a rendere il processo la extrema ratio: cioè l’ultima possibilità dopo che le altre possibilità sono risultate precluse».  Quindi  l’onere per l’esperimento della mediazione deve porsi a carico di chi ha interesse al processo e ha il potere di iniziare il processo.

Il criterio ermeneutico dell’interesse sposta quindi su questi anche la conseguenza dell’improcedibilità e ciò in quanto ha il potere e l’interesse ad introdurre il giudizio di merito. Secondo la Cassazione la diversa soluzione sarebbe «palesemente irrazionale perché premierebbe la passività dell’opponente e accrescerebbe gli oneri della parte creditrice».

Se dunque è l’opponente ad avere interesse ad avviare la mediazione sarà lui a subire gli effetti dell’improcedibilità dell’opposizione con il «consolidamento degli effetti del decreto ingiuntivo ex articolo 653 del c.p.c.».[:]

[:it]

Risultati immagini per mediazione immagineIl Tribunale di Mantova, con ordinanza 24 settembre 2015, interpreta la disposizione contenuta nell’art. 4 comma 1 D.L. n. 132 del 2014 (secondo cui la mancata risposta all’invito entro trenta giorni dalla ricezione o il suo rifiuto può essere valutato dal giudice ai fini delle spese del giudizio e di quanto previsto dagli artt. 96 e 642, comma 1, c.p.c.) nel senso che la mancata risposta del convenuto all’invito alla negoziazione assistita consente al giudice di concedere la provvisoria esecutività al decreto ingiuntivo, ma non può valere ad esonerare l’istante dal fornire la prova della propria pretesa; e ciò in quanto dalla mera contumacia del convenuto non possono desumersi argomenti di prova ex art. 115 comma 1 c.p.c.

Viene quindi rigettata la domanda di pagamento della somma dovuta a saldo del corrispettivo per la fornitura e posa in opera di alcuni manufatti, proposta  da un signore con ricorso ex art. 702-bis c.p.c., in considerazione del fatto che parte attrice, a fondamento della propria pretesa, aveva prodotto solo una copia della fattura giustificativa del preteso credito ma non aveva formulato alcuna istanza istruttoria.

 

Testo degli artt. 2 e 4 del DL 12/09/2014, n. 132: procedura di negoziazione assistita da uno o più avvocati

Art. 2.  Convenzione di negoziazione assistita da uno o più avvocati

  1. La convenzione di negoziazione assistita da uno o più avvocati è un accordo mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza di avvocati iscritti all’albo anche ai sensi dell’articolo 6 del decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 96.

1-bis.  È fatto obbligo per le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, di affidare la convenzione di negoziazione alla propria avvocatura, ove presente.

  1. La convenzione di negoziazione deve precisare:
  2. a) il termine concordato dalle parti per l’espletamento della procedura, in ogni caso non inferiore a un mese e non superiore a tre mesi, prorogabile per ulteriori trenta giorni su accordo tra le parti;
  3. b) l’oggetto della controversia, che non deve riguardare diritti indisponibili o vertere in materia di lavoro
  4. La convenzione è conclusa per un periodo di tempo determinato dalle parti, fermo restando il termine di cui al comma 2, lettera a).
  5. La convenzione di negoziazione è redatta, a pena di nullità, in forma scritta.
  6. La convenzione è conclusa con l’assistenza di uno o più avvocati.
  7. Gli avvocati certificano l’autografia delle sottoscrizioni apposte alla convenzione sotto la propria responsabilità professionale.
  8. È dovere deontologico degli avvocati informare il cliente all’atto del conferimento dell’incarico della possibilità di ricorrere alla convenzione di negoziazione assistita.

Art. 4.  Non accettazione dell’invito e mancato accordo

  1. L’invito a stipulare la convenzione deve indicare l’oggetto della controversia e contenere l’avvertimento che la mancata risposta all’invito entro trenta giorni dalla ricezione o il suo rifiuto può essere valutato dal giudice ai fini delle spese del giudizio e di quanto previsto dagli articoli 96 e 642, primo comma, del codice di procedura civile.
  2. La certificazione dell’autografia della firma apposta all’invito avviene ad opera dell’avvocato che formula l’invito.
  3. La dichiarazione di mancato accordo è certificata dagli avvocati designati.

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[:it]Il pignoramento della pensione o di altri assegni di quiescenza. 

