[:it]La VI^ sezione della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 1072/2018 chiarisce quando un coniuge in caso di separazione ha diritto alla restituzione della metà delle rate del mutuo che egli ha versato per intero, non ricorrendo la fattispecie dell’accollo interno.

 

La vicenda nasce dalla Corte d’Appello di L’Aquila che accoglieva l’appello proposto da M.A., ex moglie di G.L., contro la sentenza di primo grado che l’aveva condannata a restituire al suo ex marito le rate di un mutuo ipotecario che i coniugi avevano stipulato per l’acquisto della casa familiare.

Nonostante fosse intervenuta la separazione dei coniugi ed il conseguente scioglimento della comunione legale, infatti, l’ex marito aveva continuato a pagare esclusivamente e per intero le rate del mutuo ipotecario.

Per la Corte d’ Appello, il provvedimento presidenziale che aveva stabilito in via provvisoria le condizioni economiche del divorzio, anche se non aveva posto a carico dell’ex marito l’obbligo di pagamento delle rate del mutuo, come misura sostitutiva dell’assegno divorzile, si fondava sulla premessa di un’assunzione volontaria di tale impegno da parte del marito; impegno che veniva qualificato come accollo interno, in base al quale l’ex marito non aveva diritto alla restituzione, non rilevando invece che la sentenza che aveva dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio avesse respinto la domanda della moglie volta a ottenere la corresponsione di un assegno divorzile.

L’ex marito, vista la sentenza della Corte d’Appello, propone ricorso per Cassazione, deducendo, in particolare, violazione degli artt. 1273, 1322, 1326, 1362 e 1299 c.c..

Il ricorrente si doleva del fatto che il giudice a quo avesse desunto erroneamente la prova della volontà del ricorrente di accollarsi per intero le rate del mutuo solo dalla premessa del provvedimento presidenziale, rilevando che la manifestazione di tale pretesa volontà non risultava in nessun verbale precedente.

La Suprema Corte, nell’accogliere l’impugnazione dell’ex marito, osserva che la prova dell’accollo non può e non deve desumersi dalle mere premesse di un provvedimento. Ciò ancor di più con riferimento al caso di specie, in cui il provvedimento:

  • era addirittura temporaneo e quindi destinato ad esaurire i suoi effetti col passaggio in giudicato della sentenza di divorzio;
  • non solo conteneva alcuna statuizione a riguardo, ma ometteva addirittura di dare atto delle modalità attraverso le quali il ricorrente avrebbe manifestato l’effettiva volontà di assumere per l’intero l’obbligazione di pagamento.

Gli Ermellini, chiariscono altresì che la motivazione della sentenza impugnata deve considerarsi meramente apparente in quanto:

  • basata solo su un’interpretazione del provvedimento presidenziale, totalmente sganciata dalla valutazione dei fatti;
  • la prova in questione, di contro, avrebbe dovuto essere tratta da elementi documentali.

Articolo redatto dalla dott.ssa Maria della Pietra

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a9ca56cc71bfe3ce1a405ec2c7699cf4La II^ sezione del Tribunale Civile di Bergamo, con decreto del 26 settembre 2018, ha chiarito che, nonostante la mancanza di un’espressa previsione in tal senso da parte della legge n°3/2012, tra i soggetti che posso accedere alle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento debba annoverarsi anche la famiglia, intesa come “…ente collettivo costituito dai debitori appartenenti alla famiglia in crisi da sovraindebitamento”, e ciò, “…in particolare quando lo squilibrio finanziario derivi proprio dalla gestione della vita in comune dei suoi membri”.

Nel caso di specie, Il Tribunale lombardo aveva disposto la riunione delle due procedure, introdotte dai coniugi con due distinti ricorsi, in cui ognuno aveva chiesto, la liquidazione del loro patrimonio ex artt. 14 ter e segg. L. 3/12 come modificata dal D.L. 179/12, alla luce:

  • di ragioni di economia processuale;
  • della circostanza che la maggior parte dei debiti riguardava obbligazioni solidali dei due coniugi;
  • del fatto che la maggior parte dei beni immobili costituenti il patrimonio immobiliare dei coniugi era in comproprietà tra gli stessi.

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downloadLa Suprema Corte di Cassazione, a distanza di quasi quattro anni dalla sentenza n°24843 del 21 novembre 2014, è tornata a pronunciarsi sulla validità dei contratti di locazione ad uso non abitativo in caso di nullità della clausola di durata, a seguito della previsione da parte dei contraenti di un termine inferiore al sessennio.

Il fatto di cui è causa

Con ricorso ex art. 615 c.p.c., co. 2, i conduttori di un immobile commerciale proponevano opposizione all’esecuzione intrapresa in loro danno per il rilascio dello stesso, deducendo l’improcedibilità della predetta ex art. 34 della legge n°392/78 e chiedendo, pertanto, l’accertamento del loro diritto a ricevere un’indennità di avviamento.

I locatori, costituitisi, chiedevano il rigetto delle opposte doglianze eccependo, in particolare, la presenza di clausole contrattuali con cui:

  • le parti avevano espressamente convenuto la non applicabilità degli articoli 36, 30-40 della legge n°392/78 al contratto inter partes;
  • le parti avevano determinato in 2 anni, tacitamente rinnovabili, la durata del contratto locatizio;
  • i conduttori avevano rinunciato, alla scadenza contrattuale, a qualsiasi indennità a titolo di perdita di avviamento;
  • le parti avevano convenuto che la nullità delle predette clausole, ai sensi dell’art. 1419, co. 1 c.c., avrebbe comportato la nullità dell’intero contratto.

