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La Corte di Cassazione, sezione III civile, con sentenza 7 marzo 2017, n. 5618 afferma che il credito vantato dal coniuge separato per assegno di mantenimento dovuto,ex articolo 156 del Cc, dall’altro coniuge, sebbene dia luogo a un’obbligazione periodica, avente a oggetto prestazioni, autonome e distinte nel tempo, che diventano esigibili alle rispettive scadenze, è tutelabile, come tale, dal momento della sua insorgenza in forza di provvedimento giudiziale, mediante azione revocatoria ordinaria a fronte dell’alienazione immobiliare compiuta, in modo pregiudizievole, dal coniuge obbligato. Queste le ragioni;

 – è principio consolidato quello per cui l’articolo 2901 c.c., ha accolto una nozione lata di credito, comprensiva della ragione o aspettativa, con conseguente irrilevanza dei normali requisiti di certezza, liquidita’ ed esigibilita’, sicche’ anche il credito eventuale, nella veste di credito litigioso, e’ idoneo a determinare – sia che si tratti di un credito di fonte contrattuale oggetto di contestazione in separato giudizio sia che si tratti di credito risarcitorio da fatto illecito – l’insorgere della qualita’ di creditore che abilita all’esperimento dell’azione revocatoria ordinaria avverso l’atto di disposizione compiuto dal debitore (tra le tante, Cass., 22 marzo 2016, n. 5619).

Del pari consolidato e’ il principio che a fondamento dell’azione revocatoria ordinaria si richiede (non gia’ la totale compromissione della consistenza del patrimonio del debitore, ma) soltanto il compimento di un atto che renda piu’ incerta o difficile la soddisfazione del credito (tra le tante, Cass., 3 febbraio 2015, n. 1902).

 – Orbene, e’ indubbio che il coniuge separato che ottenga, in forza di provvedimento giudiziale ai sensi dell’articolo 156 c.c., l’assegno di mantenimento diventi creditore di un’obbligazione pecuniaria periodica (Cass., 14 febbraio 2007, n. 3336), avente ad oggetto prestazioni autonome e distinte nel tempo (Cass., 4 aprile 2005, n. 6975) e che, pertanto, si rendono esigibili alle rispettive scadenze (risultando, invece, liquide in base alla determinazione giudiziale dell’ammontare dell’assegno). Ne’, peraltro, puo’ dubitarsi che per l’adempimento di tale credito, che trova fonte nella legge e insorgenza nel provvedimento del giudice, il debitore sia esposto, ai sensi dell’articolo 2740 c.c., con tutti i suoi beni (cfr. Cass., 26 luglio 2005, n. 15603).

Dunque, il diritto di credito che il coniuge separato vanta nei confronti del coniuge obbligato al mantenimento e’, nonostante il carattere periodico dell’obbligazione stessa, tutelabile ai sensi dell’articolo 2901 c.c., giacche’ l’azione revocatoria, per un verso, non postula – come detto – la (liquidita’ o) esigibilita’ del credito (che puo’ essere anche a termine o sottoposto a condizione) e, per altro verso, non richiede affatto, per la sua esperibilita’, la ricorrenza del requisito della sussistenza di un inadempimento (attuale, e cioe’ al momento della disposizione patrimoniale pregiudizievole) del debitore, fondandosi, invece (oltre che sull’esistenza di un credito, nei termini anzidetti, e sul requisito soggettivo della scientia damni o della partecipatio fraudis), sul requisito oggettivo dell’eventus damni e cioe’ del compimento, ad opera del debitore, di un atto dispositivo del patrimonio che sia tale da rendere piu’ difficile la soddisfazione del credito che si intende tutelare (inoltre, cfr. Cass., 19 agosto 2005, n. 17009, che da’ per presupposta la tutelabilita’ ex articolo 2901 c.c., del credito per assegno di mantenimento).

 Ne’ la previsione del citato articolo 156, comma 4, che consente al giudice di imporre all’obbligato di prestare idonea garanzia reale o personale ove si paventi il suo inadempimento, si pone come ostacolo all’esistenza dell’interesse del coniuge creditore all’esercizio dell’azione ex articolo 2901 c.c., poiche’ – premesso che la garanzia personale non fornisce, all’evidenza, alcuna garanzia che il patrimonio del debitore venga dismesso – quanto alla garanzia reale, questa Corte ha affermato che l’esistenza di una ipoteca sul bene oggetto dell’atto dispositivo, ancorche’ di entita’ tale da assorbirne, se fatta valere, l’intero valore, non esclude la connotazione di quell’atto come eventus damni, atteso che la valutazione tanto della idoneita’ dell’atto dispositivo a costituire un pregiudizio, quanto della possibile incidenza, sul valore del bene, della causa di prelazione connessa alla ipoteca, va compiuta con riferimento non al momento del compimento dell’atto, ma con giudizio prognostico proiettato verso il futuro, per apprezzare l’eventualita’ del venir meno, o di un ridimensionamento, della garanzia ipotecaria (Cass., 10 giugno 2016, n. 11892).

Del pari e’ da ritenersi (quanto al positivo apprezzamento circa l’interesse all’azione e la sua esperibilita’) in riferimento alla previsione di cui al quinto comma dello stesso articolo 156 c.c. (che consente al giudice, su istanza di parte, di disporre il sequestro dei beni dell’obbligato “in caso di inadempienza”), giacche’ non solo la revocatoria ordinaria, per la sua natura non recuperatoria e non ripristinatoria del patrimonio del debitore inciso dall’atto dispositivo, non postula la liberta’ e capienza di detto patrimonio (sicche’, costituisce strumento di tutela della conservazione della garanzia patrimoniale generica del debitore che concorre con gli altri strumenti che tendono alla medesima funzione di tutela, tra cui anche il sequestro), ma, segnatamente, essa – come gia’ evidenziato – non presuppone affatto l’inadempimento (attuale) del debitore stesso.

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[:it]unmarriedLa Suprema Corte, sez. III^ civile, con sentenza n°10377 del 27 aprile 2017, si è pronunciata su un’annosa questione, oggi disciplinata normativamente dalla legge c.d. “Cirinnà”: il godimento dell’immobile da parte del convivente more uxorio del proprietario, dopo il decesso di quest’ultimo.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da una convivente more uxorio a cui, dopo la morte del compagno proprietario dell’immobile, era stato intimato, da parte della moglie separata e della figlia dello stesso, il rilascio di quest’ultimo.

