La Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione, con sentenza n°1202 del 21 gennaio 2020, chiarisce che la trascrizione dell’atto di trasferimento immobiliare eventualmente contenuto nell’accordo di separazione o divorzio – raggiunto in sede di negoziazione assistita ai sensi dell’art. 6 del D.L. n. 132 del 2014 convertito, con modificazioni, nella L. n. 162 del 2014 – presuppone l’autenticazione delle sottoscrizioni del processo verbale dell’accordo stesso ad opera del pubblico ufficiale a ciò autorizzato, non potendosi riconoscere analogo potere certificativo agli avvocati che assistono le parti.

Il caso

La vicenda trae origine dalla composizione di un conflitto coniugale raggiunta in sede di negoziazione assistita. L’accordo di separazione personale sottoscritto nelle prescritte forme di legge, quindi autenticato dai rispettivi difensori, oltre a regolamentare gli aspetti personali della separazione – quali l’affidamento condiviso del figlio minore e la determinazione della misura dell’assegno dovuto dal marito per il mantenimento del figlio – contemplava il trasferimento della proprietà di una quota dell’immobile adibito a casa coniugale; il notaio, si era limitato ad effettuare l’autenticazione delle sottoscrizioni, l’autentica c.d. “minore”, senza effettuare il controllo di legalità dell’atto e, quindi, senza iscrivere il verbale a repertorio, senza metterlo a raccolta, né provvedere alla celere trascrizione dello stesso e, successivamente, il conservatore dei registri immobiliari rifiutava la trascrizione dell’accordo raggiunto dai coniugi in sede di negoziazione assistita, informando dell’inadempimento il consiglio notarile.

Avviato il procedimento disciplinare nei confronti del notaio, la Commissione Regionale di Disciplina qualificava la condotta del professionista come colpevole inadempimento delle modalità con cui doveva essere effettuata, ai fini dell’art. 2657 c.c., l’autentica richiesta dal comma 3 dell’art. 5 della L. 162/2014.

Dolendosi delle accuse mosse nei suoi confronti, il notaio adiva la Corte d’Appello la quale, tuttavia, rigettava integralmente il reclamo proposto dal professionista rilevando, in particolare, che, contenendo l’accordo dei coniugi un atto di trasferimento immobiliare, si rendeva necessaria un’autentica ai sensi dell’art. 72 della legge notarile che impone al notaio il controllo di legalità, essendogli vietato di ricevere o autenticare atti espressamente proibiti dalla legge, manifestamente contrari al buon costume e all’ordine pubblico ai sensi dell’art. 28 legge notarile.

Il ricorso per cassazione

A fronte del rigetto del suo reclamo da parte della Corte territoriale, il notaio proponeva ricorso per cassazione sostenendo, tra le censure proposte, di essersi limitato ad effettuare una c.d. “autentica minore” non di un atto notarile, ma di un verbale di accordo comportante il trasferimento immobiliare sottoscritto dai coniugi nell’ambito della negoziazione assistita per la loro separazione consensuale e, dunque, di non essere obbligato:

  • ad eseguire il controllo di legalità del verbale di accordo comportante il trasferimento immobiliare sottoscritto dai coniugi nell’ambito della convenzione di negoziazione assistita per la loro separazione consensuale,
  • di iscrivere il verbale a repertorio, di metterlo a raccolta, né provvedere alla celere trascrizione dello stesso.

La decisione della Suprema Corte

Con la decisione in commento, la Suprema Corte, ha respinto le doglianze del professionista ricorrente sancendo il principio di diritto secondo cui “ogni qualvolta l’accordo stabilito tra i coniugi, al fine di giungere ad una soluzione consensuale di separazione personale, ricomprenda anche il trasferimento di uno o più diritti di proprietà su beni immobili, la disciplina di cui al D.L. n. 132 del 2014, art. 6, conv. in L. n. 162 del 2014, deve necessariamente integrarsi con quella di cui al medesimo D.L. n. 132 del 2014, art. 5, comma 3, con la conseguenza che per procedere alla trascrizione dell’accordo di separazione contenente anche un atto negoziale comportante un trasferimento immobiliare, è necessaria l’autenticazione del verbale di accordo da parte di un pubblico ufficiale a ciò autorizzato, ai sensi dell’art. 5, comma 3”.

In conclusione

Gli Ermellini, hanno ritenuto sussistente l’illecito disciplinare contestato, in quanto il notaio aveva l’obbligo di procedere nelle forme previste dall’art. 2703 c.c., con il conseguente obbligo di iscrizione dell’atto nel repertorio ex art. 62 l.n. e di conservazione e raccolta ex art. 72 l.n., nonché quello di effettuare la trascrizione nel più breve tempo possibile ex artt. 2643 e 2671 c.c..

