[:it]imagesGli “addetti al mestiere” lo sanno. Purtroppo gli effetti della rottura di una relazione assai spesso si riverberano anche sui figli. Sempre più spesso, infatti, i figli diventano vittime e armi nelle guerre di separazione e divorzio che contrappongono marito e moglie.

Di recente, però, c’è una importante novità che sta prendendo piede, per ora nei tribunali del nord Italia: il c.d. coordinatore genitoriale.

Chi è il coordinatore genitoriale?

Il coordinatore genitoriale è una figura professionale che viene incaricata dal Tribunale di famiglia affinché vigili e risolva le problematiche di gestione dei figli in coppie caratterizzate da un’elevata conflittualità.

Il caso.

A distanza di qualche mese dalla rivoluzionaria sentenza del Tribunale civile di Milano – sez. IX^ civile, del 7 luglio 2016, pubblicata il 6 settembre 2016, Presidente estensore dott.ssa Laura Maria Cosmari – anche il Tribunale di Mantova, di recente, con sentenza del 5 maggio 2017, ha deciso di ricorrere alla neonata figura del coordinatore genitoriale al fine di garantire il corretto esercizio della responsabilità genitoriale da parte di una coppia sposata.

La vicenda trae origine da un giudizio di separazione personale in cui ambedue i coniugi avevano chiesto la pronuncia della separazione con addebito all’ex coniuge, seppur concordando nella scelta dell’affidamento condiviso. Il marito, tuttavia, aveva chiesto anche la condanna della moglie ex art. 709 ter c.p.c. a causa dei comportamenti tenuti dalla moglie dopo il suo allontanamento volontario da casa, tesi ad ostacolare i rapporti padre-figli.

Il Tribunale, dopo aver ascoltato i Servizi sociali e il C.T.U. nominato, riteneva comprovata l’elevata conflittualità tra i genitori e gli ingiustificati comportamenti della madre, che rendeva estremamente difficile per il padre non solo esercitare con regolarità il suo diritto di visita ma anche a parlare semplicemente al telefono con i figli.

Dall’altro lato, però, i giudici davano atto dell’assenza di problemi nella gestione dei figli nei tempi in cui questi stavano con l’uno o l’altro genitore e della mancanza di alcuna carenza educativa nelle due figure genitoriali. Per questo motivo, il Tribunale, pur affidamento i bambini ad ambedue i genitori, decideva di nominare un coordinatore genitoriale, al fine di monitorare l’andamento dei rapporti familiari, individuando puntualmente i suoi compiti come segue:

  1. monitorare l’andamento dei rapporti genitori/figli, fornendo le opportune indicazioni eventualmente correttive dei comportamenti disfunzionali dei genitori, intervenendo a sostegno di essi in funzione di mediazione;
  2. coadiuvare i genitori nelle scelte formative dei figli, vigilando in particolare sulla osservanza del calendario delle visite previsto per il padre ed assumendo al riguardo le opportune decisioni (nell’interesse dei figli) in caso di disaccordo;
  • redigere relazione informativa sull’attività svolta, da trasmettere al Giudice Tutelare…”.

In conclusione

Attraverso il controllo di un coordinatore, il Tribunale mira dunque non solo a “tenere sotto controllo” i comportamenti dei genitori in caso di conflitto ma ad affiancare loro un esperto che possa aiutarli nell’adozione condivisa di scelte nell’interesse dei ragazzi e decidere egli stesso qualora i genitori non si mettano d’accordo.

Il fallimento o il successo di tale figura dipenderà, tuttavia, non solo dalla capacità e professionalità del coordinatore genitoriale incaricato ma, soprattutto, dalla presa di coscienza da parte degli ex coniugi che la fine del matrimonio non comporta la fine della famiglia né dei doveri genitoriali.[:]

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imagesA distanza di qualche mese dalla rivoluzionaria sentenza del Tribunale civile di Milano – sez. IX^ civile, del 7 luglio 2016, pubblicata il 6 settembre 2016, Presidente estensore dott.ssa Laura Maria Cosmari – anche il Tribunale di Mantova, di recente, ha deciso di ricorrere alla neonata figura del coordinatore genitoriale al fine di vigilare e risolvere le problematiche di gestione dei figli in una coppia separata, caratterizzata da un’elevata conflittualità tra coniugi.