I giudici di primo e secondo grado, non condividendo le motivazioni addotte dalla difesa della ricorrente, rigettavano la domanda della stessa, ritenendo che “…il prolungato rapporto di convivenza ‘more uxorio’ (…) non attribuisse alla prima alcun titolo idoneo a possedere o detenere l’immobile, né il diritto di abitazione ex art. 540 co. 2 e 1022 c.c. riservato al coniuge”.

L’ex compagna, lungi dal darsi per vinta, ricorreva per cassazione sostenendo, inter alia, che l’evoluzione del concetto di famiglia avrebbe portato la giurisprudenza di legittimità e costituzionale a ritenere l’affectio derivante dalle convivenze “more uxorio”, caratterizzate da apprezzabile stabilità, come interesse meritevole di tutela, “…riconoscendo al convivente non titolare di diritti reali o relativi sull’immobile destinato ad abitazione della coppia, la titolarità di una relazione con il bene qualificata come detenzione autonoma, tale da legittimare il godimento del bene anche dopo il decesso del convivente”.

Di diverso avviso sono tuttavia gli Ermellini, distinguendo a seconda che il convivente proprietario sia o meno in vita. Secondo la Suprema Corte, pertanto:

  • in costanza di convivenza, il convivente non proprietario avrebbe un interesse proprio avente i connotati di una detenzione qualificata dell’immobile, in virtù del quale sarebbe legittimato ad esperire l’azione di spoglio, in caso di sua estromissione violenta o clandestina, non solo nei confronti dei terzi ma dello stesso convivente proprietario;
  • a seguito della morte del convivente proprietario (o semplicemente a seguito di una scelta libera delle parti), tuttavia, il diritto avente ad oggetto la detenzione qualificata dell’immobile verrebbe meno e non sarebbe più esercitabile nei confronti dei terzi, non potendo la rilevanza sociale e giuridica della convivenza di fatto incidere sul legittimo esercizio dei diritti spettanti ai terzi sul bene immobile.

Pertanto, secondo la Suprema Corte, una volta deceduto il convivente proprietario, nel regime anteriore a quello introdotto dalla legge Cirinnà, la protrazione della relazione tra convivente superstite e bene potrebbe legittimamente sussistere unicamente in due ipotesi:

  1. a) qualora il convivente superstite sia istituito coerede o legatario dell’immobile, in virtù di disposizione testamentaria;
  2. b) qualora sia costituito un nuovo e diverso titolo di detenzione da parte degli eredi del convivente proprietario.

La Corte chiarisce altresì l’inapplicabilità ratione temporis al caso di specie della disposizione dell’art. 1, co. 42, della l. 76/2016, “…che conferisce al convivente superstite un diritto di abitazione temporaneo (non oltre i cinque anni) modulato diversamente in relazione alla durata della convivenza ed alla presenza di figli minori o disabili”.

Unico rimedio, seppur parziale, nel regime anteriore all’introduzione della legge Cirinnà, rimane, ad avviso degli Ermellini, il ricorso al principio di buona fede e di correttezza…che impone al soggetto che legittimamente intende rientrare, in base al suo diritto, nella esclusiva disponibilità del bene, di concedere all’ex convivente un termine congruo per la ricerca di una nuova sistemazione” (sul punto Cass. 7214/13).

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Risultati immagini per immagine amorePer convivenze di fatto si intendono rapporti stabili tra due persone maggiorenni unite da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile (comma 36 dell’art. 1 legge 76/2016) e costituiscono una famiglia anagrafica ai sensi dell’art. 4 d.p.r. 30 maggio 1989, n. 223.

Ai conviventi di fatto il legislatore attribuisce una serie di diritti (parzialmente assimilabili a quelli riconosciuti ai coniugi), e cioè:

1) il diritto reciproco di visita in caso di malattia;

2) la facoltà di designare l’altro convivente quale rappresentante per le decisioni in materia di salute;

3) il diritto di partecipazione agli utili dell’impresa familiare;

4) la facoltà di essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno del convivente;

5) in caso di morte, il diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza, la facoltà di succedere nel contratto di locazione della casa di comune residenza e quella di godere, a parità di condizioni, del titolo o causa di preferenza nelle graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia popolare;

6) il diritto al risarcimento del danno spettante al coniuge superstite in caso di decesso del convivente di fatto, derivante da fatto illecito di un terzo, il diritto agli alimenti.

Occorre, peraltro rilevare come, al di fuori dei diritti specificamente riconosciuti ai conviventi, non sia prevista alcuna estensione alle convivenze delle norme dettate in materia di matrimonio o di unione civile.

L’esistenza di detta convivenza viene accertata attraverso la dichiarazione anagrafica di costituzione della convivenza.

Tanto premesso

i conviventi di fatto possono regolamentare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto, che a pena di nullità deve rivestire la forma di atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un avvocato o da un notaio, che ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico.

Quanto ai contenuti del predetto accordo, l’art. 1 della legge 76/2016 (comma 53) si limita a prevedere la possibilità di indicare:

1) la residenza;

2) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo;

si noti bene:

si ritiene che il contratto di convivenza possa regolare liberamente la quantità e le modalità della contribuzione, senza che venga rispettato un criterio di proporzionalità tra i conviventi, in mancanza di un obbligo di partecipare al soddisfacimento dei bisogni della famiglia in proporzione alle capacità patrimoniali di ciascuno, e non essendo stato riproposto il divieto, contenuto nell’art. 160 c.c., di derogare ai diritti riconosciuti dalla legge;

3) il regime patrimoniale della comunione dei beni, il quale può, tuttavia essere modificato in qualunque momento nel corso della convivenza con le modalità previste per la stipula del contratto;

si noti bene:

– se nel matrimonio e nelle unioni civili esiste un regime legale, consistente nella comunione dei beni, le convivenze dovrebbero essere caratterizzate dall’assenza di un regime patrimoniale, salva l’ipotesi in cui questo venga espressamente indicato nel contratto di convivenza. Qualora, invece, il contratto di convivenza indichi la comunione legale come regime patrimoniale fra i conviventi, troverà applicazione la disciplina dettata dagli artt. 177 e seguenti del codice civile.

– La norma  sembra consentire anche la costituzione di un fondo patrimoniale ma non di una comunione convenzionale.