Il Tribunale di Taranto, investito della questione, dichiarava cessata la materia del contendere alla luce dell’avvenuto rilascio, medio tempore, del locale, rigettando la domanda degli opponenti in punto di indennità di avviamento. La decisione veniva confermata anche in sede di appello.

Gli opponenti decidevano tuttavia di ricorrere per cassazione eccependo l’erronea applicazione dell’art. 1419 c.c.

La decisione della Suprema Corte

Gli ermellini, investiti della questione, ritengono fondato detto motivo, cassando con rinvio alla Corte d’appello di Lecce, alla luce della seguente condivisibile argomentazione:

  • il I^ comma dell’art. 1419 c.c. “…prevede che la nullità parziale o della singola clausola non comporti la nullità totale del contratto cui accede, salvo che non risulti che i contraenti non avrebbero concluso il regolamento negoziale senza quella parte colpita da nullità…”;
  • l’essenzialità della clausola, ai sensi del comma I^ deve essere valutata in senso oggettivo;
  • il II^ comma dell’art. 1419 c.c., disciplinante il fenomeno della conservazione del contratto tramite l’inserzione ex lege delle clausole nulle, costituisce “un’eccezione al campo di operatività del primo, limitato, appunto, dalla presenza di clausole contrattuali imposte ex lege e non derogabili nemmeno sotto l’habitus dell’essenzialità”, determinando un’automatica eterointegrazione del contratto, giustificante la limitazione dell’autonomia contrattuale alla luce “…di un’esigenza sociale ritenuta meritevole di tutela preferenziale”;
  • una giurisprudenza costante ha chiarito da tempo che il predetto comma 2 dell’art. 1419 c.c. si riferisce “…all’ipotesi in cui specifiche disposizioni, oltre a comminare la nullità di determinate clausole contrattuali, ne impongano anche la sostituzione con una normativa legale, mentre tale disposizione non si applica qualora il legislatore, nello statuire la nullità di una clausola o di una pattuizione, non ne abbia espressamente prevista la sostituzione con una specifica norma imperativa”;
  • a ciò consegue la piena operatività del comma 2 nel caso di specie atteso che a norma della L. n. 392 del 1978, art. 27, comma 4, ove in una locazione non abitativa sia convenuta una durata inferiore a quella legale, ‘la locazione si intende pattuita per la durata rispettivamente prevista nei commi precedenti’”.
  • Cass. civ. Sez. III, ordinanza n. 20974 del 23 agosto 2018

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[:it]downloadLe Sezioni Unite ritornano sull’annosa questione della (in)validità del contratto di locazione immobiliare di cui sia stata omessa la registrazione.

Il primo grado di giudizio

La vicenda trae origine dall’intimazione di sfratto per morosità, con contestuale citazione per la convalida, notificato dalla proprietaria di due immobili concessi in locazione ad uso commerciale ad una società con contratto del 20 ottobre 2008, registrato in data 4 novembre 2008, nel quale le parti avevano convenuto la sua efficacia retroattiva al 1° maggio dello stesso anno. La locatrice lamentava altresì il ritardato pagamento di due canoni nonché il mancato pagamento del maggior prezzo convenuto inter partes con un c.d. “atto integrativo” del contratto di locazione, registrato in data 22 gennaio 2009, in cui venivano indicati due diversi canoni, entrambi superiori a quelli risultanti nel contratto registrato:

  • un primo, pari ad € 5.500,00, definito “reale ed effettivo”, “…che avrebbe dovuto trovare applicazione nel caso che una o entrambe le parti avessero proceduto alla registrazione dell’accordo integrativo”;
  • il secondo, ridotto rispetto al primo ma maggiorato rispetto al prezzo indicato nel contratto registrato, “…sarebbe stato corrisposto dal conduttore nell’ipotesi di omessa registrazione del medesimo accordo…”.

Si costituiva in giudizio la conduttrice contestando la validità dell’accordo integrativo per violazione dell’art. 79, L. n°392/1978, oltre che tardivamente registrato.

Il giudice di primo grado, rigettata l’istanza ex art. 655 c.p.c., dopo aver disposto il mutamento del rito, statuiva che:

  • era esclusa l’inefficacia del contratto per intempestiva registrazione;
  • era da considerarsi nulla la pattuizione aggiuntiva “…in quanto contenente la illegittima previsione di un aumento automatico del canone…”;
  • a seguito dell ritardo del pagamento di due canoni, espressamente previsto contrattualmente quale causa di risoluzione, dichiarava risolto il contratto di locazione

Il giudizio dinnanzi alla Corte d’Appello

La conduttrice, impugnava detta sentenza:

  • rilevando che il ritardo nei pagamenti dei due canoni era ascrivibile all’istituto bancario, in quanto la stessa avrebbe tempestivamente disposto i bonifici, i quali, tuttavia, sarebbero stati accreditati dall’istituto oltre il termine contrattualmente previsto, invocando pertanto l’operatività dei principi di correttezza e buona fede;
  • chiedendo la riforma dell’impugnata sentenza, “…previa conferma della validità del (solo) contratto di locazione stipulato il 20 ottobre 2008”.

