Tag Archivio per: avvocato

[:it]tribunale-roma-immagineEgregi colleghi,

vi informiamo che, in data 1° dicembre 2020, è stato sottoscritto tra la Corte d’Appello e il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma il Protocollo d’intesa per l’individuazione delle modalità di richiesta e rilascio dei titoli esecutivi.

Ciò permetterà agli avvocati di richiedere, con apposita istanza telematica, il rilascio della formula esecutiva in formato telematico, firmata digitalmente dal cancelliere.

 

Come si presenta l’istanza.

L’istanza, firmata digitalmente dal legale, dovrà essere depositata nel corrispondente fascicolo telematico quale “atto in corso di causa” – “deposito istanza generica” – “richiesta di rilascio formula esecutiva”.

Il legale dovrà presentare unitamente all’istanza il versamento, esclusivamente in forma telematica, dei diritti di cancelleria indicati nella seguente tabella:

tabella-diritti-copie-esecutive-telematiche

L’autenticazione da parte dell’avvocato

Il difensore potrà procedere all’autenticazione – ai sensi dell’articolo 16 bis, comma 9 del DL 179/2012 come modificato dal DL 90/2014 convertito nella Legge n°114/2014 – del titolo esecutivo rilasciato telematicamente utilizzando la seguente formula:

 

ATTESTAZIONE DI CONFORMITÀ
Il Sottoscritto Avv___________, nella sua qualità di difensore di________(PI/CF) con sede/residente in __________________, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 16 bis, comma 9 del DL 179/2012 come modificato dal DL 90/2014 convertito nella Legge n° 114/2014, attesta che la presente copia del provvedimento _______ del Giudice, Dott. _______, emesso in data ____ e spedito in forma esecutiva in data _______ nel procedimento RG n° _______ è conforme all’originale informatico presente nel fascicolo informatico dal quale è stato estratto. Sotto la mia responsabilità, dichiaro che la presente é la sola copia spedita in forma esecutiva che intendo azionare, ex art. 476 comma 1 cpc.[:]

[:it]Two hand exchanging twenty jordanian dinars

La Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione, con sentenza n. 7940 del 12 settembre 2019, ha ribadito il principio, ormai cristallizzato dagli Ermellini, secondo il quale la deroga posta dal secondo comma dell’art. 2721 c.c. è ammissibile solo se giustificata da una concreta valutazione delle ragioni per cui la parte, incolpevolmente, non sia in possesso di documentazione scritta.

I fatti di cui è causa

La vicenda trae origine da un procedimento di ingiunzione promosso da un avvocato nei confronti di una cliente, nel quale il Tribunale di Cagliari, con sentenza n. 2478/2012, rigettava l’opposizione proposta avverso il decreto ingiuntivo.

Il credito azionato in via monitoria – della somma di euro 8.860,72 – aveva ad oggetto il compenso per l’attività professionale prestata nella causa di risarcimento danni da sinistro stradale, definito in via transattiva.

Dolendosi di tale decisione, la cliente ricorreva alla Corte d’Appello di Cagliari che, all’esito del giudizio, riformava la decisione del giudice di prime cure e condannava l’avvocato – previa revoca del decreto ingiuntivo – a restituire alla controparte la somma di euro 789,95. La Corte territoriale calcolava tale importo dalla differenza tra quanto già corrisposto dalla cliente a titolo di acconto, grossolanamente considerando attendibili le dichiarazioni dei genitori della medesima, e il compenso parametrato all’importo attribuito alla cliente a titolo risarcitorio, sulla scorta delle tariffe dettate dal D.M. 8 aprile 2004, vigente ratione temporis.

Il ricorso per cassazione  

Il difensore, vista la decisione della Corte d’Appello, adiva la Suprema Corte dolendosi, in particolare, di come il giudice di secondo grado avesse ritenuto provato il pagamento di acconti su prove testimoniali – peraltro fornite dai genitori – “senza giustificare la deroga al divieto previsto per i contratti ed esteso ai pagamenti di valore superiore ad euro 2,58”.

Il giudizio della Suprema Corte

Con la decisione in commento, la Suprema Corte, in accoglimento del ricorso limitatamente alla suesposta doglianza, ha ribadito il consolidato principio secondo il quale “poiché ai sensi dell’art. 2726 cod. civ. le norme stabilite per la prova testimoniale si applicano anche al pagamento e alla remissione del debito, è ammessa la deroga al divieto della prova testimoniale in ordine al pagamento delle somme di denaro eccedenti il limite previsto dall’art. 2721 cod. civ., ma la deroga è subordinata ad una concreta valutazione delle ragioni in base alle quali, nonostante l’esigenza di prudenza e di cautela che normalmente richiedono gli impegni relativi a notevoli esborsi di denaro, la parte non abbia curato di predisporre una documentazione scritta (ex plurimis, Cass. 14/07/2003, n. 10989; Cass. 25/05/1993, n. 5884; Cass. 18/03/1968, n. 879).  