– In ogni caso, il divieto di termini e condizioni sembra escludere la possibilità di regolamentare i rapporti patrimoniali dei conviventi in conseguenza della cessazione del loro rapporto affettivo e della loro vita in comune, in quanto tali pattuizioni riguardano la definizione dei reciproci diritti e doveri al momento del venir meno della convivenza e non, invece, la cessazione degli effetti del contratto al verificarsi di una scadenza o di un evento futuro e incerto.

– Ai fini dell’opponibilità ai terzi il contratto deve essere iscritto all’anagrafe a cura del professionista che ha ricevuto l’atto o autenticato la sottoscrizione.

Ne consegue che la verifica della legittimazione a disporre di un bene da parte del suo titolare richiederà  anche l’esame di un certificato anagrafico di stato di famiglia, al fine di stabilire se si tratti o meno di persona coniugata o stabilmente convivente che abbia concluso un contratto di convivenza.

– Concorde dottrina ha sottolineato l’incoerenza della scelta di far dipendere da un’opzione contrattuale l’adozione di un regime legale che prevede importanti deroghe ai principi di diritto comune in materia di acquisto, amministrazione e diposizione dei beni, prevedendo un sistema di pubblicità diverso da quello adottato per il matrimonio e le unioni civili, in quanto per i contratti di convivenza è sufficiente la forma di scrittura privata autenticata anche da un professionista non soggetto a obblighi di conservazione e rilascio di copia, e la loro opponibilità a terzi è subordinata ad una iscrizione anagrafica e non, invece, alla pubblicità nei registri dello stato civile.[:]

[:it]DEUDAS DE TARJETAS. CARACTERIZACION PARA LA REVISTA  + MUJER.

L’omesso e il ritardato pagamento dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge e dei figli è certamente una delle questioni maggiormente alla ribalta in un periodo caratterizzato da una notevole contrazione dei redditi delle famiglie italiane e da una dilagante disoccupazione. Il predetto inadempimento, qualora caratterizzato da un comportamento volontario e cosciente del coniuge inadempimento e da un effettivo stato di necessità dei beneficiari, può legittimare una condanna ai sensi dell’art. 570, comma 2, c.p., anche qualora si sostanzi in un ritardo reitarato e grave nella sua corresponsione. La Corte d’Appello penale di Palermo, nella recente sentenza n°132 del 19 gennaio 2017 prova a fare chiarezza.

La vicenda in oggetto trae origine dalla denuncia presentata da un’ex moglie nei confronti dell’ex marito, pompiere, reo di aver ritardato il pagamento del mantenimento disposto in suo favore e in favore dei due figli dal Tribunale di Trapani, ancorchè ciò si era verificato solo nei primi mesi dall’emissione del predetto provvedimento. In primo grado, tuttavia, il Tribunale di Trapani, in composizione monocratica, assolveva l’imputato. Avverso detta sentenza presentava appello il Procuratore della Repubblica di Trapani, ad avviso del quale “…il ritardo con cui l’imputato era solito corrispondere alla moglie le somme necessarie ad assicurarsi i mezzi di sussistenza alle figlie atteso che, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, anche il ritardo può determinare il perfezionamento della fattispecie incriminatrice, pur dovendo il giudice penale rilevarne la gravità e quindi l’attitudine oggettiva a integrare la condizione che la norma è tesa ad evitare”. Di fatti, tanto la moglie quanto i testimoni escussi, avevano confermato che il ritardato versamento del mantenimento aveva causato l’insorgere di uno stato di bisogno nella famiglia, tanto da spingere la madre a ricorrere alla carità dei propri familiari.

Di diverso avviso è tuttavia la Corte d’Appello di Palermo, ad avviso della quale il successivo regolare ed integrale pagamento del mantenimento da parte dell’imputato escluderebbe la configurabilità del reato ex art. 570, co. 2, c.p., attesa la sua natura di unico reato permanente. A sostegno del proprio convincimento il giudice d’appello si rifà ad una risalente pronuncia della Suprema Corte, n°479/1992, in cui la stessa aveva evidenziato che:

  • ai fini della configurabilità del reato di omessa prestazione dei mezzi di sussistenza in favore dei figli, il provvedimento del giudice civile che fissa il mantenimento “…può costituire solo un punto di partenza per l’accertamento del reato, nella misura in cui dimostra la sussistenza di uno stato di bisogno dei beneficiari”;
  • il mero pagamento di una somma inferiore non è pertanto sufficiente ad integrare gli estremi del predetto reato, che, di contro, si configura “…qualora non venga corrisposta alcuna somma, o vengano versate somme irrisorie…”.

In conclusione, ad avviso della Corte, il regolare ed integrale pagamento del mantenimento nel periodo successivo renderebbe irrilevante l’originario ritardo.

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downloadDi recente giornali specialistici e non hanno posto in evidenza la scelta coraggiosa operata dal Tribunale di Brindisi di riformare le Linee guida per la sezione famiglia, operando una nuova lettura delle norme in tema di affidamento dei figli, maggiormente orientata a modelli paritetici di affidamento e ad un’effettiva bigenitorialità.

Punto di partenza di tale rivoluzione è stata la presa di coscienza della mai avvenuta applicazione dei principi portanti della riforma introdotta con legge n°54 del 2006, in primis il principio della c.d. bigenitorialità, nonché del pregiudizio che il collocamento prevalente ha non solo sul legame figlio – genitore non collocatario ma anche sulla serena e corretta crescita dei figli.

A sostegno di tale inversione di tendenza, il Tribunale brindisino richiama una copiosa dottrina internazionale che ha da tempo dimostrato l’esistenza di effetti pregiudizievoli sui bambini derivanti dalla “…frequentazione di uno dei genitori per un tempo inferiore a un terzo del tempo totale”, come abitudinariamente avviene nei casi di affidamento condiviso con collocamento prevalente presso un genitore, in cui al genitore non collocatario viene di solito concesso un diritto di visita da esercitarsi per 1 o 2 pomeriggi alla settimana e nei fine settimana alternati.

A ben vedere, tale scelta coraggiosa trova altresì conforto in una precisa presa di posizione in ambito internazionale da parte del governo italiano, firmatario della risoluzione n°2079/15 del Consiglio d’Europa, contenente espresso invito agli Stati membri ad assicurare l’effettiva eguaglianza tra genitori anche attraverso la promozione della c.d. “shared residence”, definita quale “…forma di affidamento in cui i figli dopo la separazione della coppia genitoriale trascorrono tempi più o meno uguali presso il padre e la madre”.

Ma in cosa consistono i principali aspetti operativi di questa rivoluzione?