Avv. Luigi Romano

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cdc-c4ibsscuwiu-unsplash-1Dal 1° aprile 2020 sono disponibili sul sito http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Rel028-2020.pdf, i chiarimenti offerti dalla Corte di Cassazione sul contenuto e la portata delle misure adottate dal Governo per il contrasto al diffondersi del corona virus, di cui al D.L. n°18/2020.

In particolare:

  • il rinvio d’ufficio delle udienze deve essere inteso come “un mero rinvio ex lege e non di una sospensione dei processi, sicché non si applica l’art. 298, primo comma, c.p.c., a tenore del quale ‘durante la sospensione non possono essere compiuti atti del procedimento’”;
  • la sospensione dei termini processuali deve essere inteso come operante tutti gli atti processuali, compresi quelli necessari per avviare un giudizio di cognizione o esecutivo (atto di citazione o ricorso, ovvero atto di precetto), come per quelli di impugnazione (appello o ricorso per cassazione)”;
  • con riferimento alla sospensione che riguardi termini a ritroso che ricadano in tutto o in parte nel periodo di sospensione, “…è differita l’udienza o l’attività da cui decorre il termine, in modo da consentirne il pieno rispetto” e non già la mera sottrazione dal relativo computo, come avveniva durante il periodo feriale;
  • ai sensi dell’art. 83, comma 10 del D.L. n°18/2020, per tutti i procedimenti in cui vi sia stato un rinvio d’udienza, non si terrà conto, ai fini dell’equa riparazione di cui all’art. 2, della l. 89/01 (legge Pinto) del periodo compreso tra il 08/03/2020 e il 30/06/2020;
  • ai sensi del comma 20 dell’art. 83 del D.L. n°18/2020, la sospensione dei procedimenti di mediazione, di negoziazione assistita e di risoluzione stragiudiziale delle controversie, riguarderà quelli promossi entro il 9 marzo 2020, senza alcuna espressa previsione per quanto riguarda quelli eventualmente promossi successivamente a tale data;
  • la sospensione, di cui all’art.83, comma 8, dei termini sostanziali “comportanti prescrizioni e decadenze da qualsiasi diritto” appare poter essere invocata da chi ne abbia interesse unicamente per il periodo dal 16 aprile al 30 giugno e subordinata alla presenza di due condizioni: “a) che siano stati adottati i provvedimenti organizzativi che spettano ai capi degli uffici (e solo durante il periodo di loro efficacia); b) che si tratti di diritti che possono essere esercitati esclusivamente mediante il compimento di attività processuali precluse;
  • la sospensione di tutti termini, siano essi processuali o sostanziali, non opera per quelle controversie che rientrano nell’elencazione di cui all’art. 83, comma 3, lett. a), del d.l. n. 18 del 2020.

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a9ca56cc71bfe3ce1a405ec2c7699cf4La II^ sezione del Tribunale Civile di Bergamo, con decreto del 26 settembre 2018, ha chiarito che, nonostante la mancanza di un’espressa previsione in tal senso da parte della legge n°3/2012, tra i soggetti che posso accedere alle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento debba annoverarsi anche la famiglia, intesa come “…ente collettivo costituito dai debitori appartenenti alla famiglia in crisi da sovraindebitamento”, e ciò, “…in particolare quando lo squilibrio finanziario derivi proprio dalla gestione della vita in comune dei suoi membri”.

Nel caso di specie, Il Tribunale lombardo aveva disposto la riunione delle due procedure, introdotte dai coniugi con due distinti ricorsi, in cui ognuno aveva chiesto, la liquidazione del loro patrimonio ex artt. 14 ter e segg. L. 3/12 come modificata dal D.L. 179/12, alla luce:

  • di ragioni di economia processuale;
  • della circostanza che la maggior parte dei debiti riguardava obbligazioni solidali dei due coniugi;
  • del fatto che la maggior parte dei beni immobili costituenti il patrimonio immobiliare dei coniugi era in comproprietà tra gli stessi.

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downloadCon sentenza del 14 giugno 2017, la Corte di Giustizia dell’Unione europea, si è pronunciata sulla domanda di interpretazione pregiudiziale del Tribunale civile di Verona, vertente sulla legittimità della previsione, da parte del legislatore italiano, della mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale relativa a controversie riguardanti la tutela dei consumatori.