La Corte d’appello, investita della questione:

  • riteneva, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante e dal Tribunale, che “…la previsione contrattuale aggiuntiva di cui all’art. 2 del patto integrativo – registrato prima dell’introduzione del giudizio e ritenuto efficace dal primo Giudice con motivazione espressa e non censurata – valeva a configurarsi alla stregua di controdichiarazione attestante la simulazione relativa del prezzo, posta in essere per intuibili scopi di elusione fiscale”;
  • osservava che non era configurabile un illecito aumento dei canoni, nullo ex art. 79 L. n°392/78, “…in quanto il complesso regolamento delle rispettive posizioni patrimoniali operato dalle parti conduce(va) a ritenere di essere dinanzi ad un canone di locazione fissato sin da subito in € 5500 mensili: ne fa(ceva) fede il fatto che il contratto sottoscritto il 20 ottobre 2008 facesse retroagire i suoi effetti al primo maggio dello stesso anno, con la previsione di uno sconto in ragione della mancata registrazione dell’effettivo importo contrattuale”;
  • affermava essersi in presenza di “…un contratto sottoposto a condizione sospensiva – pienamente lecita ed anzi imposta – afferente alla misura del canone e legata alla registrazione del contratto reale”;
  • confermava pertanto la risoluzione per inadempimento del contratto di locazione;
  • condannava la società al pagamento delle differenze dovute tra canone corrisposto e quello effettivamente dovuto, pari ad € 5.500,00, in forza della scrittura integrativa.

Il ricorso per cassazione

La conduttrice, non si rassegnava, ricorrendo fino in cassazione. Depositava altresì controricorso la locatrice.

La Corte, investita della questione, si sofferma in particolare sugli effetti di un tardivo adempimento all’obbligo di registrazione del contratto di locazione, alla luce dei recenti interventi normativi.

Le riforme legislative e le interpretazioni giurisprudenziali con riferimento alle locazioni ad uso abitativo

In particolare, la Corte ripercorre nel dettaglio le numerose riforme legislative susseguitesi negli anni soffermandosi preliminarmente su quelle che hanno avuto ad oggetto le locazioni ad uso abitativo:

  • l’art. 13, co. 1, L. 431/98, ai sensi del quale “…è nulla ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione di immobili urbani superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato”;
  • l’art. 1, co. 346, L. 311/2004, ai sensi del quale “…i contratti di locazione, o che comunque costituiscono diritti relativi di godimento, di unità immobiliari ovvero di loro porzioni, comunque stipulati, sono nulli se, ricorrendone i presupposti, essi non sono registrati”;
  • l’art. 3, commi 8 e 9 del d.lgs. 23/2011, il quale, ancorché non più vigente in quanto dichiarato incostituzionale per eccesso di delega, prevedeva “…un particolare regime in caso di omessa o tardiva registrazione del contratto di locazione, nonché in caso di registrazione di un contratto di comodato fittizio e di una locazione recante un canone inferiore rispetto a quello realmente pattuito: la durata del rapporto avrebbe dovuto essere legalmente rideterminata in quattro anni rinnovabili decorrenti dal momento della registrazione tardiva e il canone annuale veniva predeterminato nella misura del triplo della rendita catastale dell’immobile, ove inferiore a quella pattuita…”;
  • l’art. 1, comma 59, L. 208 del 28 dicembre 2015, il quale, recependo il contenuto del d.lgs. 23/2011, ha novellato l’art. 13 della l. 431/98, introducendo le seguenti significative modifiche: – al comma 5, “…il meccanismo di sanzione della mancata registrazione del contratto di locazione mediante la determinazione autoritativa del canone imposto, di cui all’art. 3, comma 8, d.lgs. 23 del 2011…”, nonché la previsione del “…l’obbligo unilaterale in capo al locatore di provvedere alla registrazione del contratto di locazione entro il ‘termine perentorio di trenta giorni’ (comma 1, secondo periodo) stabilendo che, in caso di inottemperanza a tale obbligo, il conduttore possa chiedere al giudice di accertare la esistenza del contratto e rideterminarne il canone in misura non superiore al valore minimo di cui al precedente art. 2”.

Una volta chiarita l’esistenza della “sanzione testuale della nullità conseguente alla omessa registrazione…”, la Corte si interroga sulla sanabilità (o meno) del negozio attraverso la tardiva registrazione, alla luce dell’art. 1423 c.c., che dispone che “…il contratto nullo non può essere convalidato, se la legge non dispone diversamente”.

La Corte, dopo aver ripercorso la giurisprudenza costituzionale e di legittimità, confermando l’orientamento di cui alla sentenza n°18213/2015 delle stesse SS.UU. in punto di locazioni ad uso abitativo, affermano:

  • che “…la nullità prevista dall’art. 13, comma 1, della l. n. 431 del 1998 sanziona esclusivamente il patto occulto di maggiorazione del canone, oggetto di un procedimento simulatorio, mentre resta valido il contratto registrato e dovuto il canone apparente”;
  • tale patto occulto “…in quanto nullo, non è sanato dalla registrazione tardiva, vicenda extranegoziale inidonea ad influire sulla testuale (in)validità civilistica…”;
  • non la mancata registrazione dell’atto recante il prezzo reale …, ma la illegittima sostituzione di un prezzo con un altro, espressamente sanzionata di nullità, è colpita dalla previsione legislativa, secondo un meccanismo del tutto speculare a quello previsto per l’inserzione automatica di clausole in sostituzione di quelle nulle: nel caso di specie, l’effetto diacronico della sostituzione è impedito dalla disposizione normativa, sì che sarà proprio la clausola successivamente inserita in via interpretativa attraverso la controdichiarazione ad essere affetta da nullità ex lege, con conseguente, perdurante validità di quella sostituenda (il canone apparente) e dell’intero contratto”;
  • Detta invalidità negoziale assume i connotati della nullità virtuale “…attesa che la causa concreta del patto occulto, ricostruita alla luce del precedente procedimento simulatorio, illecita perché caratterizzata dalla vietata finalità di elusione fiscale e, quindi, insuscettibile di sanatoria…”.