In primis nella soppressione della figura del genitore collocatario, con conseguente venir meno delle statuizioni in ordine all’assegnazione della casa familiare. La casa familiare, pertanto, ritornerà nella disponibilità del suo proprietario esclusivo, ovvero, qualora sia in comproprietà, “…si valuterà quale sia il costo della locazione di un appartamento di caratteristiche simili e al genitore che ne esce verrà scontato il 50% di tale cifra nel calcolo del mantenimento”.

La residenza dei figli, inoltre, avrà valenza meramente anagrafica, con conseguente domiciliazione degli stessi presso ambedue i genitori. La scelta invece della c.d. “residenza abituale” sarà definita unicamente con riferimento alla regione o stato, al solo fine di definire la competenza giurisdizionale in caso di allontanamento unilaterale di uno dei genitori insieme ai figli.

In secondo luogo, la frequentazione dei figli da parte dei genitori dovrà ispirarsi “…al principio che ciascun genitore dovrà partecipare alla quotidianità dei figli”. I genitori pertanto dovrebbero trascorrere tempi tendenzialmente paritetici con i figli, ferma la possibilità che casuali esigenze dei figli e/o oggettive e dimostrate condizioni di impossibilità materiale possano determinare una maggiore presenza di un genitore rispetto all’altro. Proprio la presa di coscienza della difficoltà che potrebbero incontrare i genitori-lavoratori a poter disporre di sufficiente tempo libero ha spinto, inoltre, il Tribunale a chiarire che non vi è alcun pregiudizio che possa derivare dall’aiuto dei familiari nell’accudimento della prole, così come in passato nulla poteva essere eccepito alla madre collocataria nell’ipotesi in cui la stessa fosse stata costretta a giovarsi dell’aiuto di una baby-sitter.

In conseguenza della ripartizione più equilibrata tra i genitori dei compiti genitoriali e del tempo da trascorrere con i figli, cambieranno anche le modalità di mantenimento dei figli. Di fatti, salvo casi di evidenti disparità economiche tra i genitori (come nel caso di famiglie monoreddito), sarà sempre da preferire il c.d. mantenimento diretto al posto della forma indiretta, consistente nel tradizionale assegno da versare al coniuge collocatario.

Per quanto attiene poi alle c.d. spese straordinarie, il Tribunale, adottando il criterio suggerito dalla Suprema Corte, con sentenza n°16664/12, predilige la distinzione non già tra spese straordinarie e non, bensì tra stese prevedibili e imprevedibili, assegnando “…in partenza le spese prevedibili all’uno o all’altro genitore per intero in funzione del reddito e stabilire che le imprevedibili verranno divise a momento in proporzione delle risorse”.

Da ultimo, il Tribunale si sofferma sull’ascolto del minore nel processo, evidenziando l’incompatibilità della discrezionale valutazione a priori, riservata dall’art. 337 octies c.c. al giudicante, circa la superfluità dell’ascolto dello stesso, prediligendo la prescrizione dell’art. 315 bis c.c.

Ci sono pronunce in senso contrario?

La Suprema Corte è di recente intervenuta sulla questione, con ordinanza n°4060 del 15 febbraio 2017, prendendo spunto dalla richiesta di un genitore di modificare il regime di affidamento alternato, originariamente concordato, con un affidamento condiviso con collocazione prevalente. La Cassazione, in particolare, ha dato atto del limitato utilizzo in Italia dell’affidamento alternato, riconoscendo che lo stesso “…tradizionalmente previsto come possibile dal diritto di famiglia italiano, è rimasto una soluzione di limitate applicazioni, essendo stato ripetutamente affermato che esso assicura buoni risultati quando non vi è un accordo tra i genitori e tutti i soggetti coinvolti, anche il figlio, condividono la soluzione”. Ad avviso della Corte, inoltre, l’affidamento alternato, comportando una modifica continua della propria casa di abitazione, potrebbe avere “…un effetto destabilizzante per molti minori”.

In conclusione, pertanto, la Suprema Corte appare voler limitare l’affidamento alternativo ad un accordo in tal senso tra i genitori e ad una volontà favorevole del minore, manifestando un evidente pregiudizio al ricorso privilegiato alla c.d. “shared residence” ogni qualvolta vi sia tensione e difficoltà di cooperazione trai genitori.

Di segno opposto appare invece l’orientamento del Tribunale di Salerno che, ispirandosi alle linee guida del Tribunale di Brindisi, sta coraggiosamente invertendo la rotta in favore di un più ampio ricorso all’affidamento alternato e paritetico tra i genitori. Emblematica, a riguardo, è la recente iniziativa del Coordinatore della I^ sez. civile del Tribunale Salernitano, dott. Jachia, pubblicata su Ilcaso.it e rubricata inequivocamente “Dall’affido condiviso dalla residenza privilegiata alla partecipazione dei genitori alla quotidianità dei figli”. Segnali favorevoli all’affidamento alternato si rinvengono anche nel Tribunale di Milano che, già due anni orsono, nella persona del noto magistrato dott. Buffone affermava in un articolo pubblicato sul sito Altalex il 13 luglio 2015 che “…salvo diversi accordi dei genitori, i figli minori hanno diritto a trascorrere pari tempi di permanenza presso l’uno e l’altro genitori a prescindere dalla residenza”.

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downloadLa Corte europea dei diritti dell’uomo ha recentemente condannato l’Italia per violazione dell’art. 8, sanzionando l’operato dei suoi tribunali, rei di non aver posto in essere misure efficaci e rapide al fine di tutelare il diritto di visita di un padre separato.

L’iter giudiziario italiano

Il ricorso alla Corte di Strasburgo trae le proprie origini da una triste quanto comune vicenda giudiziaria all’italiana. Un uomo, a seguito della decisione di separarsi dalla moglie, lasciava la casa familiare, incontrando da allora una forte opposizione della stessa a qualsiasi contatto padre-figlio. Il padre ricorreva pertanto al Tribunale per i Minorenni di Brescia, lamentando oltre alle predette circostanze anche un comportamento pregiudizievole della madre verso il minore – la quale continuava ad allattare il bambino, nonostante avesse già più di 5 anni, e a dormire con lui – e chiedendo pertanto il suo affido in via esclusiva, all’esito di una perizia. La madre, costituitasi, contestava la fondatezza di tali accuse, affermando che il padre si era da sempre disinteressato del figlio e chiedendo pertanto la sua decadenza dalla responsabilità genitoriale.