Di qui, la decisione della Suprema Corte di cassare in parte qua la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Cagliari, in diversa composizione, affinché si conformi al principio di diritto sopra richiamato.

Articolo a cura della dott.ssa Michela Terella

[:]

[:it]

cdc-c4ibsscuwiu-unsplash-1Dal 1° aprile 2020 sono disponibili sul sito http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Rel028-2020.pdf, i chiarimenti offerti dalla Corte di Cassazione sul contenuto e la portata delle misure adottate dal Governo per il contrasto al diffondersi del corona virus, di cui al D.L. n°18/2020.

In particolare:

  • il rinvio d’ufficio delle udienze deve essere inteso come “un mero rinvio ex lege e non di una sospensione dei processi, sicché non si applica l’art. 298, primo comma, c.p.c., a tenore del quale ‘durante la sospensione non possono essere compiuti atti del procedimento’”;
  • la sospensione dei termini processuali deve essere inteso come operante tutti gli atti processuali, compresi quelli necessari per avviare un giudizio di cognizione o esecutivo (atto di citazione o ricorso, ovvero atto di precetto), come per quelli di impugnazione (appello o ricorso per cassazione)”;
  • con riferimento alla sospensione che riguardi termini a ritroso che ricadano in tutto o in parte nel periodo di sospensione, “…è differita l’udienza o l’attività da cui decorre il termine, in modo da consentirne il pieno rispetto” e non già la mera sottrazione dal relativo computo, come avveniva durante il periodo feriale;
  • ai sensi dell’art. 83, comma 10 del D.L. n°18/2020, per tutti i procedimenti in cui vi sia stato un rinvio d’udienza, non si terrà conto, ai fini dell’equa riparazione di cui all’art. 2, della l. 89/01 (legge Pinto) del periodo compreso tra il 08/03/2020 e il 30/06/2020;
  • ai sensi del comma 20 dell’art. 83 del D.L. n°18/2020, la sospensione dei procedimenti di mediazione, di negoziazione assistita e di risoluzione stragiudiziale delle controversie, riguarderà quelli promossi entro il 9 marzo 2020, senza alcuna espressa previsione per quanto riguarda quelli eventualmente promossi successivamente a tale data;
  • la sospensione, di cui all’art.83, comma 8, dei termini sostanziali “comportanti prescrizioni e decadenze da qualsiasi diritto” appare poter essere invocata da chi ne abbia interesse unicamente per il periodo dal 16 aprile al 30 giugno e subordinata alla presenza di due condizioni: “a) che siano stati adottati i provvedimenti organizzativi che spettano ai capi degli uffici (e solo durante il periodo di loro efficacia); b) che si tratti di diritti che possono essere esercitati esclusivamente mediante il compimento di attività processuali precluse;
  • la sospensione di tutti termini, siano essi processuali o sostanziali, non opera per quelle controversie che rientrano nell’elencazione di cui all’art. 83, comma 3, lett. a), del d.l. n. 18 del 2020.

[:]

[:it]

catturaLa predetta norma ha generato in poco tempo notevole confusione, tanto negli operatori della giustizia quanto nei genitori separati, in merito alle conseguenze del predetto divieto sull’esercizio del diritto di visita del genitore non collocatario della prole.

A fronte dei predetti dubbi, il Governo, nelle FAQ diramate sul sito della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha opportunamente chiarito, in data 10 marzo 2020, che: gli spostamenti per raggiungere i figli minorenni presso l’altro genitore o comunque presso l’affidatario, oppure per condurli presso di sé, sono consentiti, in ogni caso secondo le modalità previste dal giudice con i provvedimenti di separazione o divorzio“.

L’ordinanza del 22 marzo 2020 del Ministero della Salute

In data 22 marzo 2020, il Ministero della Salute ha adottato un’ordinanza recante “ulteriori misure urgenti di contenimento del contagio sull’intero territorio nazionale”, prevedendo all’art. 1 il “…divieto a tutte le persone fisiche di trasferirsi o spostarsi con mezzi di trasporto pubblici o privati in comune diverso da quello in cui si trovano, salvo che per comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza ovvero per motivi di salute”.

La predetta misura resterà in vigore sino al 3 aprile 2020, in virtù della proroga espressamente convenuta nel DPCM del 22 marzo 2020.