La vicenda trae origine da un giudizio di separazione personale in cui ambedue i coniugi avevano chiesto la pronuncia della separazione con addebito all’ex coniuge. In particolare, ad avviso del ricorrente, il fallimento del matrimonio sarebbe da addebitarsi all’anaffettività e agli atteggiamenti offensivi che la moglie aveva tenuto tanto nei suoi confronti quanto nei confronti della cerchia parentale. Il marito, inoltre, si lamentava dei comportamenti tenuti dalla moglie, dopo il suo allontanamento volontario da casa, tesi ad ostacolare i rapporti padre-figli, chiedendo, nonostante l’affido condiviso con collocamento prevalente dei figli presso la madre, la condanna di quest’ultima ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c.. La resistente, costituitasi in giudizio, chiedeva a sua volta l’addebito al marito, affermando che l’intollerabilità della convivenza era dipesa unicamente dall’esistenza di una relazione adulterina, nonché l’affido congiunto dei figli con collocamento prevalente presso di lei.

All’esito della fase istruttoria, il Tribunale accoglieva la richiesta di addebito della moglie ritenendo comprovata l’ascrivibilità del fallimento del matrimonio al tradimento del marito non solo dalla perizia investigativa depositata quanto dalla stessa ammissione da parte del ricorrente durante l’udienza presidenziale. Il Tribunale decideva, altresì, di accogliere la domanda di condanna della madre ex art. 709 ter c.p.c. “…atteso che dagli atti emerge come, in più occasioni, la resistente abbia ingiustificatamente frapposto ostacoli alla regolare frequentazione fra il padre e i figli…”.

Passando alla regolamentazione dell’affidamento dei figli, il Tribunale osserva preliminarmente come tanto i Servizi sociali quanto la C.T.U. esperita nel giudizio abbiano evidenziato “…che entrambi i genitori sono in grado di gestire singolarmente i figli e che le difficoltà nelle relazioni (in particolare del padre) dipendono esclusivamente dalla mai sopita conflittualità (presente anche durante la convivenza) fra gli adulti…”.

Il Tribunale decide, tuttavia, che la sola conflittualità tra i coniugi non sia sufficiente per disporre l’affido esclusivo degli stessi a l’uno o all’altro genitore – dando peraltro atto che ambedue i coniugi avevano richiesto l’affido condiviso dei figli – ritenendo non “…positivamente dimostrata l’inidoneità educativa ovvero la manifesta carenza del ricorrente…”, disponendo pertanto l’affido condiviso degli stessi con collocamento prevalente presso la madre “…avendo i figli instaurato un più solido legame affettivo con essa ed essendo costei in grado di offrire maggiore stabilità e sicurezza psicologica, come chiaramente emerge dalla consulenza tecnica”. D

A causa della comprovata ed elevata conflittualità tra i genitori e dei comportamenti posti in essere dalla madre e tesi ad ostacolare i rapporti dei ragazzi con il padre, il Tribunale decide, tuttavia, di nominare una figura esterna, il c.d. coordinatore genitoriale o educatore professionale, al fine di monitorare l’andamento dei rapporti familiari, incaricandolo all’uopo di:

  1. di monitorare l’andamento dei rapporti genitori/figli, fornendo le opportune indicazioni eventualmente correttive dei comportamenti disfunzionali dei genitori, intervenendo a sostegno di essi in funzione di mediazione;
  2. di coadiuvare i genitori nelle scelte formative dei figli, vigilando in particolare sulla osservanza del calendario delle visite previsto per il padre ed assumendo al riguardo le opportune decisioni (nell’interesse dei figli) in caso di disaccordo;
  • di redigere relazione informativa sull’attività svolta, da trasmettere al Giudice Tutelare…”.

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[:it]Risultati immagini per cartoon bambino in gabbia

 

Stabilisce la Corte di Cassazione con la sentenza 20 giugno 2017 n. 15200, qui allegata che, nonostante si accerti che la madre, ponendo in essere condotte alienanti, abbia contribuito a deteriorare il rapporto del figlio con il padre, tale circostanza non è idonea a privarla dell’affidamento e del collocamento prevalente del minore. Al massimo il giudice può sanzionarla con un versamento alla Cassa delle ammende.

Il caso trae origine dal ricorso presentato da un padre avverso la decisione della Corte d’Appello di Trieste di non disporre il collocamento prevalente del figlio presso di lui dopo aver accertato che la madre aveva coinvolto il figlio nell’accesa conflittualità tra i genitori, continuando a comportarsi in modo da voler cancellare il padre dalla vita del figlio.

Ad avviso i giudici di legittimità, tenuto conto dello stretto rapporto del figlio adolescente con la madre, la scelta migliore non è quella di allontanarlo da lei, ma bensì quella di favorire il dialogo con il padre incrementando con lui il diritto di visita, nel tentativo di ricondurre il rapporto dell’intero nucleo familiare nei limiti della normalità.