Il Tribunale, investito della questione, disponeva pertanto una perizia psicologica, dalla quale emergeva l’opportunità di un affido condiviso, affiancata ad una procedura di mediazione familiare, e dell’esercizio del diritto di visita da parte del padre senza la presenza della madre.

Il Tribunale, conseguentemente, aderendo parzialmente alle risultanze della predetta perizia, decideva di affidare il minore ad entrambi i genitori, con collocamento prevalente presso la madre, concedendo al padre di vedere il figlio due giorni alla settimana. La decisione veniva impugnata, senza successo, da ambedue gli ex coniugi dinnanzi alla Corte d’Appello, che confermava pertanto le statuizioni del giudice di primo grado.

Decorsi pochi anni, il padre adiva nuovamente il Tribunale chiedendo che il figlio potesse trascorrere con lui le prossime vacanze pasquali. Il Tribunale, in tale occasione, accoglieva la domanda del ricorrente, respingendo la successiva richiesta di revoca presentata dalla madre. Successivamente il Tribunale, dando atto della volontà del minore a passare più tempo con il padre, pernottando altresì presso di lui, dell’atteggiamento ostruzionistico persistente della madre e dell’assenza di una sua collaborazione con i servizi sociali, estendeva il diritto di visita e di alloggio anche ad un fine settimana alternato, incaricando i servizi sociali di monitorare il rispetto di tali prescrizioni.

La madre, tuttavia, continuava ad opporsi a qualsiasi incontro padre-figlio senza la sua presenza, impedendo di fatto l’esercizio del diritto di visita stabilito dal Tribunale. Tale condizione, a detta del padre, spingeva quest’ultimo non solo a rifiutarsi di vedere il figlio e di tenerlo con lui ma anche a contattarlo telefonicamente e a passare con lui le vacanze. All’esito di ulteriori ricorsi presentati dai due genitori, la madre veniva autorizzata a trasferirsi a Torino, per motivi economici e di opportunità, alla luce anche del mancato esercizio del diritto di visita da parte del padre. Veniva rigettata, invece, la domanda dell’ex moglie di decadenza del padre dalla responsabilità genitoriali sul minore. Nei mesi successivi il padre persisteva nel suo rifiuto di collaborare con i servizi sociali di Torino e di vedere il figlio, nonostante la prescrizione da parte del Tribunale di incontri protetti, pertanto, senza la presenza della madre.

Il ricorso alla Corte europea

Il ricorrente decideva pertanto di adire la Corte EDU lamentando la violazione dell’art. 8 della Convenzione, dal momento che le autorità italiane avrebbero tollerato il comportamento inaccettabile posto in essere dalla madre – volto ad ostacolare il libero esercizio di visita da parte del padre e “…aizzare il minore contro di lui” – in aperta violazione delle condizioni fissate dal tribunale italiano.

I principi individuati dalla Corte

La Corte, investita della questione, chiarisce preliminarmente come lo scopo dell’art. 8 CEDU sia quello di  …premunire l’individuo contro le ingerenze arbitrarie dei pubblici poteri ”, garantendo il rispetto della vita familiare, inclusiva altresì del rispetto delle relazioni reciproche tra individui, tra cui le relazioni tra genitore non convivente e figli.

A tal fine, l’articolo in oggetto “…non si limita a imporre allo Stato di astenersi da simili ingerenze: a questo impegno piuttosto negativo possono aggiungersi obblighi positivi inerenti a un rispetto effettivo della vita privata o famigliare”. Tra tali misure positive la Corte individua anche “…la predisposizione di strumenti giuridici adeguati e sufficienti ad assicurare i legittimi diritti degli interessati, nonché il rispetto delle decisioni giudiziarie ovvero di misure specifiche appropriate…idonee a riunire genitore e figlio, anche in presenza di conflitti fra i genitori”, richiamando sul punto una sua sterminata giurisprudenza (ex multis, Ignaccolo-Zenide c. Romania, n. 31679/96, § 108, CEDU 2000 I, Sylvester c. Austria, nn. 36812/97 e 40104/98, § 68, 24 aprile 2003). Tali obblighi positivi, chiarisce la Corte, “…non implicano solo che si vigili affinché il minore possa raggiungere il genitore o mantenere un contatto con lui, bensì comprendono anche tutte le misure propedeutiche che consentono di giungere a tale risultato.

Fondamentale poi, ad avviso della Corte, ai fini dell’adeguatezza delle predette misure è la rapidità con cui le stesse vengano attuate “…in quanto il trascorrere del tempo può avere conseguenze irrimediabili per le relazioni tra il minore e il genitore che non vive con lui”. Di contro, l’infruttuosità delle misure adottate al fine di riunificare padre e figlio non comportano automaticamente la violazione da parte dello Stato membro degli obblighi ex art. 8 CEDU e ciò in considerazione, da un lato, del carattere non assoluto di tale diritto e, dall’altro, dalla necessità di considerare altresì il comportamento e la comprensione tenuta da tutte le persone coinvolte nel caso concreto. Di fatti, alle autorità non è consentito, se non in via del tutto residuale e limitata, l’utilizzo della coercizione, dovendo le stesse tenere sempre in primaria e prevalente considerazione il diritto superiore del minore. Al fine di giudicare la legittimità dell’azione delle istituzioni, dunque, si dovrà verificare da un lato l’adozione di “…tutte le misure neessarie che ragionevolmente era possibile attendersi da loro per mantenere i legami tra il ricorrente e suo figlio…” (sul punto si veda anche Manuello e Nevi c. Italia, n°107/10, § 52, 20 gennaio 2015) e, dall’altro, “…esaminare il modo in cui le autorità sono intervenute per agevolare l’esercizio del diritto di visita del ricorrente come definito dalle decisioni giudiziarie (sul punto Kuppinger c. Germania, n. 62198/11, § 105, 15 gennaio 2015).

Applicazione di questi principi al presente caso

Passando poi all’applicazione dei suddetti principi, la Corte ritiene necessario distinguere tra due periodi distinti.