Il DPCM del 22 marzo 2020

In pari data, è altresì stato emanato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, un ulteriore decreto contenente ulteriori misure urgenti di contenimento sull’intero territorio nazionale, in vigore sino al 3 aprile 2020, cumulative rispetto a quelle già adottate con DPCM dell’11 marzo 2020 e con quelle previste nella sopracitata ordinanza del 22 marzo 2020 del Ministero della Salute.

Il suddetto decreto, all’art. 1, lett. b), conferma il “…divieto a tutte le persone fisiche di trasferirsi o spostarsi, con mezzi di trasporto pubblici o privati, in un comune diverso rispetto a quello in cui attualmente si trovano, salvo che per comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza ovvero per motivi di salute”, di cui alla sopracitata ordinanza del 22 marzo 2020, specificando altresì la conseguente soppressione della facoltà di spostarsi per fare “rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza, di cui all’art. 1, lett. a) del DPCM dell’8 marzo 2020.

Così come per l’art. 1 dell’ordinanza del 22 marzo 2020 del Ministero della Salute, anche il presente decreto non prevede deroghe al suddetto decreto se non per spostamenti dettati da:

  • comprovate esigenze lavorative di assoluta urgenza;
  • motivi di assoluta urgenza;
  • motivi di salute.

I chiarimenti recentemente offerti dal Governo

Il Governo, sul proprio sito istituzionale – http://www.governo.it/it/faq-iorestoacasa – alla domanda “Sono separato/divorziato, posso andare a trovare i miei figli?”, ha risposto: “Sì, gli spostamenti per raggiungere i figli minorenni presso l’altro genitore o comunque presso l’affidatario, oppure per condurli presso di sé, sono consentiti, in ogni caso secondo le modalità previste dal giudice con i provvedimenti di separazione o divorzio”.

 

In conclusione

Da ciò consegue che, l’entrata in vigore del DPCM del 22 marzo 2020, non pone alcuna limitazione ai genitori che si spostino, anche in altro comune, per vedere e/o prendere i figli, all’uopo muniti di autocertificazione e/o provvedimento di separazione e/o divorzio. [:]

[:it]certificato-medicoIl caso in esame

Un collega, difensore d’ufficio, con istanza depositata del 27 aprile 2017 nel giudizio d’appello, chiedeva disporsi rinvio dell’udienza “…perché legittimamente impedito a comparirvi a causa di malattia…”, allegando all’uopo certificazione del suo medico curante che recitava testualmente: “Certifico che (…) è affetta da influenza. Si consigliano 4 gg. di riposo“.

La Corte di appello rigettava, tuttavia, la suddetta richiesta rilevando la mancanza del carattere assoluto dell’impedimento.

Il difensore decideva pertanto di ricorrere per cassazione dolendosi ex multis, del“l’inosservanza o comunque l’erronea applicazione degli artt. 484 e 420-ter c.p.p., e la violazione del diritto di difesa quale conseguenza del mancato riconoscimento del legittimo impedimento a comparire dovuto a malattia del difensore ritualmente certificata dal medico curante”.

 

Il principio enunciato dalla Suprema Corte

La Suprema Corte, investita della questione, richiamando alcuni suoi illustri precedenti, ribadisce preliminarmente il seguente principio applicato successivamente al caso di specie: “…il giudice, nel valutare il certificato medico, deve attenersi alla natura dell’infermità e valutarne il carattere impeditivo, potendo pervenire ad un giudizio negativo circa l’assoluta impossibilità a comparire solo disattendendo, con adeguata valutazione del referto e senza dover necessariamente disporre una “visita fiscale” o un accertamento tecnico, la rilevanza della patologia da cui si afferma colpito l’imputato o del difensore” (Cass. SS.UU. n°36635 del 27/09/2005; Cass., Sez. II^, n. 12948 del 05/03/2004).

 

La prova assoluta del legittimo impedimento

Ciò chiarito, gli Ermellini pongono in evidenza la necessità che la certificazione medica attestante l’impossibilità a comparire del difensore debba in generale essere idonea a comprovare “…la sussistenza dell’impedimento, indicandone la patologia ed i profili ostativi alla personale comparizione (citando sul punto il precedente delle SS.UU. n°41432 del 21 luglio 2016).

La Suprema Corte, dichiara pertanto manifestamente infondato il primo motivo di ricorso, ritenendo inidonea la certificazione medica allegata dal difensore in quanto “…il certificato medico non fornisce alcuna informazione sulla natura assoluta della impossibilità di comparire”, risultando privo dell’indicazione del “… grado della febbre e a quale grave e non evitabile rischio per la salute sarebbe andato incontro il difensore in caso di presenza all’udienza”.