E’ stato aggiunto all’articolo 545 c.p.c. il seguente comma: «le somme da chiunque dovute a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione o di altri assegni di quiescenza, non possono essere pignorate per un ammontare corrispondente alla misura massima mensile dell’assegno sociale, aumentato della metà. La parte eccedente tale ammontare è pignorabile nei limiti previsti dal terzo, quarto e quinto comma nonché dalle speciali disposizioni di legge».

Conseguentemente vi sarà una parte assolutamente impignorabile della pensione, pari all’importo dell’assegno sociale aumentato della metà, la residua parte, e cioè l’importo della pensione detratto l’assegno sociale aumentato della metà, sarà invece pignorabile nel limite del quinto.
Il pignoramento dello stipendio o della pensione accreditate su conto corrente.

Il nuovo testo dell’art. 545 c.p.c. prevede non riferimento al pignoramento del conto corrente,

che «le somme dovute a titolo di stipendio, salario, altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, nonché a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione, o di assegni di quiescenza, nel caso di accredito su conto bancario o postale intestato al debitore, possono essere pignorate, per l’importo eccedente il triplo dell’assegno sociale, quando l’accredito ha luogo in data anteriore al pignoramento; quando l’accredito ha luogo alla data del pignoramento o successivamente, le predette somme possono essere pignorate nei limiti previsti dal terzo, quarto, quinto e settimo comma, nonché dalle speciali disposizioni di legge».

 

Il pignoramento eseguito in violazione delle norme suindicate

«Il pignoramento eseguito sulle somme di cui al presente articolo in violazione dei divieti e oltre i limiti previsti dallo stesso e dalle speciali disposizioni di legge è parzialmente inefficace. L’inefficacia è rilevata dal giudice anche d’ufficio».

 

I conseguenti obblighi del terzo.

L’art. 546 c.p.c., nuovo testo, prevede che «nel caso di accredito su conto bancario o postale intestato al debitore di somme a titolo di stipendio, salario, altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, nonché a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione, o di assegni di quiescenza, gli obblighi del terzo pignorato non operano, quando l’accredito ha luogo in data anteriore al pignoramento, per un importo pari al triplo dell’assegno sociale; quando l’accredito ha luogo alla data del pignoramento o successivamente, gli obblighi del terzo pignorato operano nei limiti previsti dall’articolo 545 e dalle speciali disposizioni di legge».

 

L’entrata in vigore delle disposizioni. Le nuove norme si applicano immediatamente e trovano applicazione anche con riferimento ai procedimenti già pendenti.

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Afferma il Tribunale Civile di Milano, sez. XIII, con ordinanza 8 ottobre 2015 che a la parte interessata, a dimostrazione della tempestività del deposito telematico, ai fini della eventuale remissione in termini, non può limitarsi a produrre la ricevuta di avvenuta consegna dal gestore di posta elettronica certificata del Ministero della Giustizia, giusta il disposto del comma 7 dell’art. 16 bis del D.L. 179/2012; ma deve anche depositare le ulteriori due ricevute previste dal comma 7 dell’art. 13 del D.M. 44/2011, ovvero quelle che il gestore dei servizi telematici restituisce al mittente e nelle quali viene dato atto dell’esito dei controlli effettuati dal dominio giustizia, nonché dagli operatori della cancelleria o della segreteria.

E ciò in quanto può verificarsi, infatti, che il file trasmesso in via telematica non venga accettato dalla cancelleria perché non firmato, o perché, ad esempio, affetto da errore verificatosi nella compilazione del file DatiAtto in formato XML che deve corredare l’atto da depositare e che deve contenere “le informazioni strutturate nonché tutte le informazioni della nota di iscrizione a ruolo” (art. 12 delle Specifiche tecniche emanate dal Ministero della Giustizia con decreto 16.4.2014), ivi compresi dunque numero di ruolo generale e parti.

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La Corte di Cassazione, con ordinanza 17 dicembre 2014 n. 26636, afferma che in tema di concessione o meno del mantenimento in sede di divorzio, il giudice di merito ha libera discrezionalità nell’istruzione della causa; tuttavia, non può condurre la fase probatoria in modo carente, ignorando in toto le allegazioni di una delle parti.

Conseguentemente il giudice della separazione deve disporre le indagini sui redditi del coniuge obbligato, posseduti all’estero, quando l’altro coniuge non abbia ottenuto dalle autorità straniere l’autorizzazione in tal senso.