Nel primo periodo, compreso tra la separazione iniziale e la manifestazione da parte del padre della volontà di non esercitare più il diritto di visita, la Corte ha ritenuto che il diritto di visita del ricorrente sia stato gravemente pregiudicato dall’operato delle autorità, le quali, nonostante fossero consapevoli del comportamento consapevolmente ostruzionistico tenuto dalla madre, non avevano posto in essere misure idonee ed adeguate a “…creare le condizioni necessarie alla piena realizzazione del diritto di visita del padre” e “…misure utili ai fini dell’instaurazione di contatti effettivi”. In particolare la Corte, pur riconoscendo le elevate difficoltà del caso di specie a seguito della conflittualità acerrima tra i genitori, ha ritenuto che la mancanza di cooperazione tra gli stessi “…non possa dispensare le autorità competenti dall’utilizzare tutti gli strumenti atti a consentire il mantenimento del legame familiare” (si vedano Fourkiotis c. Grecia n. 74758/11 § 72, 16 giugno 2016).

Per quanto attiene invece al secondo periodo, terminante con la presentazione del ricorso dinnanzi alla Corte, la stessa ha ritenuto insussistente la violazione dell’art. 8 CEDU in quanto i servizi sociali, incaricati dal Tribunale di vigilare sulla questione, avrebbero profuso “…tutti gli sforzi che si poteva ragionevolmente attendersi da loro per garantire il rispetto del diritto di visita del ricorrente, conformemente alle esigenze del diritto al rispetto della vita familiare garantito dall’articolo 8 della Convenzione”. Di contro, invece, sarebbe stato proprio il padre ad assumere da allora “…un atteggiamento negativo poiché ha prima annullato diversi incontri e poi ha deciso di non partecipare più alle visite”.

Da ultimo, la Corte rigetta la richiesta di risarcimento del danno morale presentata dal ricorrente, ritenendo “…che la constatazione di una violazione fornisce di per sé un’equa soddisfazione sufficiente per qualsiasi danno morale eventualmente subito…”.

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downloadCari amici Gengle,

di recente alcuni di voi mi hanno chiesto di spiegare quali possono essere le “giuste” armi da usare al fine di convincere il proprio ex inadempiente a versare il mantenimento dovuto per i figli. Nelle prossime righe proverò a fornirvi una risposta quanto più esauriente, distinguendo tra tutela penale e civile.

È necessario ricorrere subito dinnanzi al Tribunale?

No. In generale consiglio, come primo passo, di fare inviare una lettera di diffida e messa in mora, invitando il genitore inadempiente a versare il mantenimento arretrato, comprensivo di rivalutazione I.S.T.A.T. Molto spesso, infatti, l’effetto dissuasivo della lettera del vostro legale di fiducia potrebbe sortire gli stessi effetti con notevole risparmio di tempo e di denaro.

NB: per quanto attiene alla rivalutazione I.S.T.A.T. è importante che vi ricordiate che la stessa, se non richiesta tempestivamente, si prescrive nell’arco di 5 anni.

E se il mio ex non risponde o si rifiuta?

In tal caso, in virtù del provvedimento del Tribunale che regolamenta il mantenimento, sarà possibile agire in via esecutiva contro il vostro. A tal fine occorrerà notificargli dapprima un precetto di pagamento e successivamente scegliere tra gli strumenti individuati dal legislatore, quali il pignoramento dei suoi conti correnti, il pignoramento mobiliare ovvero immobiliare.

E se l’esecuzione è infruttuosa?

Se le azioni esecutive non hanno dato i frutti sperati non temete! Di recente, infatti, è stato istituito un apposito Fondo di solidarietà a tutela del coniuge in stato di bisogno, a cui è possibile accedere. Occorre però sottolineare come tale possibilità risulta allo stato “ristretta” esclusivamente ai soli coniugi separati. Ulteriore aspetto problematico riguarda la capienza del fondo, pari a soli ad euro 250.000 per l’anno 2016 ed euro 500.000 per l’anno 2017. Sul punto vi rimando al mio precedente articolo dedicato proprio a questo Fondo.

Ci sono rimedi per prevenire futuri inadempimenti?

Ci sono anche rimedi previsti dal codice civile al fine di garantire l’esatto adempimento delle obbligazioni di mantenimento, quale, ad esempio, richiedere al giudice di disporre l’ordine diretto di pagamento al terzo debitore del coniuge inadempiente. Questi terzi, di solito, sono il datore di lavoro dell’ex ovvero il conduttore di un appartamento di sua proprietà. L’importante è che il terzo sia un debitore di una somma determinata, indipendentemente dal fatto che sia una prestazione periodica o meno. Il presupposto, come chiarito dalla Corte di Cassazione (tra le tante Cass. n°23668/06), al fine di poter ottenere un ordine di pagamento diretto, consiste nell’idoneità del comportamento dell’ex inadempiente a suscitare dubbi sull’esattezza e regolarità del versamento in futuro del mantenimento.

In caso di inadempienza, inoltre, è possibile ottenere il sequestro dei beni dell’ex obbligato al mantenimento ai sensi dell’art. 156, comma 6 c.c.. Il vantaggio, rispetto al sequestro conservativo, è la necessità di dimostrare unicamente il fatto oggettivo dell’inadempimento, a prescindere dunque dalla dimostrazione del periculum in mora, ovvero la prova della gravità dell’inadempimento e/o l’intento di sottrarsi all’obbligo. Requisito necessario, tuttavia, è che vi sia già un provvedimento del giudice che stabilisca l’assegno di mantenimento.

Qualora poi l’ex inadempiente sia proprietario di beni immobili, sarà possibile procedere all’iscrizione di ipoteca giudiziale sul bene, garantendo così il mantenimento futuro.

L’inadempimento può essere sanzionato penalmente?

Per alcune persone il rischio di una condanna penale è un deterrente ben più forte rispetto alle tutele civilistiche. Il nostro codice penale, all’art. 570 c.p., prevede, infatti, la possibilità di condannare il coniuge in caso di violazione degli obblighi di assistenza familiare. Detto articolo, al comma 1, statuisce infatti che: “Chiunque abbandona il domicilio domestico o, comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla responsabilità genitoriale o alla qualità di coniuge, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da centrotre a milletrentadue euro.” Il successivo comma 2 chiarisce che “Le dette pene si applicano congiuntamente a chi: 1) malversa o dilapida i beni del figlio minore o del coniuge; 2) fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia legalmente separato per sua colpa”.

Occorre però fare un’ulteriore precisazione. La Corte di Cassazione, con sentenza del 19 gennaio 2017 n°2666, pronunciandosi sulla richiesta di condanna di un ex non sposato per il parziale versamento del mantenimento per il figlio minore, ha ritenuto l’art. 570, co. 2, c.p. non applicabile ai genitori non coniugati.

Occorre altresì rilevare che, per venire condannato, il coniuge deve essere stato mosso dalla volontà di non adempiere e l’inadempimento deve essere considerato di non scarsa rilevanza.