Del resto, se l’adolescente ha un legame fin troppo stretto con la madre, la scelta preferenziale consiste nel cercare di ricondurre il rapporto nei limiti della normalità. Diversamente, imporre d’autorità la trasformazione del rapporto tra la madre e il figlio, costringendo il minore a un radicale mutamento delle proprie abitudini di vita, appare un’iniziativa estremamente rischiosa proprio per il miglior equilibro del figlio, che invece è doveroso tutelare, sia per i genitori che per i giudici.

A fronte delle carenze genitoriali della madre, è stata quindi ritenuta sufficiente la sanzione della condanna al versamento di una somma alla cassa delle ammende ai sensi dell’art. 709 ter c.c..

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Risultati immagini per immagin father son Il Tribunale civile di Milano, IX^ sez. Minori, con decreto del 24 marzo 2017, ha affrontato la delicata questione del riavvicinamento di una padre con sua figlia, con la quale non aveva avuto alcuna forma di relazione sin dalla sua nascita.

In particolare, in attesa dello svolgimento del percorso di mediazione intrapreso dalle parti, del percorso di psicoterapia della madre, del percorso psicologico del padre e del percorso di sostegno alla genitorialità iniziato da entrambi, il Tribunale lombardo ha riconosciuto il diritto del padre ad incontrare la figlia in uno spazio neutro al fine di evitare il rischio di un pregiudizio per la minore.

I Servizi Sociali territorialmente competenti dovranno dunque predisporre gli incontri con iniziale cadenza quindicinale per poi modularne successive modalità e tempistiche all’esito degli sviluppi e degli accertamenti disposti.

Nelle more dell’attivazione degli incontri in spazio neutro da parte dei Servizi Sociali territorialmente competenti, il padre si è visto pertanto riconoscere il diritto ad incontrare la figlia secondo le modalità indicate da un educatore privato, scelto di comune accordo dalle parti e con ripartizione al 50% delle relative spese.

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[:it]Risultati immagini per immagin divorce cartoonInutile per la moglie separata invocare il tenore di vita goduto durante il matrimonio, per evitare la riduzione dell’assegno di mantenimento dovuto dall’ex marito imprenditore.

La prima sezione della Corte di Cassazione, con sentenza 28 giugno 2017 n. 16190, respinge il ricorso di una signora – assistente di volo Alitalia, messa in mobilità in corso di causa, che, in sede di appello, aveva subito la riduzione dell’assegno di mantenimento in suo favore, passato da 1.000 a 600 euro, mentre quello a beneficio della figlia minore era diminuito.

Per la Cassazione la valutazione sulla spettanza dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge e sulla sua quantificazione è rimessa al giudice di merito, che deve ricostruire in maniera attendibile la situazione patrimoniale dei coniugi e avere riguardo alle sole disparità reddituali.

La situazione patrimoniale dei coniugi appare essere, per la Corte, l’unico indice valutativo per la determinazione e spettanza del mantenimento, in quanto la sentenza nulla espone in ordine al presunto più alto tenore di vita goduto prima della separazione.

Nel caso in esame indubbiamente le condizioni economiche del marito imprenditore apparivano ben più “floride” di quelle della moglie, assistente di volo con contratto part-time, come verificato dalla Corte l’appello capitolina, che aveva tenuto conto anche di circostanze estranee, ad esempio l’acquisto di un appartamento comprato dopo aver lasciato la casa coniugale senza necessità di accendere un mutuo.[:]

[:it]Immagine correlataAncora una volta la Cassazione, con sentenza 21 giugno 2017 n°15481 privilegia il criterio dell’indipendenza economica a quello del mantenimento del tenore di vita per stabilire l’entità e il diritto all’assegno di mantenimento nelle cause di divorzio.

Via libera quindi dalla Corte di Cassazione all’applicazione dei principi adottati dalla nota sentenza 10 maggio 2017 n°11507, che ha rivoluzionato il criterio di attribuzione dell’assegno di divorzio in favore del coniuge più debole archiviando il così il criterio della conservazione del tenore di vita matrimoniale.

La Suprema Corte ha infatti deciso che i giudici hanno l’obbligo di uniformarsi alle ultime novità in diritto quando decidono le cause e che i nuovi principi devono essere applicati “d’ufficio”.

E’ stato così accolto il ricorso di un funzionario romano in pensione con duemila euro al mese e un tfr da 61mila euro che tutti i mesi doveva versare cento euro alla ex moglie che aveva una pensione di 1141 euro, per «evidente divario economico tra le parti» e per consentirle «un tenore di vita in linea con la convivenza».

La Cassazione, dando ragione al reclamo dell’ex marito, ha stabilito che la Corte di Appello di Roma deve rivedere il caso, uniformandosi alla sentenza n°15481/17, e dunque senza prendere come riferimento il parametro del “tenore di vita”.