 [:]

[:it]

downloadIl legislatore, con legge n°69/2009 ha introdotto nel nostro ordinamento l’art. 614 bis c.p.c., quale deterrente di natura economica agli inadempimenti di obblighi difficilmente coercibili, con il quale il giudice, su istanza di parte, può condannare l’obbligato al pagamento di un somma “…per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento” [1].

Detta misura è stata recentemente invocata da un padre in un giudizio, in cui era stato convenuto e relativo alla modifica delle condizioni di divorzio, al fine di sanzionare la madre ogni qualvolta la stessa non garantisse il diritto del padre di vedere e tenere con sé le figlie.

I fatti di cui è causa

Con ricorso depositato in data 10 gennaio 2017, un’ex moglie, madre di due figlie minori con essa conviventi, adiva il Tribunale di Mantova al fine di veder modificate le statuizioni in punto di mantenimento per le due figlie minori, con un aumento del mantenimento da € 800,00 ad € 900,00 nonché una rideterminazione delle modalità e dei tempi di visita padre-figlie, all’esito dell’accertamento della capacità genitoriali e delle ragioni che avevano spinto le ragazzine a non voler incontrare il padre nell’arco dell’ultimo anno.

Si costituiva in giudizio il padre, chiedendo il rigetto della domanda di controparte relativa all’aumento dell’assegno di mantenimento in favore delle figlie, alla luce di una diminuzione del proprio reddito, chiedendo altresì, all’esito dell’accertamento delle capacità genitoriali, la condanna della stessa “…a pagare ai sensi e per gli effetti dell’art. 614 bis c.p.c., la somma che il Tribunale riterrà di giustizia per ogni violazione o inosservanza dei provvedimenti di cui all’emanando decreto o per ogni ritardo nell’esecuzione di detti provvedimenti”, eccependo come la moglie, dall’epoca della separazione, avesse costantemente ostacolato i rapporti padre-figli.

La decisione

Il Tribunale mantovano, investito della questione, all’esito dell’istruttoria accoglieva in parte la domanda di riduzione del mantenimento avanzata dal padre, alla luce della (parzialmente) comprovata riduzione dei suoi redditi da lavoro, rigettando invece la domanda volta alla condanna del coniuge ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c. ritenendola inammissibile – “[P]ur essendo noto il fatto che in alcuni casi la giurisprudenza di merito ha ritenuto applicabile il disposto della norma richiamata, a sanzione di comportamenti ostruzionistici del genitore collocatario all’esercizio del diritto di visita del genitore con il quale il figlio non convive stabilmente, ritiene il Tribunale che tale misura di coercizione indiretta sia inammissibile nei procedimenti aventi ad oggetto l’adozione di provvedimenti ex art. 337 bis e ss. c.c. – alla luce della seguente motivazione:

  • la sanzione di cui all’art. 614 bis c.p. “…può accedere pertanto unicamente a sentenze di condanna ad un obbligo (determinato) di fare o di non fare”;
  • di contro, “…i ‘provvedimenti riguardo ai figli’ che il Tribunale deve adottare ai sensi dell’art. 337 terc., in relazione al regime di affidamento, alla regolamentazione dell’esercizio della responsabilità genitoriale, ed alla determinazione dei tempi e delle modalità della presenza dei figli presso ciascun genitore, non comportano alcuna statuizione di “condanna” a carico dell’uno o dell’altro genitore;
  • “…[i]n particolare la determinazione dei periodi di permanenza dei figli presso il genitore con il quale non convivono stabilmente, e quindi le modalità in cui si esplica il diritto/dovere del genitore non collocatario di tenere con sé i figli, non costituisce provvedimento di condanna del genitore collocatario all’esecuzione di obblighi determinati di fare o di non fare”;
  • “[L]a competenza ad accertare inadempimenti ai provvedimenti ex artt. 337 bis e ss. c.c. o comportamenti che comunque ‘arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento’ spetta peraltro esclusivamenteal giudice del procedimento in corso’ o al Tribunale in composizione collegiale, e non certamente al giudice dell’esecuzione (in sede di eventuale opposizione a precetto ex art. 614 bis c.p.c.), come espressamente previsto dall’art. 709 ter c.p.c., che disciplina il procedimento relativo e stabilisce le specifiche sanzioni applicabili, in ipotesi di accertata violazione”;
  • ad ogni modo, le risultanze del giudizio avevano chiarito l’addebitabilità unicamente al padre dei mancati incontri padre-figlie.

In conclusione, ad avviso della parte, la domanda di condanna ex art. 614 bis c.p.c. “…in via preventiva, ed in assenza di qualsiasi statuizione di condanna della ricorrente all’esecuzione di un ‘facere’ o di un ‘non facere’, è quindi inammissibile”.

[1] L’art. 614 bis c.p.c., recita, al 1° comma: “Con il provvedimento di condanna all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento(2). Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’articolo 409”; e al 2° comma: “Il giudice determina l’ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile”.