L’applicabilità dei suddetti principi anche alle locazioni non abitative

La Suprema Corte afferma la piena applicabilità dei suddetti principi anche alle locazioni non abitative, e ciò nonostante manchi per le locazioni non abitative “…una norma espressa che sancisca la nullità testuale del patto di maggiorazione del canone, come invece espressamente previsto dall’art. 13 della legge 492/1998”:

  • alla luce della chiara lettera della disposizione normativa, che “…non solo ha reiterato la qualificazione del vizio in quegli stessi termini di nullità già utilizzati dall’art. 13 L. n. 431 del 1998 con riferimento alle sole locazioni ad uso abitativo, ma ne ha anche ampliato l’incidenza, estendendola a tutti i contratti di locazione, e altresì riferendola all’intero contratto e non soltanto al patto occulto di maggiorazione del canone”;
  • alla luce del dictum della Corte costituzionale, a mente del quale “…a mente del quale l’art. 1, comma 346 eleva la norma tributaria al rango di norma imperativa, la violazione della quale determina la nullità del negozio ai sensi dell’art. 1418 c.c.

Ad avviso della Suprema Corte:

  1. si è in presenza di una nullità riguardante “…l’intero contratto(e non per il solo patto controdichiarativo), in conseguenza non già di un vizio endonegoziale, ma (della mancanza) di un requisito extraformale costituito dall’omissione della registrazione del contratto…”;
  2. il contratto di locazione ad uso non abitativo (non diversamente, peraltro, da quello abitativo), contenente ab origine la previsione di un canone realmente convenuto e realmente corrisposto (e dunque, in assenza di qualsivoglia fenomeno simulatorio), ove non registrato nei termini di legge, è nullo ai sensi dell’art. 1, comma 346, I. n. 311 del 2004, ma, in caso di sua tardiva registrazione, da ritenersi consentita in base alle norme tributarie, sanabile, volta che il riconoscimento di una sanatoria “per adempimento” appare coerente con l’introduzione nell’ordinamento di una nullità (funzionale) “per inadempimento” (entrambi i termini da intendersi, come ovvio, in senso diverso da quello tradizionalmente riservato al momento esecutivo del rapporto negoziale);
  3. detto effetto sanante “…è destinato a retroagire alla data della conclusione del contratto”.

La Corte, da ultimo, si interroga sull’applicabilità dei suddetti principi al caso di specie, “…e cioè all’ipotesi in cui la fattispecie concreta sia costituita da un accordo simulatorio cui consegua non già la tardiva registrazione dell’intero contratto che preveda, ab origine, la corresponsione del canone reale, ma quella del solo patto dissimulato (raccordo integrativo” del caso di specie) volto ad occultare un canone maggiore, dopo che il contratto contenente il canone simulato sia stato a sua volta e previamente registrato, sulla premessa per cui la sanatoria da tardiva registrazione elimina soltanto la nullità (testuale) sopravvenuta, lasciando impregiudicata la sorte del contratto qual era fino alla violazione dell’obbligo di registrazione (inidonea a spiegare efficacia sanante su di una eventuale nullità da vizio genetico)”.

Ad avviso della giudici transtiberini, infatti, si devono distinguere due ipotesi:

  • quella della “totale omissione della registrazione del contratto contenente ab origine l’indicazione del canone realmente dovuto (in assenza, pertanto, di qualsivoglia procedimento simulatorio)…”;
  • quella “…di simulazione del canone con registrazione del solo contratto simulato recante un canone inferiore, cui acceda il cd. “accordo integrativo” con canone maggiorato (ipotesi alla quale potrebbe ancora aggiungersi quella della mancata registrazione dello stesso contratto contenente il canone simulato, oltre che del detto accordo integrativo)”.

A ciò consegue che nell’ipotesi sub 1), di contratto in toto non registrato, è lo stesso legislatore a ricollegare la sanzione dell’invalidità al comportamento illecito del locatore, consistente nella mancata registrazione del contratto;

L’ipotesi sub 2), “…di un contratto debitamente registrato, contenente un’indicazione simulata di prezzo, cui acceda una pattuizione a latere (di regola denominata “accordo integrativo”, come nel caso di specie), non registrata e destinata a sostituire la previsione negoziale del canone simulato con quella di un canone maggiore rispetto a quello formalmente risultante dal contratto registrato…”, invece:

  • dovrà invece essere ricondotta all’istituto della simulazione, conformemente a quanto affermato dalle SS.UU. del 2015 con riferimento alle locazioni ad uso abitativo;
  • “…lafattispecie della simulazione (relativa) del canone locatizio risulta affetta da un vizio genetico, attinente alla sua causa concreta, inequivocabilmente volta a perseguire lo scopo pratico di eludere (seppure parzialmente) la norma tributaria sull’obbligo di registrazione dei contratti di locazione”;
  • a seguito dell’elevazione della norma tributaria a norma imperativa, pertanto, la convenzione negoziale deve essere ritenuta “…intrinsecamente nulla, oltre che per essere stato violato parzialmente nel quantum l’obbligo di (integrale) registrazione, anche perché ab origine caratterizzata da una causa illecita per contrarietà a norma imperativa (ex art. 1418, comma 1, c.c.), tale essendo costantemente ritenuto lo stesso articolo 53 Cost. – la cui natura di norma imperativa (come tale, direttamente precettiva) è stata, già in tempi ormai risalenti, riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 5 del 1985; Cass. ss. uu. n. 6445 del 1985)…”;
  • essendo detta nullità qualificabile come nullità virtuale a ciò consegue la sua insanabilità in quanto derivante “…non dalla mancata registrazione (situazione suscettibile di essere sanata con il tardivo adempimento), ma, a monte, dall’illiceità della causa concreta del negozio, che una tardiva registrazione non appare idonea a sanare”.

La sorte del contratto di locazione regolarmente registrato e contenente l’indicazione del canone simulato

Ciò chiarito, la Corte si interroga sulla sorte del contratto di locazione regolarmente registrato e contenente l’indicazione del canone simulato.