I supremi giudici inoltre rilevano che la ex moglie non aveva voluto depositare gli estratti conto bancari e anche questo è un elemento sul quale i giudici di merito devono “riflettere”.[:]

[:it]Risultati immagini per immagine due madri con bambinoLa prima Sezione della Corte di Cassazione, con sentenza 15 giugno 2017 n. 124878, ha accolto la domanda di due donne, sposate in Inghilterra, che avevano chiesto la rettifica dell’atto di nascita del bambino nato con una fecondazione eterologa in Gran Bretagna.

Il bambino era stato registrato regolarmente in Italia con i soli dati della madre biologica, mentre l’ufficio dello stato civile britannico lo aveva registrato come figlio di entrambe le mamme.

La coppia aveva quindi richiesto di fare altrettanto all’anagrafe di Venezia ricevendo un rifiuto.

Per la Corte di Cassazione, invece, la richiesta della coppia “non è contraria all’ordine pubblico internazionale”; il bambino deve essere iscritto all’Anagrafe italiana come figlio di entrambe le madri e portarne il cognome.

E’ vero, afferma la Corte, che l’art. 9 della legge n. 40 del 2014 prevede che i conviventi siano di sesso diverso e che la procreazione assistita si effettui solo in caso di sterilità della coppia, ma trattandosi di fattispecie effettuata e perfezionata all’estero e certificata dall’atto di stato civile di uno Stato straniero, si deve necessariamente affermare che la trascrizione richiesta non è contraria all’ordine pubblico internazionale.

E ciò in quanto il giudice italiano deve esaminare la contrarietà dell’atto estero non solo con riferimento alla nostra Costituzione, ma anche alle dichiarazioni Onu dei diritti dell’uomo e del fanciullo e alle Convenzioni europee sullo stesso tema; atti, tutti questi, che sanciscono il diritto di sposarsi e formare una famiglia, il rispetto della vita privata e familiare, il divieto di ogni discriminazione fondata sul sesso e su ogni altra condizione e l’impegno ad eliminare gli ostacoli che impediscono lo sviluppo della persona umana, riguardante ogni individuo, in particolare quelli soggetti a discriminazione tra cui storicamente possono considerarsi le coppie omosessuali.

In Italia, poi, il matrimonio tra persone dello stesso sesso deve essere considerato inefficace ma non inesistente, anche tenendo presente la recente disciplina sulle unioni civili tra coppie omosessuali, molto simile a quella del matrimonio.

 Più importanti ancora devono essere ritenuti  i diritti dei bambini, finalizzati anche ad evitare ogni possibile discriminazione e a garantire un solido contesto familiare.

Nel caso in esame la nascita del bambino ha costituito “un progetto condiviso della coppia, espressione di affetto e solidarietà reciproca”.

Sin dall’inizio, quindi, c’è stata l’idea di portare avanti un progetto come famiglia.

E di questo non può non tenersi conto.[:]

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downloadLa scelta della scuola, si sa, non è mai facile. Tra numeri chiusi, tempi stretti e la concorrenza tra istituti pubblici e privati, parificati o meno, sono sempre più frequenti i “ripensamenti” anche ad iscrizione ultimata. Aimè nella prassi, molte scuole “blindano” se non la frequenza effettiva, quanto meno il compenso per l’intero anno scolastico, attraverso contratti contenenti clausole, alcune delle quali di carattere vessatorio, che limitano e/o privano i genitori e il figlio della facoltà di recedere gratuitamente.

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza del 5 maggio 2017, n°10910, trae origine proprio da uno di detti casi, venendo in soccorso di una madre che, dopo aver pagato per l’iscrizione del figlio in una scuola paritaria, si era vista notificato un decreto ingiuntivo di pagamento della retta dell’intero anno scolastico da parte dell’istituto, nonostante avesse comunicato la volontà di recedere e nonostante il figlio avesse poi frequentato un altro istituto.

La signora decideva pertanto di impugnare il decreto, deducendo la vessatorietà di alcune clausole contrattuali, che ponevano in una posizione di svantaggio i genitori-consumatori rispetto al professionista, chiedendo, in via principale, la revoca dello stesso, incidentalmente la restituzione della quota d’iscrizione già versate e, in subordine, la riduzione del suo importo alla sola quota d’iscrizione.

Il Tribunale di Busto Arsizio, tuttavia, respingeva detti motivi di opposizione ritenendo che non sarebbe vessatoria la clausola che prevedeva “…nel caso di abbandono o non frequenza della scuola, l’obbligo del genitore contraente di corrispondere l’intera retta…”, potendo ritenersi tale “… solo in caso di recesso dello stesso professionista, e non quando, come nella fattispecie, è il consumatore a recedere”.