Tribunale di Mantova, decreto del 12 luglio 2018

[:]

[:it]Cari colleghi, sono oramai in vigore le modiche introdotte al nostro codice deontologico, pubblicate in G.U. n°86 del 13 aprile 2018, come chiarito dal CNF con circolare n°7-C-2018. Esse hanno ad oggetto nello specifico due articoli, disciplinanti, rispettivamente, la responsabilità disciplinare (art. 20) e i doveri d’informazione (art. 27, limitatamente al solo co. 3).

La modifica dell’art. 20, in particolare, è volta a chiarire il valore solo tendenziale del prinicipio di tipicità degli illeciti, come evidente da un raffronto tra:

  • l’art. 20, nell’originaria formulazione: “La violazione dei doveri di cui ai precedenti articoli costituisce illecito disciplinare perseguibile nelle ipotesi previste nei titoli II, III, IV, V, VI di questo codice”;
  • e il testo novellato dell’art. 20, composto da due separati commi, che oggi recita come segue: “ La violazione dei doveri e delle regole di condotta di cui ai precedenti articoli e comunque le infrazioni ai doveri e alle regole di condotta imposti dalla legge o dalla deontologia costituiscono illeciti disciplinari ai sensi dell’art. 51, comma 1, della legge 31 dicembre 2012, n. 247.
  1. Tali violazioni, ove riconducibili alle ipotesi tipizzate ai titoli II, III, IV, V e VI del presente codice, comportano l’applicazione delle sanzioni ivi espressamente previste; ove non riconducibili a tali ipotesi comportano l’applicazione delle sanzioni disciplinari di cui agli articoli 52 lettera c) e 53 della legge 31 dicembre 2012, n. 247, da individuarsi e da determinarsi, quanto alla loro entità, sulla base dei criteri di cui agli articoli 21 e 22 di questo codice”.

In nuovo testo chiarisce, pertanto, rispetto alla precedente formulazione, che, in mancanza di espressa tipizzazione della figura di illecito, la stessa sarà ricostruita sulla base dei principi fondamentali e fondanti l’ordinamento forense. E ciò in quanto “Al giudice della deontologia è infatti rimessa in via esclusiva la valutazione del disvalore della condotta, della gravità del comportamento, del grado della colpa e dell’intensità del dolo, onde adattare, sempre e comunque, la sanzione alla fattispecie concreta, adeguandola nel rispetto del principio di proporzionalità”.

Con riferimento all’art. 27, rubricato “Doveri d’informazione”, la novella integra il comma 3° con la espressa previsione del dovere di informare per iscritto il cliente anche della possibilità di avvalersi della c.d. negoziazione assistita, procedimento che, come noto, riconosce all’avvocato un ruolo decisivo per il raggiungimento di una composizione stragiudiziale.

Ciò, appare evidente, da un mero raffronto:

  • tra il testo previgente: “ L’avvocato, all’atto del conferimento dell’incarico, deve informare la parte assistita chiaramente e per iscritto della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione previsto dalla legge; deve altresì informarla dei percorsi alternativi al contenzioso giudiziario, pure previsti dalla legge”
  • e quello attualmente in vigore: “3. L’avvocato, all’atto del conferimento dell’incarico, deve informare chiaramente la parte assistita della possibilità di avvalersi del procedimento di negoziazione assistita e, per iscritto, della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione; deve altresì informarla dei percorsi alternativi al contenzioso giudiziario, pure previsti dalla legge”.

[:]

[:it]

downloadCon sentenza del 14 giugno 2017, la Corte di Giustizia dell’Unione europea, si è pronunciata sulla domanda di interpretazione pregiudiziale del Tribunale civile di Verona, vertente sulla legittimità della previsione, da parte del legislatore italiano, della mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale relativa a controversie riguardanti la tutela dei consumatori.

Il giudizio a quo e le domande rivolte alla CGUE

La domanda trae origine dall’opposizione presentata da due consumatori avverso il decreto ingiuntivo – ottenuto in loro danno dal proprio istituto bancario, nell’ambito di un regolamento del saldo debitore del conto corrente degli stessi, a seguito dell’apertura di credito loro concessa – senza aver previamente esperito l’obbligatorio procedimento di mediazione.