A riguardo la Corte preliminarmente richiama la soluzione offerta dalle SS.UU. del 2015 con riferimento ai contratti ad uso abitativo, ad avviso del quale, la sanzione della nullità prevista dall’art. 13, comma I, della legge n°431/1998 “…colpisse non la mancata registrazione dell’atto recante il prezzo reale (attesane la precipua funzione di controdichiarazione), ma la illegittima sostituzione di un prezzo con un altro, sicché “sarà proprio la clausola successivamente inserita in via interpretativa attraverso la controdichiarazione ad essere affetta da nullità ex lege, con conseguente, perdurante validità di quella sostituenda (il canone apparente) e dell’intero contratto”.

La Corte, successivamente, interpretando l’art. 79 della legge 392/1978 quale speculare all’art. 13 della legge n°431/1998, afferma che “se in caso di omessa registrazione del contratto contenente la previsione di un canone non simulato ci si trova di fronte ad una nullità testuale ex art. 1, comma 346, I. n. 311/2004, sanabile con effetti ex tunc a seguito del tardivo adempimento all’obbligo di registrazione, nel caso di simulazione relativa del canone di locazione, e di registrazione del contratto contenente la previsione di un canone inferiore per finalità di elusione fiscale, si é in presenza, quanto al cd. “accordo integrativo”, di una nullità virtuale insanabile, ma non idonea a travolgere l’intero rapporto – compreso, quindi, il contratto reso ostensibile dalle parti a seguito della sua registrazione”;

Conseguentemente, “il patto di maggiorazione del canone è nullo anche se la sua previsione attiene al momento genetico, e non soltanto funzionale, del rapporto”.

Le conclusioni della Corte

Ad avviso della Corte una tale conclusione:

  • ha l’effet util di ricondurre ad unità la disciplina della nullità e della (eventuale) sanatoria di tutti i contratti di locazione, abitativi e non;
  • giustifica una sanzione più grave (nullità insanabile) rispetto a quella prevista per l’omessa registrazione dell’intero contratto (sanabile), congrua rispetto al comportamento posto in essere nelle due ipotesi (“…vizio genetico e voluto da entrambe le parti nel primo caso, un inadempimento successivo alla stipula di un contratto geneticamente valido, nel secondo caso”).

«(A) La mancata registrazione del contratto di locazione di immobili è causa di nullità dello stesso;

 (B) Il contatto di locazione di immobili, quando sia nullo per (la sola) omessa registrazione, può comunque produrre i suoi effetti con decorrenza ex tunc, nel caso in cui la registrazione sia effettuata tardivamente;

(C) E’ nullo il patto col quale le parti di un contratto di locazione di immobili ad uso non abitativo concordino occultamente un canone superiore a quello dichiarato; tale nullità vitiatur sed non vitiat, con la conseguenza che il solo patto di maggiorazione del canone risulterà insanabilmente nullo, a prescindere dall’avvenuta registrazione[:]

[:it]Risultati immagini per immagine locazione casaL’art. 1, comma 346, L. 30/12/2004, n. 311, stabilisce che “i contratti di locazione (…) sono nulli se, ricorrendone i presupposti, non sono registrati”.

La lettera della legge non consente dubbi sul precetto che esprime, ovvero che un contratto di locazione non registrato è giuridicamente nullo.

E ciò, ad avviso della sentenza 13 dicembre 2016, n. 25503 della Corte di Cassazione, non solo per l’insuperabile argomento letterale, ma anche alla luce dell’autorevole lettura che della norma in esame ha dato la Corte costituzionale con la sentenza 5 dicembre 2007, n. 420, ove si afferma che la norma in esame ha elevato “la norma tributaria al rango di norma imperativa, la violazione della quale determina la nullità del negozio ai sensi dell’art. 1418 c.c.”.

Dal mancato rilievo della nullità del contratto da parte della Corte di Appello, afferma ancora la sentenza, sono scaturiti i seguenti ulteriori errori di diritto da parte del giudice del merito:

1) l’avere ritenuto applicabile al caso di specie l’art. 1458 c.c., norma che disciplina la risoluzione per inadempimento dei contratti di durata, e non gli effetti della nullità, i quali sono invece disciplinati dalle norme sull’indebito oggettivo, da quelle sul risarcimento del danno aquiliano (nel caso di sussistenza degli altri presupposti dell’illecito extracontrattuale), ovvero da quelle sull’ingiustificato arricchimento, come misura residuale;

2) l’avere equiparato l’obbligo di pagare il canone, scaturente dal contratto e determinato dalle parti, con l’obbligo di indennizzare il proprietario per la perduta disponibilità dell’immobile, scaturente dalla legge e pari all’impoverimento subito.

Ad avviso della Corte, invece, la prestazione compiuta in esecuzione d’ un contratto nullo costituisce indebito oggettivo, disciplinato dall’art. 2033 c.c.

L’eventuale irripetibilità di quella prestazione potrà attribuire al solvens, ricorrendone i presupposti, il diritto al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., od al pagamento dell’ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c. E’ quanto si legge nella sentenza n. 25503 del 13 dicembre 2016.

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Ove uno dei coniugi acquisti in regime di comunione o effettui la costruzione di un edificio su suolo comune ad entrambi, tanto il primo cespite quanto il secondo, diventano, pro quota, di proprietà di entrambi i coniugi.

Il coniuge rimasto estraneo alla formazione dell’atto deve ritenersi litisconsorte necessario nelle controversie in cui si chiede al giudice una pronuncia destinata ad incidere direttamente e immediatamente sul diritto costituente oggetto del trasferimento, dovendosi, viceversa, ritenere escluso tale litisconsorzio in tutte le vicende processuali volte ad ottenere una decisione che incida direttamente e immediatamente sulla validità o sulla efficacia del negozio traslativo (Cass. S.U. n°9660/2009).