Il Tribunale, accoglieva tuttavia la domanda riconvenzionale della madre, volta alla restituzione quanto meno della quota d’iscrizione.

La signora e il suo avvocato, tuttavia, non si perdevano d’animo e impugnavano la sentenza di primo grado dinnanzi alla Corte d’Appello di Milano, eccependo nuovamente la vessatorietà della clausola che escludeva il diritto di recesso del genitore, oltre alla “…mancanza di conoscenza del regolamento, la mancata considerazione di una testimonianza e la asserita incompetenza territoriale del Tribunale di Busto Arsizio”.

La Corte milanese, pur disattendendo tali ultime rimostranze, dando ragione alla signora, riconosceva la vessatorietà della clausola contrattuale che poneva in capo al genitore l’obbligo di corrispondere l’intera quota nonostante la mancanza di frequenza dell’alunno, in quanto:

  • era pacifico che il relativo contratto non era stato oggetto di trattativa individuale (essendo “intonso” il modello contrattuale redatto dal professionista;
  • tale obbligo si poneva in contrasto con l’art. 33, co. 2, lett. g) del Codice del Consumo, rubricato “Clausole vessatorie nel contratto tra professionista e consumatore”, che sul punto dispone: “ Si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che hanno per oggetto, o per effetto, di: (…) g) riconoscere al solo professionista e non anche al consumatore la facoltà di recedere dal contratto, nonché consentire al professionista di trattenere anche solo in parte la somma versata dal consumatore a titolo di corrispettivo per prestazioni non ancora adempiute, quando sia il professionista a recedere dal contratto;”
  • tale vessatorietà risultava ancor più evidente se raffrontata con un’ulteriore clausola che consentiva all’istituto di “…sottrarsi all’obbligo di rendere le proprie prestazioni nel caso di mancato raggiungimento del numero idoneo per la formazione delle classi”, da considerarsi anch’essa vessatoria, atteso che tale circostanza impedirebbe al consumatore di verificarne la sussistenza, e non integrerebbe una condizione oggettiva in quanto la sua mancanza non renderebbe materialmente impossibile la prestazione promessa ma unicamente il riconoscimento dell’istituto come paritario.

Avverso tale decisione, proponeva ricorso in Cassazione l’istituto sulla base di tre motivi, tutti disattesi dalla Suprema Corte.

In particolare, con il primo motivo il ricorrente deduceva la mancanza di vessatorietà della clausola contrattuale che permetterebbe all’istituto di recedere in caso di mancato raggiungimento di un numero idoneo di studenti, in quanto la stessa avrebbe “…in realtà il carattere di condizione sospensiva, collegata ad un obbligo imposto alla stessa Acof dalla legge”, condizione che si sarebbe poi avverato facendo acquistare al contratto efficacia ex tunc. Ad avviso del ricorrente, in altri termini, una volta raggiunto il numero degli studenti per avviare il corso, né il professionista né il consumatore avrebbero potuto recedere, con conseguente assenza di qualsiasi squilibrio tra consumatore e professionista.

Di diverso avviso sono i giudici transtiberini, ad avviso dei quali la Corte milanese aveva giustamente ritenuto sussistente una presunzione di vessatorietà della suddetta clausola, ai sensi dell’art. 33, co. 2, lett. g) del Codice del Consumo, essendo assente un obbligo di legge che ne giustificasse l’esistenza ed essendo indubbio che la stessa clausola riconosceva “…al solo professionista e non anche al consumatore la facoltà di recedere dal contratto”. Ad avviso della Corte, inoltre, la presunzione di vessatorietà risultava nel caso di specie ancor più evidente, atteso che detta clausola consentiva “…al professionista di trattenere anche solo in parte la somma versata dal consumatore a titolo di corrispettivo per prestazioni non ancora adempiute, quando sia il professionista a recedere dal contratto” senza prevedere “analoga sanzione a carico del professionista” (sul punto si veda anche Cass. civ., Sez. III^, sentenza del 17 marzo 2010, n°6481, ad avviso del quale la somma dovuta dall’allievo nel caso di recesso integra una penale).

Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta che la Corte d’Appello:

  • avrebbe erroneamente qualificato l’istituto come asilo e non come scuola materna che, “pur non essendo obbligatoria, a differenza del nido è inserita nel sistema scolastico educativo nazionale”;
  • avrebbe errato nel ritenere irrilevante la qualifica di scuola paritaria dell’istituto, come dimostrato dalla successiva iscrizione dell’alunno presso altra scuola paritaria;
  • avrebbe dovuto applicare una circolare ministeriale che dettava regole per le iscrizioni degli alunni nell’anno accademico di riferimento.