Il Tribunale di Verona, investito della questione, ritenendo le disposizioni interne in materia di mediazione obbligatoria in contrasto con la direttiva 2013/11/UE, decide di interrogare pertanto la Corte di Lussemburgo. In particolare, ad avviso del tribunale nostrano, la previsione della mediazione quale condizione di procedibilità risulterebbe sfavorevole rispetto a quanto previsto dall’art. 9 della succitata direttiva in quanto, mentre la normativa europea “…lascia alle parti la scelta non solo di partecipare o meno alla procedura ADR [alternative dispute resolution], ma anche di ritirarsi in qualsiasi momento dalla stessa…”, di contro, quella italiana non consente alle parti di “…ritirarsi dalla procedura di mediazione in ogni momento, e senza conseguenze di sorta, se non sono soddisfatte delle prestazioni o del funzionamento della procedura”.

Due, in particolare, sono le domande rivolte alla Corte di Giustizia:

«1) Se 1’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2013/11, nella parte in cui prevede che la medesima direttiva si applichi “fatta salva la direttiva 2008/52”, vada inteso nel senso che fa salva la possibilità per i singoli Stati membri di prevedere la mediazione obbligatoria per le sole ipotesi che non ricadono nell’ambito di applicazione della direttiva 2013/11, vale a dire le ipotesi di cui all’articolo 2, paragrafo 2 della direttiva 2013/11, le controversie contrattuali derivanti da contratti diversi da quelli di vendita o di servizi oltre quelle che non riguardino consumatori

«2) Se l’articolo 1 (…) della direttiva 2013/11, nella parte in cui assicura ai consumatori la possibilità di presentare reclamo nei confronti dei professionisti dinanzi ad appositi organismi di risoluzione alternativa delle controversie, vada interpretato nel senso che tale norma osta ad una norma nazionale che prevede il ricorso alla mediazione, in una delle controversie di cui all’articolo 2, paragrafo 1 della direttiva 2013/11, quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale della parte qualificabile come consumatore, e, in ogni caso, ad una norma nazionale che preveda l’assistenza difensiva obbligatoria, ed i relativi costi, per il consumatore che partecipi alla mediazione relativa ad una delle predette controversie, nonché la possibilità di non partecipare alla mediazione se non in presenza di un giustificato motivo»

La (non) risposta alla prima questione

I giudici dell’Unione affrontando la prima questione, evidenziano come:

  • la direttiva 2008/52/CE, che mira a facilitare l’accesso a strumenti di risoluzione alternativa delle controversie (c.d. ADR), ha un ambito d’applicazione limitato alle sole controversie transfrontaliere in materia civile e commerciale;
  • tuttavia, tanto l’8° considerando della direttiva in oggetto, quanto il 19° considerando della direttiva 2013/11 lascia impregiudicata la facoltà per uno Stato membro di applicare la direttiva 2008/52 anche alle controversie puramente interne;
  • l’Italia ha pertanto legittimamente esteso l’applicazione del decreto legislativo n°28/2010 anche alle controversie puramente interne, avvalendosi della discrezionalità riconosciutale dalla normativa europea.

La Corte, tuttavia, conclude senza dare una risposta alla prima questione, in considerazione del fatto che la suddetta estensione “…non può avere l’effetto di ampliare l’ambito di applicazione della direttiva 2008/52, come definito dall’articolo 1, paragrafo 2, della stessa”.

La risposta alla seconda questione

Passando alla seconda questione, la Corte riformula la domanda del Tribunale italiano individuando tre sotto quesiti:

  1. se la direttiva 2013/11 osti a che una normativa nazionale, quale quella italiana, preveda “…il ricorso obbligatorio a una procedura di mediazione, nelle controversie indicate all’articolo 2, paragrafo 1, di tale direttiva, come condizione di procedibilità della domanda giudiziale relativa a queste medesime controversie”;
  2. se detta direttiva consenta o meno alla normativa nazionale di prevedere che i consumatori debbano essere assistiti da una avvocato in siffatta mediazione;
  3. da ultimo, se la normativa italiana possa legittimamente subordinare la facoltà per i consumatori di sottrarsi ad un previo ricorso alla mediazione unicamente “…se dimostrano l’esistenza di un giustificato motivo a sostegno di tale decisione”.

A riguardo, la Corte preliminarmente individua l’ambito di applicazione della direttiva 2013/11, la quale si applica non già indiscriminatamente a tutte le controversie che coinvolgono consumatori, bensì esclusivamente a quelle che soddisfino i seguenti presupposti cumulativi:

  1. che la procedura sia stata promossa da un consumatore nei confronti di un professionista, secondo le definizioni contenute nella stessa direttiva;
  2. che la controversia abbia ad oggetto obbligazioni contrattuali discendenti da contratti di vendita o di servizi;
  3. che la procedura azionata rispetti i requisiti di cui all’art. 4, par. 1, lett. g), e, in particolare, risulti essere “indipendente, imparziale, trasparente, efficace, rapida ed equa”;
  4. che la procedura sia affidata ad un organismo ADR, istituito su base permanente, inserito nell’elenco di cui all’art. 20, par. 2.