Conseguentemente la domanda di demolizione di opere illegittimamente costruite sul fondo, proposta dal confinante nei confronti del proprietario del fondo contiguo, ha natura reale.

Nel caso in esame, essendo il confinante coniugato in regime di comunione legale sussiste il litisconsorzio necessario con il coniuge, in quanto l’eventuale accoglimento della domanda inciderebbe sul contenuto del diritto di proprietà dell’immobile e sulle facoltà di godimento e di disposizione di esso, di cui sono titolari entrambi i comproprietari del bene, a prescindere dall’autore dell’opera illegittimamente realizzata (v. Cass. n°8441/2008);

Per le suesposte ragioni, la Corte di Cassazione, con sentenza 28 aprile 2016 n°8468, ha accolto il ricorso con rinvio ad altro giudice territoriale.[:]

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Ribadisce la II sezione della Corte di Cassazione, con sentenza 11 marzo 2016, n. 4825 che il contratto di rendita vitalizia ha natura aleatoria, postulando l’esistenza di una situazione di incertezza circa il vantaggio o lo svantaggio economico che potrà alternativamente realizzarsi nello svolgimento e nella durata del rapporto.

Be consegue che il difetto di alea è riscontrabile ogni qual volta in cui l’entità della prestazione assicurata sia inferiore o pari ai frutti o agli utili ricavabili dal cespite dovuto, ovvero quando il beneficiario della rendita sia da ritenere prossimo alla morte per malattia o età: in tali ipotesi, il contratto è nullo per difetto di causa.

Nel caso in esame, il Giudice di legittimità ha ritenuto il contratto di carattere aleatorio, pur avendo accertato che il vitalizio era di poco superiore alla rendita ricavabile dall’immobile, limitandosi a considerare, da un lato, la possibilità di sopravvivenza della ricorrente (76 anni) rapportandola alla durata media della vita delle donne (83 anni), e dall’altro, l’importo della rendita vitalizia senza compiere una verifica circa il valore dell’immobile trasferito e la eventuale sproporzione rispetto alla rendita erogata in rapporto alla sopravvivenza del vitaliziando.

Invece, occorreva valutare se, anche considerando il protrarsi della vita della vitalizianda oltre quella media, sarebbe stato possibile determinare preventivamente i vantaggi derivanti dal contratto ovvero verificare se, al momento della conclusione del contratto, il rischio per il vitaliziante ed il vitaliziato fosse identico: il che sarebbe stato da escludere ove la prestazione posta a carico del primo non fosse stata tale da potere intaccare il valore rappresentato dal cespite trasferito.

In sostanza, la Corte di Appello non aveva tenuto conto della eventuale sproporzione – obiettivamente valutabile al momento della stipulazione del contratto- fra il valore acquisito dal vitaliziante (il trasferimento della proprietà dell’immobile) rispetto all’importo della rendita da corrispondere per la probabile durata della vita del vitaliziato: tale sproporzione, traducendosi in un evidente vantaggio per il primo,avrebbe dovuto indurre ad escludere l’aleatorietà del contratto, che consiste nella obiettiva incertezza sui vantaggi e i sacrifici reciprocamente derivanti alle parti dalle prestazioni.

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[:it]Cassazione Sezioni unite 16 febbraio 2016 n. 2951 – legittimazione, titolarità e onere della prova

Le Sezioni Unite – pronuncia 16 febbraio 2016 n. 2951 pur condividendo la distinzione tra legittimazione al processo e titolarità della posizione soggettiva oggetto dell’azione nonché l’affermazione per cui il problema della titolarità della posizione soggettiva attenga al merito della decisione, ritengano che la questione debba rientrare nel potere dispositivo delle parti e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata. Cioè a dire chi fa valere un diritto in giudizio, deve allegare che quel diritto gli appartiene e di conseguenza, sul piano probatorio, deve dimostrare che vi sono ragioni giuridiche che collegano il diritto alla sua persona. Ergo la parte che promuove un giudizio deve prospettare di essere parte attiva del giudizio (ai fini della legittimazione ad agire) e deve poi provare di essere titolare della posizione giuridica soggettiva che la rende parte.

Conseguentemente il convenuto, qualora non condivida l’assunto dell’attore in ordine alla titolarità del diritto, può limitarsi a negarla con una mera difesa e cioè con una presa di posizione negativa, che contrariamente alle eccezioni in senso stretto, non è soggetta a decadenza ex art. 167, secondo comma, c.p.c.. Invero, sebbene il primo comma della norma citata imponga al convenuto di proporre nella comparsa di risposta tutte le difese prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, tale disposizione, contrariamente a quanto sancito nel comma successivo, non prevede decadenza. Detta questione che non si risolva in un’eccezione in senso stretto può essere posta dal convenuto anche oltre quel termine, persino in appello e può essere sollevata d’ufficio dal giudice.

Ciononostante il comportamento processuale tenuto dal convenuto in comparsa di risposta può avere rilievo perché può servire a rendere superflua la prova dell’allegazione dell’attore in ordine alla titolarità del diritto. Ciò avviene qualora il convenuto riconosca il fatto posto dall’attore a fondamento della domanda oppure nel caso in cui articoli una difesa incompatibile con la negazione della sussistenza del fatto costitutivo. Tuttavia il semplice difetto di contestazione non impone un vincolo di meccanica conformazione in quanto il giudice può sempre rilevare l’inesistenza della circostanza allegata da una parte anche se non contestata dall’altra ove tale inesistenza emerga dagli atti e dal materiale probatorio raccolto.