La Suprema Corte, ancora una volta, disattende le suddette eccezioni, ritenendo indimostrata l’influenza che la corretta applicazione della normativa statale avrebbe avuto sull’esito del giudizio.

Con l’ultimo motivo di ricorso, infine, l’istituto si doglie della mancata applicazione “…dell’art. 34, comma 4, Codice del Consumo, il quale esclude la vessatorietà delle clausole che siano state oggetto di trattativa individuale”, ritenendo che dall’istruttoria sarebbe emersa non solo la possibilità ma anche l’effettiva contrattazione delle clausole contrattuali.

Anche detto ultimo motivo veniva tuttavia dichiarato inammissibile per violazione dei limiti di deducibilità del vizio ai sensi della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 6, n. 5 nonché per difetto di autosufficienza.

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[:it]prenuptial-agreements

Dopo due anni, è giunta finalmente in discussione alla Camera la proposta di legge n°2669 del 2014, avente ad oggetto i c.d. “prenuptial agreements”, o accordi prematrimoniali, noti da tempo nel mondo anglosassone ma sino ad oggi banditi nel nostro ordinamento per nullità della causa.

Cosa sono gli accordi prematrimoniali?

Gli accordi prematrimoniali sono dei contratti sottoscritti dai coniugi con cui gli stessi disciplinano i loro rapporti patrimoniali in vista di un’eventuale separazione o divorzio. Funzione di tali accordi è quello di predeterminare le conseguenze patrimoniali della separazione o del divorzio in un momento antecedente, scongiurando altresì anni di costose battaglie giudiziarie.

Perché erano banditi in Italia?

In Italia, la Suprema Corte di Cassazione già da diversi decenni orsono aveva dichiarato la nullità di tali accordi, per illiceità della loro causa, incompatibili con l’indisponibilità dello status di coniuge e di alcuni diritti spettanti a seguito della separazione o del divorzio, in primis il diritto all’assegno divorzile, attesa la sua natura assistenziale. Ad avviso della Suprema Corte, infatti, tali accordi erano reputandoli “rischiosi” in quanto idonei a limitare tanto la libera disponibilità dello status di coniuge nonché a pregiudicare la funzione alimentare dell’assegno divorzile.

Riportiamo di seguito un passaggio della nota sentenza n°3777 dell’11 giugno 1981, una delle prime ad affrontare la questione degli accordi prematrimoniali e a dichiararne la nullità nel nostro ordinamento, anche per ragioni di ordine pubblico: “ In tema di divorzio, il preventivo accordo con cui gli interessati stabiliscono, in costanza di matrimonio, il relativo regime giuridico, anche in riferimento ai figli minori, convenendone l’immodificabilità per un dato periodo di tempo, è invalido, nella parte riguardante i figli, per l’indisponibilità dell’assegno dovuto ai sensi dell’art. 6 l. 1dicembre 1970, n. 898, nella parte riflettente l’assegno spettante all’ex coniuge a norma del precedente art. 5, per contrasto sia con l’art. 9 della stessa legge, che non consente limitazioni di ordine temporale alla possibilità di revisione del suindicato regime, sia con l’art. 5 cit., che, fissando i criteri per il riconoscimento e la determinazione di un assegno all’ex coniuge, configura un diritto insuscettibile, anteriormente al giudizio, di rinunzia o di transazione, attesa l’illiceità della causa di un negozio siffatto, perché sempre connessa, esplicitamente o implicitamente, all’intento di viziare, o quanto meno di circoscrivere, la libertà di difendersi in detto giudizio, con irreparabile compromissione di un obiettivo d’ordine pubblico come la tutela dell’istituto della famiglia. Pertanto, in tale giudizio, non può una delle parti impedire all’altra di provare la verità delle condizioni di fatto alle quali la legge subordina e commisura l’assegno di divorzio e quello di mantenimento dei figli, eccependo l’intangibilità dell’accordo intervenuto in merito prima dell’inizio del giudizio medesimo”.

In epoca più recente, la Suprema Corte, in una serie di pronunce (ex multis nn°8109/2000 e 5302/2006), ha affermato che i suddetti patti, qualora volti a quantificare preventivamente l’assegno di divorzio, non erano affetti da nullità assoluta bensì relativa, precludendo così al solo coniuge economicamente più forte di invocarne la nullità.