Una volta chiarita l’applicabilità della direttiva in oggetto al caso di specie, la Corte, in risposta al secondo quesito, così come sopra tripartito, afferma che:

  • la previsione da parte dell’Italia di una mediazione obbligatoria è di per sé legittima in quanto, ai sensi del combinato disposto dell’art. 1 della direttiva 2013/11 e art. 3, lett. a) della direttiva 2008/52, agli Stati membri è riconosciuta la discrezionalità di prevedere l’obbligatorietà della partecipazione alle procedure ADR, purché ciò non impedisca il diritto di accesso delle parti al sistema giudiziario;
  • tale previsione, tuttavia, deve rivelarsi compatibile, in un’ottica di bilanciamento, con il principio della tutela giurisdizionale effettiva; compatibilità da ritenersi esistente “...qualora tale procedura non conduca a una decisione vincolante per le parti, non comporti un ritardo sostanziale per la proposizione di un ricorso giurisdizionale, sospenda la prescrizione o la decadenza dei diritti in questione e non generi costi, ovvero generi costi non ingenti, per le parti, a patto però che la via elettronica non costituisca l’unica modalità di accesso a detta procedura di conciliazione e che sia possibile disporre provvedimenti provvisori nei casi eccezionali in cui l’urgenza della situazione lo impone”;
  • tale giudizio di compatibilità è demandato al giudice nazionale che, nel caso de quo, deve verificare la compatibilità tra la normativa nazionale in oggetto (art. 5 del d.lgs. n°28/2010 e art. 141 cod. consumo) e il suddetto principio;
  • di contro, è certamente in contrasto con gli articoli 8, lett. b) e 9, par. 1, lett. b), la previsione da parte della normativa italiana dell’obbligo di assistenza di un avvocato e ciò in quanto i suddetti articoli espressamente impongono agli Stati di garantire “…che le parti abbiano accesso alla procedura ADR senza essere obbligate a ricorrere a un avvocato o a un consulente legale”, prevedendo altresì un obbligo di informazione in tal senso;
  • parimenti, limitare la possibilità per il consumatore di ritirarsi dalla procedura di mediazione nel solo caso in cui dimostri l’esistenza di un giustificato motivo così come la previsione di sanzioni nel successivo procedimento giurisdizionale in caso di ritiro ingiustificato, sono da considerarsi contrari all’obiettivo perseguito dalla direttiva 2013/11 e al disposto dell’art. 9, par. 2, lett. a) della stessa, che “…impone agli Stati membri di garantire che le parti abbiano la possibilità di riteriarsi dalla procedura in qualsiasi momento se non sono soddisfatte dalle prestazioni o dal funzionamento della procedura”, precisando altresì che, nel caso di previsione da parte della normativa nazionale, della partecipazione obbligatoria del professionista a detta procedura il diritto di ritirarsi deve spettare esclusivamente al consumatore e non anche al professionista;
  • da ultimo, la Corte specifica, alla luce delle dichiarazioni del governo italiano – ad avviso del quale la previsione dell’imposizione di un ammenda da parte del giudice nel successivo procedimento non riguarderebbe il caso in cui lo stesso si sia ritirato bensì nel solo caso di mancata partecipazione senza giustificato motivo – che, qualora ciò sia verificato dal giudice a quo, in tale caso la direttiva non osterebbe a una tale previsione “…purché egli possa porvi fine senza restrizioni successivamente al primo incontro”.

La Corte conclude pertanto, rispondendo alle questioni postele dal giudice italiano nei seguenti termini:

  • «la direttiva 2013/11 dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che prevede il ricorso a una procedura di mediazione, nelle controversie indicate all’articolo 2, paragrafo 1, di tale direttiva, come condizione di procedibilità della domanda giudiziale relativa a queste medesime controversie, purché un requisito siffatto non impedisca alle parti di esercitare il loro diritto di accesso al sistema giudiziario;
  • la medesima direttiva dev’essere invece interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, la quale prevede che, nell’ambito di una mediazione siffatta, i consumatori debbano essere assistiti da un avvocato e possano ritirarsi da una procedura di mediazione solo se dimostrano l’esistenza di un giustificato motivo a sostegno di tale decisione.»

[:]

[:it]downloadLa Suprema Corte, con sentenza del 20 ottobre 2016, n°21256, si pronuncia nuovamente sulla liquidazione dei compensi dell’avvocato, cassando la sentenza con cui la Corte d’Appello di Catanzaro, riformando la sentenza del Tribunale di Vibo Valentia, aveva riconosciuto all’appellante, vittima di incidente stradale, un cospicuo risarcimento dei danni, anche da perdita di chances, liquidando tuttavia le spese processuali del primo grado di giudizio secondo i parametri di cui al D.M. n°141/2012, ancorché quest’ultimo fosse entrato in vigore successivamente alla conclusione del primo grado di giudizio.