È possibile fare sanzionare il genitore inadempiente anche in sede civile?

Certamente. L’art. 709 ter c.p.c. prevede, infatti, che “…In caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore odo ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento, può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente:

1) ammonire il genitore inadempiente;

2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore;

3) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro;

4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 a favore della Cassa delle ammende.

E se il mio ex vuole trasferirsi all’estero per sottrarsi all’obbligo di mantenimento?

Non temete! Il genitore inadempiente è solito recarsi all’estero, la revoca del suo passaporto potrebbe essere un’arma decisamente efficace. L’art. 12, secondo comma, della legge 21 novembre 1967, n. 1185 e successive modifiche dispone infatti che: “Il passaporto è altresì ritirato quando il titolare si trovi all’estero e, ad istanza degli aventi diritto, non sia in grado di offrire la prova dell’adempimento degli obblighi alimentari […] che riguardino i discendenti di età minore…”. A tal fine basterà non dare il proprio consenso al rilascio del passaporto o, qualora sia già stato dato, revocare il proprio consenso attraverso una semplice dichiarazione in questura. Quest’ultima dovrà individuare puntualmente l’inadempimento e il rischio di fuga e terminare con una dichiarazione del seguente tenore: “revoco il mio assenso all’espatrio del sig./della sig.ra ____ e chiedo il ritiro del passaporto, l’inibitoria all’utilizzo di ogni documento riconosciuto equipollente al passaporto ai fini dell’uscita dal territorio della Repubblica italiana, nonché l’adozione di ogni provvedimento atto ad impedirne l’uscita dal territorio nazionale”.

Questo strumento, ancora poco usato, può avere in numerosi casi un’importante effetto deterrente, inducendo il genitore inadempiente a versare il mantenimento.

La violazione degli obblighi di mantenimento ha effetti sull’affido?

Infine, la violazione costante degli obblighi di mantenimento potrebbero legittimare l’affido superesclusivo del figlio minore all’altro genitore ai sensi dell’art. 337 quater c.c., come recentemente ribadito dal Tribunale di Modena, con sentenza del 26 gennaio 2016

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Welpe im ScheidungskriegChi ha un cane o un animale domestico lo sa, l’amore che si prova per i nostri amici a quattro zampe va oltre l’immaginabile. E quando ci si lascia, aimè, decidere chi e come potrà vedere e tenere con sé l’amato “Fido” sta diventando sempre più motivo di litigio tra gli ex.

Purtroppo queste problematiche non hanno ancora avuto una risposta chiara dal nostro legislatore. Da anni, infatti, è ferma in parlamento una proposta di legge volta ad applicare agli animali domestici la stessa disciplina che il nostro codice prevede per l’affidamento dei figli minori. L’auspicata riforma prevede, infatti, l’introduzione nel nostro codice civile dell’art. 455-ter c.c., rubricato affido degli animali familiari in caso di separazione dei coniugi” che così recita: “In caso di separazione dei coniugi, proprietari di un animale familiare, il Tribunale, in mancanza di un accordo tra le parti, a prescindere dal regime di separazione o di comunione dei beni e a quanto risultante dai documenti anagrafici dell’animale, sentiti coniugi, i conviventi, la prole e, se del caso, esperti di comportamento animale, attribuisce l’affido esclusivo o condiviso dell’animale alla parte in grado di garantire il maggior benessere. Il Tribunale è competente a decidere in merito all’affido di cui al presente comma anche in caso di cessazione della convivenza more uxorio”.

Nel mentre crescono le cause promosse dinnanzi ai tribunali da ex che si contendono gli animali domestici. Interessante, a riguardo, è una recente sentenza del Tribunale civile di Roma, n°5322 del 12-15 marzo 2016.

La vicenda sottoposta al giudice romano trae origine dal ricorso presentato da una signora avverso l’ex compagno – il quale, dopo alcuni anni dalla rottura della loro relazione sentimentale, le avrebbe sottratto il suo cane – al fine di vederlo condannare alla sua restituzione nonché al risarcimento dei danni subiti e dalla stessa quantificati in ben € 15.000,00. Ad avviso della ricorrente, infatti, il cane – di sua esclusiva proprietà, come attestato dal cip e dall’iscrizione a suo nome nell’anagrafe canina – le sarebbe stato sottratto dall’ex il quale, dopo averlo chiesto per un fine settimana, si sarebbe rifiutato di riconsegnarlo.

Si costituiva in giudizio l’ex compagno negando che il cane fosse di esclusiva proprietà della ricorrente (l’iscrizione a nome dell’attrice sarebbe dipesa solo da questioni di opportunità essendo la stessa la sola residente nel comune di Roma), sostenendo che, dalla data della separazione, l’animale domestico era sempre stato con sé nella sua nuova residenza e chiedendo, a sua volta, la condanna della controparte al risarcimento dei danni.

Il Tribunale, investito della questione, preliminarmente chiarisce come, nel caso di specie, l’assenza di un dettato normativo imponga al giudice di “creare un principio giuridico” attraverso l’applicazione analogica della disciplina dettata dal legislatore in tema affidamento di figli minori, così come già avvenuto negli unici due precedenti giurisprudenziali, rispettivamente del Tribunali di Foggia e Cremona.

In particolare, detti Tribunali avevano disposto in due cause di separazione tra coniugi rispettivamente l’affidamento esclusivo dell’animale ad uno dei coniugi e il diritto di visita all’altro e, nella seconda, l’affidamento condiviso dell’animale, basandosi unicamente sulla tutela dell’interesse privilegiato materiale-spirituale-affettivo dell’animale.

Ad avviso del Tribunale di Roma, inoltre, detta interpretazione ben può essere applicata anche alla separazione di fatto di coppie non coniugate, alla luce dell’intervenuta equiparazione della tutela dei figli nati dentro e fuori del matrimonio e della proposta di legge da tempo pendente in parlamento, volta all’introduzione del sopra richiamato art. 455 ter c.c..

Ad avviso del Tribunale, inoltre, la proprietà formale del cane non rileverebbe, dovendo il suo affidamento (condiviso ed esclusivo) basarsi solo sul legame d’amore esistente con il/i proprietari e, dunque, sul suo superiore interesse.