Di fondo, dietro le declaratorie di nullità di tali accordi, si cela anche un pregiudizio evidente nei confronti dell’autonomia privata dei coniugi, ai quali non era concesso di predeterminare contrattualmente le sorti, anche economiche, del naufragio del loro matrimonio. A partire dal 2012, tuttavia, si sono segnalate alcune pronunce volte a riconoscere una pur limitata valenza all’autonomia delle parti. È il caso della sentenza n°23713 del 21 dicembre 2012, con cui la Suprema Corte ha dichiarato la validità di un contratto con cui la futura moglie si era obbligata, in caso di fallimento del proprio matrimonio, a trasferire gratuitamente al marito un immobile, quale indennizzo per le somme dallo stesso sborsate per ristrutturare la loro casa familiare.

Perché ora questa nuova apertura del Parlamento?

Recentemente, tanto in ambito internazional-privatistico, a livello europeo, tanto nel diritto interno, si sta progressivamente assistendo ad una valorizzazione dell’autonomia privata, come mai successo in precedenza, anche nel settore del diritto di famiglia.

In particolare, il regolamento n°1259/2010 UE, in punto di giurisdizione e legge applicabile alla separazione e divorzio, ha introdotto la facoltà per i coniugi di scegliere, attraverso appositi accordi, ancor prima della separazione/divorzio, la legge applicabile alla stessa, proprio al fine di garantire la certezza del diritto, da un lato, e una deflazione del contenzioso giudiziario dall’altro.

Nel diritto interno, invece, l’autonomia privata è stata presa in considerazione dalla recente legge “Cirinnà” n°76/16, attraverso l’introduzione nel nostro ordinamento dei c.d. “contratti di convivenza”, con cui le coppie non sposate possono regolamentare la propria vita comune.

Qual è la proposta attualmente in discussione alla Commissione della Camera?

Il D.D.L., datato 2014, attualmente in discussione, si pone l’obiettivo di “riconoscere ai futuri coniugi nel momento che precede il matrimonio una più ampia autonomia al fine di disciplinare i loro rapporti patrimoniali e personali anche relativamente all’eventuale fase di separazione e di divorzio, attraverso accordi contenuti in un’apposita convenzione”.

Il D.D.L., in particolare, mira ad introdurre nel codice civile l’art. 162-bis c.c., rubricato “accordi prematrimoniali”, attraverso cui sarà permesso, salvo probabili modifiche all’attuale testo del D.D.L., di sottoscrivere, ricorrendo alternativamente alle convenzioni matrimoniali ex art. 162 c.c. ovvero alla negoziazione assistita tra avvocati, a contratti prematrimoniali, attraverso cui regolamentare gli aspetti patrimoniali del fallimento della loro unione.

Andiamoli ad analizzare.

Nell’accordo i coniugi possono regolamentare gli aspetti patrimoniali:

  • attribuendo ad uno di essi, alternativamente una somma di denaro periodica ovvero una somma di denaro una tantum (in unica soluzione);
  • attribuendo ad uno di essi, un diritto reale su uno o più immobili “anche con il vincolo di destinare, ai sensi dell’articolo 2645-ter, i proventi al mantenimento dell’altro coniuge o al mantenimento dei figli fino al raggiungimento dell’autosufficienza economica degli stessi”;
  • rinunciando al mantenimento, fatto salvo in questo caso il diritto agli alimenti, ex articoli 433 e ss. c.c.;
  • trasferendo all’altro ovvero ad un terzo “beni o diritti destinati al mantenimento, alla cura o al sostegno di figli disabili per la durata della loro vita o fino a quando permane lo stato di bisogno, la menomazione o la disabilità”.

Ad ogni modo, le predette attribuzioni, specifica il disegno, non possono superare “più della metà del proprio patrimonio”.

In oltre, al fine di “adattare” le attribuzioni al momento in cui l’accordo produrrà effetti, il legislatore ha previsto altresì la possibilità per le stesse di “stabilire un criterio di adeguamento automatico del valore delle attribuzioni patrimoniali predisposte con gli accordi prematrimoniali”.

Qualora poi gli accordi abbiano ad oggetto il mantenimento anche dei figli minori o non ancora economicamente autosufficienti, il testo prevede la necessaria autorizzazione del procuratore della Repubblica, il quale, qualora non la conceda, dovrà indicarne i motivi, invitando le parti ad una riformulazione. In caso di bocciatura anche della proposta riformulata, poi, il diniego sarà definitivo.

Il disegno di legge prevede anche una deroga rispetto al divieto di patti successori, consentendo, nei limiti del rispetto dei diritti dei legittimari, di regolamentare anche quanto ricevuto dagli stessi coniugi per successione.

Per quanto attiene alla dimensione temporale, è importante evidenziare come tali patti possono essere stipulati e anche modificati sia prima che durante il matrimonio, purché prima del deposito del ricorso per separazione personale/la sottoscrizione della convenzione assistita o dell’accordo ex art. 6 e 12 D.lgs. n°132/14.