In particolare, ad avviso del ricorrente, il giudice dell’impugnazione avrebbe commesso un duplice errore: da un lato l’applicabilità del D.M. n. 140 del 2012, entrato in vigore medio tempore prima della pronuncia di secondo grado; dall’altro l’individuazione del valore della causa ai fini della determinazione del valore della controversia non già in quello indicato dall’appellante nel petitum, bensì nella somma effettivamente accertata dalla corte.

La Corte, limitatamente alla prima censura, dà ragione al ricorrente, richiamando un proprio recente insegnamento sul punto: “…i nuovi parametri, in base ai quali vanno commisurati i compensi forensi in luogo delle abrogate tariffe professionali, si applicano in tutti i casi in cui la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto purché, a tale data, la prestazione professionale non sia ancora completata, sicché non operano con riguardo all’attività svolta in un grado di giudizio conclusosi con sentenza prima dell’entrata in vigore, atteso che, in tal caso, la prestazione professionale deve ritenersi completata sia pure limitatamente a quella fase processuale” (così Cass. civ, sez. VI^-2, sentenza dell’11 febbraio 2016 n°2748; in senso conforme, Cass. civ., sez.VI^-3, sentenza del 2 luglio 2015, n°13628).

Ad avviso degli ermellini, pertanto, la liquidazione delle spese deve sempre avvenire, conformemente ai principi generali della successione della legge nel tempo, secondo le tariffe vigenti nel momento in cui l’attività professionale sia da ritenersi già completata, ovvero con la conclusione del singolo grado di giudizio. E ciò in quanto, come nel caso di specie, “…il giudizio di primo grado sfocia in una sentenza idonea a concludere ogni accertamento processuale passando in giudicato, essendo sotto il profilo del rito una mera eventualità l’impugnazione della pronuncia”.

Per quanto attiene invece alla determinazione del valore della controversia, la Corte ritiene corretta la determinazione della Corte d’Appello attraverso il ricorso al criterio del decisum; ciò in quanto “…in caso di accoglimento parziale della domanda, ai fini della determinazione del valore della controversia per liquidare le spese processuali deve il giudice avvalersi del criterio del decisum e non del criterio del disputatum (sul punto, anche Cass. civ. Sez. III, Sent., 20-10-2016, n. 21256 Cass. civ. Sez. III, Sent., 29-02-2016, n. 3903), fatto salvo unicamente il caso “…in cui la condanna sia ridotta da una parziale corresponsione del petitum da parte del debitore nelle more del processo se comunque emerge la fondatezza della intera pretesa originariamente avanzata” (Cass. civ. Sez. Unite, 11-09-2007, n. 19014).[:]

[:it]Con sentenza del 22 gennaio 2010, n°9633, la I^ sezione della Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata su un’annosa questione, frutto di accesi dibattiti tra avvocati e clienti: la determinazione del compenso professionale.

La vicenda trae origine dalla liquidazione da parte del giudice delegato del fallimento di una società in favore del difensore della suddetta di un importo notevolmente inferiore a quanto determinato dallo stesso professionista, il quale, pertanto decideva di ricorrere sino in Cassazione.

In particolare, il collega deduceva  “…la violazione di legge, variamente articolata, nell’erronea affermazione del vincolo di giudicato in ordine al compenso da liquidare al professionista”.

La Corte di cassazione, accogliendo il ricorso, giudica fondato il predetto motivo ritenendo, in particolare, che “…la statuizione concernente il regolamento delle spese nell’ambito del giudizio contenzioso patrocinato dall’avv. ___, non può in alcun modo vincolare la successiva liquidazione del corrispettivo professionale dovuto dal fallimento da lui rappresentato”. Ad avviso della S.C., infatti, “…la determinazione degli onorari nei confronti del cliente soggiace, infatti, a criteri legali diversi da quelli applicabili nei confronti del soccombente. Quest’ultima dipende, innanzitutto, dall’esito vittorioso della lite ma può essere perfino negata, in tutto o in parte, in forza di compensazione dettata da ragioni affatto estranee alla qualità della prestazione professionale, oggetto di un’obbligazione di mezzi”.

Da ultimo, la Corte di legittimità chiarisce come la differenza esistente tra rapporto processuale e rapporto contrattuale interno tra avvocato e cliente comporti pertanto l’applicazione di diversi criteri di liquidazione.

 [:]

© Copyright - Martignetti e Romano - P.Iva 13187681005 - Design Manà Comunicazione Privacy Policy Cookie Policy