 Il Tribunale, pertanto, conclude:

  • disponendo l’affido condiviso dell’animale al 50%, con collocamento alternato ogni 6 mesi e “…facoltà per la parte che nei sei mesi non l’avrà con sé, di vederlo e tenerlo due giorni la settimana, anche continuativi, notte compresa…” nonché la divisione al 50% delle spese per il suo mantenimento;
  • rigettando le domande di risarcimento delle parti, rimaste prive di prova;
  • condannando il convenuto alle spese del giudizio, a seguito del suo comportamento “…che ha impedito all’attrice di vedere il cane in questi ultimi anni, privandola di un affetto fortemente percepito, e privandone lo stesso cane, tanto da costringerla ad un’azione giudiziaria”.

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Welpe im ScheidungskriegIl Tribunale civile di Roma, con sentenza n°5322 del 12/15 marzo 2016, ha applicato per la prima volta la disciplina dell’affidamento condiviso ad un cane conteso da due ex conviventi more uxorio.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da una signora avverso l’ex compagno, il quale le avrebbe sottratto il suo cane dopo alcuni anni dalla rottura della loro relazione sentimentale, al fine di vederlo condannare alla sua restituzione nonché al risarcimento dei danni subiti e dalla stessa quantificati in ben € 15.000,00. Ad avviso della ricorrente, infatti, il cane – di sua esclusiva proprietà, come attestato dal cip e dall’iscrizione a suo nome nell’anagrafe canina – le sarebbe stato sottratto dall’ex il quale, dopo averlo chiesto per un fine settimana, si sarebbe rifiutato di riconsegnarlo.

Si costituiva in giudizio l’ex compagno negando che il cane fosse di esclusiva proprietà della ricorrente (l’iscrizione a nome dell’attrice sarebbe dipesa solo da questioni di opportunità essendo la stessa la sola residente nel comune di Roma), sostenendo che, dalla data della separazione, l’animale domestico era sempre stato con sé nella sua nuova residenza e chiedendo, a sua volta, la condanna della controparte al risarcimento dei danni.

Il Tribunale, investito della questione, preliminarmente chiarisce come, nel caso di specie, l’assenza di un dettato normativo imponga al giudice di “creare un principio giuridico” attraverso l’applicazione analogica della disciplina dettata dal legislatore in tema affidamento di figli minori, così come già avvenuto negli unici due precedenti giurisprudenziali, rispettivamente del Tribunali di Foggia e Cremona.

In particolare, detti Tribunali avevano disposto in due cause di separazione tra coniugi rispettivamente l’affidamento esclusivo dell’animale ad uno dei coniugi e il diritto di visita all’altro e, nella seconda, l’affidamento condiviso dell’animale, basandosi unicamente sulla tutela dell’interesse privilegiato materiale-spirituale-affettivo dell’animale.

Ad avviso del Tribunale, inoltre, detta interpretazione ben può essere applicata anche alla separazione di fatto di coppie non coniugate, alla luce dell’intervenuta equiparazione della tutela dei figli nati dentro e fuori del matrimonio e della proposta di legge da tempo pendente in parlamento, volta all’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 455-ter c.c., rubricato affido degli animali familiari in caso di separazione dei coniugi” che così recita: “In caso di separazione dei coniugi, proprietari di un animale familiare, il Tribunale, in mancanza di un accordo tra le parti, a prescindere dal regime di separazione o di comunione dei beni e a quanto risultante dai documenti anagrafici dell’animale, sentiti coniugi, i conviventi, la prole e, se del caso, esperti di comportamento animale, attribuisce l’affido esclusivo o condiviso dell’animale alla parte in grado di garantire il maggior benessere. Il Tribunale è competente a decidere in merito all’affido di cui al presente comma anche in caso di cessazione della convivenza more uxorio”. Di fatti, ad avviso del Tribunale, “dal punto di vista del cane, che è l’unico che conta ai fini della tutela del suo interesse, non ha assolutamente alcuna importanza che le parti siano state sposate o meno”.

Il Tribunale, pertanto, conclude:

  • disponendo l’affido condiviso dell’animale al 50%, con collocamento alternato ogni 6 mesi e “…facoltà per la parte che nei sei mesi non l’avrà con sé, di vederlo e tenerlo due giorni la settimana, anche continuativi, notte compresa…” nonché la divisione al 50% delle spese per il suo mantenimento;
  • rigettando le domande di risarcimento delle parti, rimaste prive di prova;

condannando il convenuto alle spese del giudizio, a seguito del suo comportamento “…che ha impedito all’attrice di vedere il cane in questi ultimi anni, privandola di un affetto fortemente percepito, e privandone lo stesso cane, tanto da costringerla ad un’azione giudiziaria”.

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downloadCari amici Gengle, ritorniamo oggi su un argomento già trattato appena qualche settimana fa: il venir meno del diritto all’assegno divorzile in caso di nuova convivenza. Di recente, infatti, la Corte di Cassazione, sez. I^ civile, con ordinanza 5 dicembre 2016 – 8 marzo 2017, n°6009, è ritornata sull’argomento offrendo degli importanti chiarimenti.

La vicenda sottoposta alla Suprema Corte trae origine da una sentenza di divorzio con la quale il Tribunale di Rimini aveva negato ad un’ex moglie il diritto all’assegno divorzile, stante la sua pacifica convivenza con un nuovo compagno.

La donna impugnava la sentenza dinnanzi alla Corte d’Appello di Bologna che, accogliendo parzialmente il suo appello, le riconosceva un assegno divorzile, differenziando tra coabitazione e stabile convivenza. Ad avviso dei giudici di secondo grado, infatti, l’ex marito aveva provato unicamente la coabitazione dell’ex moglie con il nuovo compagno ma non anche “…la piena comunione spirituale e materiale…” tra i due.

Questa volta, tuttavia, è il marito a presentare ricorso, questa volta dinnanzi ai giudici della Cassazione, lamentando l’omessa giusta considerazione della comprovata pluriennale convivenza tra i due.

La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso, rileva l’esistenza di un’ipotesi di motivazione meramente apparente, affermando l’assoluta illogicità della distinzione tra mera coabitazione e convivenza more uxorio. Ad avviso della Corte, infatti, una volta comprovata la stabile convivenza – come nel caso di specie, in cui la resistente aveva per giunta da tempo trasferito a casa del compagno la propria residenza anagrafica – non può ragionevolmente porsi sull’ex coniuge obbligato al mantenimento anche “…l’onere di dimostrare il grado di intimità che intercorre tra la coppia”. In altre parole, basta la prova della convivenza con altro uomo per far venir meno il diritto all’assegno divorzile.

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