Diverso è invece il caso in cui la parte sia rimasta contumace. Posto che l’art. 115 c.p.c. impone al giudice di porre a fondamento della decisione i fatti non specificamente contestati “dalla parte costituita”, il principio di non contestazione non viene esteso alla parte che non si è costituita, sicchè l’attore deve, in questo caso, fornire la prova dei fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio.

Superata la questione pregiudiziale, nel caso in esame, si chiede alla Corte di stabilire se, in caso di alienazione della proprietà, il diritto al risarcimento del danno spetti a colui che era proprietario al momento in cui il bene ha subito il danno ovvero a colui che è subentrato nella proprietà ed è titolare del diritto al momento della proposizione del giudizio.

Risponde la Corte che il diritto al risarcimento dei danni subiti da un bene spetta al titolare del diritto di proprietà sul bene al momento dell’evento dannoso. E’ un diritto autonomo rispetto al diritto di proprietà e non segue il diritto di proprietà in caso di alienazione, salvo che non sia convenuto il contrario.

Il principio trova frequente applicazione in ambito condominiale. Accade infatti, assai spesso, che il condominio agisca per ottenere il risarcimento dei danni subiti. Nel caso di vittoria della lite le somme ricavate vanno attribuite a chi era proprietario dell’immobile al momento del sinistro e non anche agli attuali proprietari.

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[:it]Come noto:

  • l’art. 1004 c.c., stabilisce, al comma 1, che sono a carico dell’usufruttuario “le spese e, in genere, gli oneri relativi alla custodia, amministrazione e manutenzione ordinaria della cosa“;
  • Risultati immagini per donna di casa che spendel’art. 1005 c.c., dispone, invece, che sono a carico del nudo proprietario le riparazioni straordinarie, considerando come tali, con elencazione ritenuta dalla giurisprudenza di carattere non tassativo, “quelle necessarie ad assicurare la stabilità dei muri maestri e delle volte, la sostituzione delle travi, il rinnovamento, per intero o per una parte notevole, dei tetti, solai, scale, argini, acquedotti, muri di sostegno o di cinta”;
  • l’art. 1006 c.c., prevede, poi, la facoltà dell’usufruttuario di far eseguire a proprie spese le riparazioni poste a carico del proprietario, quando quest’ultimo, previamente interpellato, rifiuti di eseguirle o ritardi l’esecuzione senza giustificato motivo. In tal caso, la stessa norma stabilisce che le spese devono essere rimborsate alla fine dell’usufrutto, senza interessi.

Ora, pur dovendosi rilevare che, in linea di principio, la nozione di “manutenzione” non si identifica con quella di “riparazione” (intendendosi per “riparazione” l’opera che rimedia ad un’alterazione già verificatasi nello stato delle cose in conseguenza dell’uso o per cause naturali, e per “manutenzione” l’opera che previene l’alterazione: cfr. Cass. 4-1-1969 n. 10), dal coordinamento delle disposizioni menzionate di legge, ad avviso della sentenza 6 novembre 2015, n. 22703 della Corte di Cassazione,  si desume chiaramente che il legislatore ha operato una commistione di tali termini, come è reso evidente dal fatto che l’art. 1004 c.c., nell’onerare (primo comma) l’usufruttuario della “manutenzione ordinaria”, pone a carico del medesimo usufruttuario (secondo comma) le “riparazioni straordinarie” rese necessarie dall’inadempimento degli obblighi di “ordinaria manutenzione”.

Diversamente opinando, si perverrebbe alla inammissibile conclusione secondo cui, ponendo l’art. 1005 c.c., a carico del nudo proprietario solo le “riparazioni straordinarie”, la “manutenzione straordinaria” dovrebbe gravare a carico dell’usufruttuario; il tutto in contrasto con l’espressa previsione del citato art. 1004 c.c., che pone a carico dell’usufruttuario solo le spese e gli oneri relativi alla “manutenzione ordinaria della cosa”, con ciò stesso facendo ricadere a carico del nudo proprietario la manutenzione straordinaria.

La piena sovrapponibilità delle nozioni “manutenzione” e “riparazione” utilizzati in materia dal legislatore trova ulteriore conferma nell’art. 1015 c.c., comma 1, che sanziona con la decadenza dall’usufrutto la condotta dell’usufruttuario il quale lasci andare i beni in perimento per mancanza di “ordinarie riparazioni”, facendo quindi ricorso ad una terminologia diversa da quella di “manutenzione ordinaria” impiegata nel primo comma dell’art. 1004 c.c., per indicare le attività alle quali è tenuto l’usufruttuario.

Deve concludersi, in definitiva, che ciò che rileva, ai fini della distinzione tra gli interventi gravanti a carico dell’usufruttario e del nudo proprietario, non è la maggiore o minore attualità del danno da riparare, ma la essenza e la natura dell’opera, e cioè il suo carattere di ordinarietà o straordinarietà, poichè solo tale caratterizzazione incide sul diritto di cui l’uno o l’altro dei due soggetti sono titolari: spettando all’usufruttuario l’uso e il godimento della cosa, salva rerum substantia, si deve a lui lasciare la responsabilità e l’onere di provvedere a tutto ciò che riguarda la conservazione e il godimento della cosa nella sua sostanza materiale e nella sua attitudine produttiva; si devono, invece, riservare al nudo proprietario le opere che incidono sulla struttura, la sostanza e la destinazione della cosa, perchè afferiscono alla nuda proprietà (v Cass. 4-1-1969 n. 10 citata).

In altri termini:

in tema di usufrutto per distinguere tra interventi gravanti sull’usufruttuario ed interventi gravanti sul nudo proprietario, non può farsi riferimento alla maggiore o minore attualità del danno da riparare, bensì all’essenza ed alla natura dell’opera, e cioè al suo carattere di ordiniarietà o straordinarietà, poiché solo tale caratterizzazione incide sul diritto di cui l’uno o l’altro dei due soggetti sono titolari.