Nel caso in esame, la ricorrente aveva avanzato alle Autorità del Principato di Monaco, di conoscere la specifica entità delle rendite finanziarie del marito provenienti dal Principato (documentando la relativa richiesta); le Autorità monegasche avevano risposto che le informazioni potevano essere fornite dall’Ente pensionistico, purchè l’istanza provenisse da una autorità giudiziaria.

Il ricorso della moglie veniva pertanto accolto e il provvedimento impugnato cassato con rinvio.

Si noti bene

  • la valutazione sulla opportunità di indagini di Polizia Tributaria e più generalmente, la richiesta di informazioni sui redditi dell’obbligato, rientra nella discrezionalità del giudice di merito (“in tema di determinazione dell’assegno di mantenimento, l’esercizio del potere di disporre indagini patrimoniali avvalendosi della polizia tributaria, che costituisce una deroga alle regole generali sull’onere della prova, rientra nella discrezionalità del giudice di merito; l’eventuale omissione di motivazione sul diniego di esercizio del relativo potere, pertanto, non è censurabile in sede di legittimità, ove, sia pure per implicito, tale diniego sia logicamente correlabile ad una valutazione sulla superfluità dell’iniziativa per ritenuta sufficienza dei dati istruttori acquisiti”, Cass. 16 aprile 2014, n. 8875).
  • Raramente i Giudici dispongono dette indagini.
  • Conseguentemente, assai spesso, è veramente molto difficile per il difensore fornire piena prova delle reali capacità economiche del coniuge obbligato con conseguente palese violazione dei diritti patrimoniali del coniuge debole e dei figli a vedersi garantito il giusto mantenimento.
  • Sul punto l’art. 5, c. 9°, della legge sul divorzio dispone che, nell’ambito dei procedimenti di separazione e divorzio, “in caso di contestazione il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, avvalendosi, se del caso, anche della polizia tributaria”; in senso analogo l’art. 337-ter u.co. D.lgs 154/13, secondo cui “ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi“).

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La Corte di Cassazione – con sentenza n°22871, depositata il 10 novembre 2015 – si è pronunciata sulla questione della liceità della sottoscrizione digitale di una sentenza, emessa da un giudice di pace all’esito di un giudizio di opposizione all’esecuzione.

La sentenza, ricca di spunti normativi e giurisprudenziali, utilizza tale occasione per ripercorrere, attraverso un iter argomentativo complesso e macchinoso, le recenti novità normative in tema di processo telematico, le evoluzioni inesorabili che esso ha comportato e comporterà sul processo così come conosciuto, nonché la natura e la funzione della sottoscrizione e gli effetti della sua mancanza sul provvedimento giurisdizionale.

Partendo proprio da tale ultimo concetto, gli Ermellini identificano preliminarmente la sottoscrizione quale “attività che il codice ascrive personalmente al giudice”, avente la funzione di identificare in concreto il giudice che abbia emanato la sentenza. La Suprema Corte ripercorre poi la propria giurisprudenza, mitigando apparentemente le posizioni tradizionalmente assunte anche in dottrina consideranti non già nulla bensì giuridicamente inesistente la sentenza priva della sottoscrizione. In particolare la Corte individua i seguenti casi limite in cui tale vizio non rilevi ovvero sia sanabile:

  • qualora la sentenza emessa da un organo collegiale difetti della sottoscrizione di uno dei giudicanti, essa sarà affetta da nullità sanabile;
  • qualora la sottoscrizione pur essendo apposta risulti illeggibile, la sentenza sarà pienamente valida ed efficace, in quanto non può  considerarsi “…affetta da nullità la sentenza recante un segno grafico che consenta la riconducibilità al giudice sia dell’atto del processo che, quindi, della decisione”.

La Corte poi si sospinge sulla possibile equiparazione del processo cartaceo a quello digitale, affermando che la natura e la funzione della sottoscrizione della sentenza, intesa quale attività personale e riservata al giudicante, può essere assolta indistintamente attraverso la tradizionale sottoscrizione manuale della sentenza ovvero firmandola digitalmente, in ossequio ai parametri fissati all’uopo dal legislatore. Ad avviso dei giudici di piazza Cavour, infatti, l’utilizzo del PIN, in quanto presupposto per la sottoscrizione digitale di un documento di natura strettamente personale, è idoneo in sè a garantire l’identità e la riferibilità del provvedimento al giudice titolare della dispositivo di firma.