Ma ad oggi sono validi questi patti?

Che tali patti siano tuttora nulli è tuttavia da considerarsi pacifico alla luce anche della recente sentenza n°2224 del 30 gennaio 2017 della Suprema Corte di Cassazione. Non ci resta, pertanto, che aspettare fiduciosi nell’approvazione del D.D.L.

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Da oggi in poi non conterà più il criterio del tenore di vita goduto nel corso del matrimonio per determinare l’assegno divorzile a favore dell’ex coniuge che lo richiede. A contare sarà invece il criterio dell’indipendenza o autosufficienza economica e non più il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio e la sperequazione tra i redditi dei due coniugi.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato dall’ex moglie di un ex ministro dell’Economia nel Governo Monti avverso la sentenza con cui la Corte d’Appello di Milano, confermando la sentenza dei giudici di primo grado, le aveva negato il diritto all’assegno divorzile in considerazione dell’accertata autonomia economica della signora. La Suprema Corte, investita della questione, confermando il rigetto della richiesta di assegno divorzile avanzata dalla moglie, ha superato il suo precedente e consolidato orientamento, ritenendo che “…il rapporto matrimoniale si estingue non solo sul piano personale ma anche economico-patrimoniale, sicché ogni riferimento a tale rapporto finisce illegittimamente con il ripristinarlo, sia pure limitatamente alla dimensione economica del tenore di vita matrimoniale, in una indebita prospettiva di ultrattività del vincolo matrimoniale“. Ad avviso della Suprema Corte, pertanto, “l’interesse tutelato con l’attribuzione dell’assegno divorzile – come detto – non è il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma il raggiungimento della indipendenza economica, in tal senso dovendo intendersi la funzione – esclusivamente – assistenziale dell’assegno divorzile”. 

Tale interpretazione, ad avviso della Corte, sarebbe l’unica coerente con un altro orientamento invalso recentemente nella giurisprudenza di legittimità con riferimento alla formazione di una famiglia di fatto da parte del coniuge beneficiario dell’assegno divorzile. Secondo detto orientamento il coniuge che crea una nuova famiglia perde il diritto all’assegno divorzile a seguito di una sua “…scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una eventuale cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale da parte dell’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo dell’obbligo”. A ciò consegue l’illegittimità di gravare l’ex coniuge di detto assegno all’infuori dei casi in cui il proprio ex non sia in grado di mantenersi da solo. La Suprema Corte, pertanto, partendo da tali premesse arriva a sostenere che la precedente interpretazione invalsa nella giurisprudenza violerebbe il diritto fondamentale del coniuge obbligato all’assegno divorzile di fondarsi una nuova famiglia, consacrato nell’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e all’art. 8 CEDU (probabilmente per errore, la Corte fa impropriamente riferimento all’art. 12 che invece tutela il solo diritto a contrarre matrimonio), gravandolo di ingiustificati oneri economici che non trovano più giustificazione a seguito dell’estinzione, anche sul piano dei rapporti economico-patrimoniali, del rapporto matrimoniale.

Quali sono dunque ora i principi di diritto per la determinazione dell’assegno divorzile? In primo luogo deve essere verificato, nella fase dell’accertamento («informata al principio dell’ “autoresponsabilità economica” di ciascuno degli ex coniugi quali “persone singole”»), se sia dovuto o meno l’assegno di divorzio chiesto dall’ex coniuge, ovvero se la domanda di quest’ultimo «soddisfa le condizioni di legge» (mancanza di “mezzi adeguati” o comunque “impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive”), con esclusivo riferimento «all’indipendenza o autosufficienza economica dello stesso».

Dunque, secondo i giudici transtiberini, il diritto all’assegno divorzile e la sua quantificazione va ora individuato attraverso un “parametro diverso”: “il raggiungimento dell’indipendenza economica” di chi ha richiesto l’assegno divorzile. Specularmente, chiarisce la Suprema Corte, “…se è accertato  che (il richiedente) è economicamente indipendente o effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto tale diritto“, a nulla rilevando la circostanza che, in costanza di matrimonio, i superiori redditi dell’ex coniuge avevano permesso un tenore di vita più elevato.

Da ultimo, i giudici transtiberini chiariscono quali sono «i principali “indici”» da cui desumere l’autosufficienza economica (o meno) del coniuge richiedente, e cioè: il “possesso” di redditi e di patrimonio mobiliare e immobiliare, le “capacità e possibilità effettive” di lavoro personale e “la stabile disponibilità” di un’abitazione.

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