Invero

  • spettano all’usufruttuario l’uso ed il godimento della cosa; lo stesso risponde ed ha l’onere di provvedere a tutto ciò che riguarda la conservazione ed il godimento della cosa nella sua sostanza materiale e nella sua attitudine produttiva;
  • si devono invece riservare al nudo proprietario le opere che incidono sulla struttura, la sostanza e la destinazione della cosa, perché afferiscono alla nuda proprietà.

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Risultati immagini per immagine casaUn uomo, dopo il divorzio, occupava, insieme alla nuova famiglia, l’ex casa coniugale: l’ex moglie ne chiedeva il rilascio, oltre al pagamento di un’indennità di occupazione.

Il Tribunale prima e, successivamente, la Corte d’appello ordinavano il rilascio del bene nella libera disponibilità di entrambi i partecipanti alla comunione e condannavano l’ex marito al pagamento dell’importo complessivo di € 16.000,00 (pari al 50% del valore locativo dell’immobile dal passaggio in giudicato della sentenza di divorzio alla data della pronuncia).

Contro detta decisione l’uomo ricorreva invano al Giudice di legittimità.

Anche la Corte di Cassazione, con sentenza 30 settembre 2015, n°19488, riteneva che l’ex coniuge avesse abusato dell’alloggio comune, destinandolo a propria abitazione, esclusiva ed abituale, propria e del suo nuovo nucleo familiare, così superando i limiti di cui all’art. 1102 c.c., per aver impedito all’altra comproprietaria di far parimenti uso del bene.

In altri termini «nel caso di concessione di un bene in locazione ad uno dei comproprietari, venuto a conclusione il rapporto locatizio per scadenza del termine o per la pronuncia della sua risoluzione per inadempimento del conduttore, il predetto bene deve essere restituito alla comunione per consentire alla stessa di disporne e, attraverso la sua maggioranza, di esercitare la facoltà di goderne direttamente o indirettamente».

Di qui gli estremi per condannare l’occupante al rilascio del bene in favore della comunione e al pagamento di un risarcimento dovuto all’abusiva detenzione del bene, commisurato al valore locativo dell’immobile.

Si noti bene:

  • Il già vigente art. 155-quater c.c., in tema di separazione, l’art. 6, L. n. 898 del 1970, in tema di divorzio, ed ancora il vigente art. 337-sexies c.c., subordinano l’adottabilità del provvedimento di assegnazione della medesima casa familiare alla presenza di figli conviventi con i genitori. In difetto, la casa familiare (sia in comproprietà fra i coniugi sia appartenente in via esclusiva ad un solo coniuge) non può essere oggetto di provvedimento di assegnazione, rimanendo sottratta all’incidenza della sentenza di separazione o divorzio.
  • La casa familiare in comproprietà, se non può essere oggetto di assegnazione ad uno dei coniugi, resta soggetta alle norme sulla comunione, al cui regime dovrà farsi riferimento per l’uso e la divisione (Cass., 24 luglio 2007, n. 16398). I rapporti di godimento dell’alloggio tra gli ex coniugi vengono quindi regolamentati nell’art. 1102 c.c.: nessuno dei due ex coniugi comproprietari il diritto di impedire all’altro di partecipare all’uso dell’immobile, trattenendone le chiavi, o rifiutandone la consegna di una copia.
  • Si verifica la violazione dei criteri stabiliti dall’art. 1102 c.c. in ipotesi di occupazione dell’intera casa familiare ad opera dell’ex coniuge comproprietario e non (più) assegnatario della stessa, con sua destinazione ad utilizzazione personale esclusiva, tale da impedire all’altro comproprietario il godimento dei frutti civili ritraibili dal bene, con conseguente diritto ad una corrispondente indennità (Cass., 30 marzo 2012, n. 5156).
  • Proprio l’applicabilità, nelle relazioni tra i coniugi comproprietari dell’immobile non oggetto di assegnazione, del principio dell’uso della cosa comune di cui all’art. 1102 c.c. – che vieta al singolo partecipante di attrarre la cosa comune o una sua parte nell’orbita della propria disponibilità esclusiva e di sottrarla in tal modo alla possibilità di godimento degli altri contitolari, estendendosi il diritto di ciascuno nei limiti della quota su tutta la cosa – lascia salva l’ammissibilità di un accordo, anche tacito, tra le parti, accordo che stabilisca l’utilizzazione dell’appartamento comune da parte di uno dei coniugi (Cass., 13 febbraio 2006, n. 3030); potendo valere l’assegnazione consensuale dell’abitazione comune al coniuge non affidatario come modalità di soddisfacimento dell’obbligo di mantenimento (Cass., 24 giugno 1989, n. 3100).
  • Soltanto all’esito dello scioglimento della comunione legale, ciascun coniuge può domandare la divisione del patrimonio comune, da effettuarsi secondo i criteri stabiliti agli artt. 192 e 194 c.c., e colui che sia rimasto nel possesso esclusivo dei beni fruttiferi già appartenenti alla comunione legale è tenuto (ex art. 820, comma 3, c.c.), al pagamento, in favore dell’altro coniuge, del corrispettivo “pro quota” di tale godimento, quali frutti spettanti “ex lege”, a prescindere da comportamenti leciti o illeciti altrui.
  • Da ultimo. A decorrere dal 26 maggio 2015 (art. 191 c.c., II^ comma, inserito dall’art. 2, 1° co., L. 6.5.2015, n. 55 “Nel caso di separazione personale, la comunione tra i coniugi si scioglie nel momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero alla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purché omologato. L’ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati è comunicata all’ufficiale dello stato civile ai fini dell’annotazione dello scioglimento della comunione”.

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