A nulla sono valse pertanto le avverse doglianze di parte ricorrente, ad avviso della quale doveva considerarsi invece inesistente la suddetta sentenza firmata digitalmente in quanto tale modalità di sottoscrizione non era stata oggetto di espressa previsione da parte del Legislatore per i provvedimenti giudiziari.

Partendo da tali considerazioni, infatti, la Suprema Corte ha sostenuto che l’equiparazione della firma digitale alla firma autografa, ai fini della validità della sentenza, è possibile per via legislativa, anche se il legislatore non ha provveduto ad adeguare direttamente l’art. 132, comma secondo, n. 5 cod. proc. civ., “così come peraltro non è intervenuto a prevedere, modificando le relative disposizioni del codice di rito, che il requisito della forma scritta dei provvedimenti del giudice di cui agli artt. 131 e seg. cod. proc. civ. sia soddisfatto qualora si tratti di documento informatico, il cui contenuto originale è redigibile ed  attingibile soltanto per il tramite della fruizione di programmi software“.

Conseguentemente “la sentenza redatta in formato elettronico dal giudice e da questi sottoscritta con firma digitale ai sensi dell’art. 15 del D.M. 21 febbraio 2011 n. 44, non è affetta da nullità per mancanza di sottoscrizione, sia perché sono garantite l’identificabilità dell’autore, l’integrità del documento e l’immodificabilità del provvedimento (se non dal suo autore), sia perché la firma digitale è equiparata, quanto agli effetti, alla sottoscrizione autografa in forza dei principi contenuti nel decreto legislativo 7 marzo 2005 n. 82 e succ. mod., applicabili anche al processo civile, per quanto disposto dall’art. 4 del d.l. 29 dicembre 2009 n. 193, convertito nella legge 22 febbraio 2010 n. 24” .

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La sezione VI^ Civile – 2 della Corte di Cassazione, con ordinanza del 4 novembre 2015 n°22461, ritiene che, anche dopo la riforma del 2009, non si possa attribuire alla contumacia in sede civile un valore di ammissione delle ragioni della controparte.

E ciò in quanto rientra nelle facoltà difensive del convenuto, dichiarato contumace nel giudizio di primo grado, contestare le circostanze poste a fondamento del ricorso, anche perché la previsione dell’obbligo a suo carico di formulare nella memoria difensiva, a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito, nonché di prendere posizione precisa in ordine alla domanda e di indicare le prove di cui intende avvalersi, non esclude il potere-dovere del giudice di accertare se parte attrice abbia dimostrato i fatti costitutivi e giustificativi della propria pretesa.

  • Infatti al convenuto contumace in primo grado e costituitosi in appello, non è preclusa la contestazione dei fatti costitutivi e giustificativi della pretesa, indipendentemente dalla circostanza che, in ordine ai medesimi, siano o meno state proposte, dalla parte legittimata a contraddire, contestazioni specifiche, difese ed eccezioni in senso lato; né è precluso contestare i fatti costitutivi e giustificativi allegati dall’attore a sostegno della domanda.
  • Di qui in principio di diritto: “ai sensi del combinato disposto degli artt. 167, 1 comma e 115, 1 comma c.p.c., l’onere di contestazione specifica dei fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, si pone unicamente per il convenuto costituito e nell’ambito del solo giudizio di primo grado, nel quale soltanto si definisce – irretrattabilmente – il thema decidendum (cioè i fatti pacifici) e il thema probandum (vale a dire i fatti controversi). Pertanto, il giudice d’appello nel decidere la causa deve aver riguardo ai suddetti temi così come si sono formati nel giudizio di primo grado, non rilevando a tal fine la condotta processuale tenuta dalle parti nel giudizio svoltosi innanzi a lui la contumacia integra un comportamento neutrale cui non può essere attribuita valenza confessoria, e comunque non contestativa dei fatti allegati dalla controparte, che resta onerata della relativa prova”.

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[:it]Risultati immagini per immagine uomo che scrive

Il mancato rilascio di procura alle liti – ad avviso della Corte di Cassazione, II sezione, sentenza 22 ottobre 2015 n°21533, determina l’inesistenza soltanto di tale atto, ma non anche dell’atto di citazione, non costituendone requisito essenziale, atteso che, come si evince anche dall’art. 163, secondo comma, n. 6, cod. proc. civ., sulla necessità di indicare il nome ed il cognome del procuratore e la procura, se già rilasciata, il difetto non è ricompreso tra quelli elencati nel successivo art. 164 cod. proc. civ., che ne producono la nullità.

L’atto di citazione privo della procura della parte è, pertanto, idoneo ad introdurre il processo e ad attivare il potere dovere del giudice di decidere, con la conseguenza che la sentenza emessa a conclusione del processo introdotto con un atto di citazione viziato per difetto di procura alle liti è nulla, per carenza di un presupposto processuale necessario ai fini della valida costituzione del giudizio, ma non inesistente, sicché detta sentenza, pur viziata “come sentenza contenuto”, per effetto del principio di conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione, di cui all’art. 161, primo comma, cod. proc. civ., è suscettibile di passare in cosa giudicata in caso di mancata tempestiva impugnazione nell’ambito dello stesso processo nel quale è stata pronunciata, non essendo esperibili i rimedi dell’actio o dell’exceptio nullitatis, consentiti solo nel caso di inesistenza della sentenza.

La Corte ha disposto, per le suesposte ragioni, il rinvio della causa ad altra sezione della Corte di Appello di Milano, perché provveda ai sensi dell’art. 182 comma 2 cod. proc. civ., dovendosi ritenere doveroso per il giudice promuovere – mediante l’assegnazione di un termine perentorio alla parte – la sanatoria, con effetti ex tunc, del difetto di procura alle liti, senza il limite delle preclusioni processuali.[:]

[:it]Chiarisce la Corte di Cassazione con sentenza 15 ottobre 2015 n. 20886 che, ai fini dell’individuazione del regime di impugnabilità di una sentenza, in tema di opposizione all’esecuzione, occorre avere riguardo alla legge processuale vigente alla data della sua pubblicazione:

  • le sentenze che abbiano deciso opposizioni all’esecuzione pubblicate prima del primo marzo 2006 sono esclusivamente appellabili;
  • per quelle, invece, pubblicate successivamente a tale data e fino al 4 luglio 2009, non è più ammissibile l’appello, con la conseguenza dell’esclusiva ricorribilità per cassazione, in forza dell’ultimo periodo dell’art. 616 cod. proc. civ., introdotto dalla l. n. 52/2006;
  • le sentenze, infine, in cui il giudizio di primo grado sia ancora pendente al 4 luglio 2009, e siano quindi pubblicate successivamente a tale data, tornano ad essere appellabili, essendo stato soppresso l’ultimo periodo dell’art. 616 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 49, comma 2, l. n. 69/2009.

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[:it]A seguito all’entrata in vigore della Legge di conversione n°132 del 6 agosto 2015 è oggi possibile per i creditori presentare  al presidente del Tribunale una richiesta di autorizzazione all’accesso diretto alle banche dati utilizzate dalla pubblica amministrazione come l’Anagrafe Tributaria, gli archivi dell’INPS, il PRA, l’anagrafe dei conti correnti etc…..(in generale a tutti gli archivi automatizzati del Centro elaborazione dati istituito presso il Ministero dell’interno ai sensi dell’articolo 8 della legge 1° aprile 1981, n. 121), baypassando così l’intervento dell’ufficiale giudiziario.

Questa possibilità è stata prevista in via derogatoria per un anno, nell’attesa che il Ministero adotti i decreti attuativi previsti dalla legge; da quel momento in poi solo gli ufficiali giudiziari avranno la possibilità di ricercare i beni da pignorare  ed accedere alle banche dati.

L’istanza va presentata con ricorso ex art. 492 bis c.p.c. diretta al Presidente del Tribunale e va iscritta a ruolo.

È un procedimento di volontaria giurisdizione quindi si deve pagare il contributo unificato previsto per i procedimenti camerali.

Vanno depositati unitamente all’istanza: 1) il titolo esecutivo in originale; 2) il precetto di pagamento notificato (devono essere decorsi i 10 giorni dalla notifica e il precetto deve essere ancora valido).

Il presidente del Tribunale autorizza il creditore alla ricerca.

Dopodiché l’istanza, munita del decreto di autorizzazione, va presentata direttamente presso le Pubbliche Amministrazioni titolari delle banche dati, per poter effettuare l’accesso.

Il creditore deve anticipare le spese.

In allegato uno dei primi provvedimenti emessi dal Presidente f.f. del Tribunale di Roma.[:]

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