Il giudizio a quo e le domande rivolte alla CGUE

La domanda trae origine dall’opposizione presentata da due consumatori avverso il decreto ingiuntivo – ottenuto in loro danno dal proprio istituto bancario, nell’ambito di un regolamento del saldo debitore del conto corrente degli stessi, a seguito dell’apertura di credito loro concessa – senza aver previamente esperito l’obbligatorio procedimento di mediazione.

Il Tribunale di Verona, investito della questione, ritenendo le disposizioni interne in materia di mediazione obbligatoria in contrasto con la direttiva 2013/11/UE, decide di interrogare pertanto la Corte di Lussemburgo. In particolare, ad avviso del tribunale nostrano, la previsione della mediazione quale condizione di procedibilità risulterebbe sfavorevole rispetto a quanto previsto dall’art. 9 della succitata direttiva in quanto, mentre la normativa europea “…lascia alle parti la scelta non solo di partecipare o meno alla procedura ADR [alternative dispute resolution], ma anche di ritirarsi in qualsiasi momento dalla stessa…”, di contro, quella italiana non consente alle parti di “…ritirarsi dalla procedura di mediazione in ogni momento, e senza conseguenze di sorta, se non sono soddisfatte delle prestazioni o del funzionamento della procedura”.

Due, in particolare, sono le domande rivolte alla Corte di Giustizia:

«1) Se 1’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2013/11, nella parte in cui prevede che la medesima direttiva si applichi “fatta salva la direttiva 2008/52”, vada inteso nel senso che fa salva la possibilità per i singoli Stati membri di prevedere la mediazione obbligatoria per le sole ipotesi che non ricadono nell’ambito di applicazione della direttiva 2013/11, vale a dire le ipotesi di cui all’articolo 2, paragrafo 2 della direttiva 2013/11, le controversie contrattuali derivanti da contratti diversi da quelli di vendita o di servizi oltre quelle che non riguardino consumatori

«2) Se l’articolo 1 (…) della direttiva 2013/11, nella parte in cui assicura ai consumatori la possibilità di presentare reclamo nei confronti dei professionisti dinanzi ad appositi organismi di risoluzione alternativa delle controversie, vada interpretato nel senso che tale norma osta ad una norma nazionale che prevede il ricorso alla mediazione, in una delle controversie di cui all’articolo 2, paragrafo 1 della direttiva 2013/11, quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale della parte qualificabile come consumatore, e, in ogni caso, ad una norma nazionale che preveda l’assistenza difensiva obbligatoria, ed i relativi costi, per il consumatore che partecipi alla mediazione relativa ad una delle predette controversie, nonché la possibilità di non partecipare alla mediazione se non in presenza di un giustificato motivo»

La (non) risposta alla prima questione

I giudici dell’Unione affrontando la prima questione, evidenziano come:

  • la direttiva 2008/52/CE, che mira a facilitare l’accesso a strumenti di risoluzione alternativa delle controversie (c.d. ADR), ha un ambito d’applicazione limitato alle sole controversie transfrontaliere in materia civile e commerciale;
  • tuttavia, tanto l’8° considerando della direttiva in oggetto, quanto il 19° considerando della direttiva 2013/11 lascia impregiudicata la facoltà per uno Stato membro di applicare la direttiva 2008/52 anche alle controversie puramente interne;
  • l’Italia ha pertanto legittimamente esteso l’applicazione del decreto legislativo n°28/2010 anche alle controversie puramente interne, avvalendosi della discrezionalità riconosciutale dalla normativa europea.

La Corte, tuttavia, conclude senza dare una risposta alla prima questione, in considerazione del fatto che la suddetta estensione “…non può avere l’effetto di ampliare l’ambito di applicazione della direttiva 2008/52, come definito dall’articolo 1, paragrafo 2, della stessa”.

La risposta alla seconda questione

Passando alla seconda questione, la Corte riformula la domanda del Tribunale italiano individuando tre sotto quesiti:

  1. se la direttiva 2013/11 osti a che una normativa nazionale, quale quella italiana, preveda “…il ricorso obbligatorio a una procedura di mediazione, nelle controversie indicate all’articolo 2, paragrafo 1, di tale direttiva, come condizione di procedibilità della domanda giudiziale relativa a queste medesime controversie”;
  2. se detta direttiva consenta o meno alla normativa nazionale di prevedere che i consumatori debbano essere assistiti da una avvocato in siffatta mediazione;
  3. da ultimo, se la normativa italiana possa legittimamente subordinare la facoltà per i consumatori di sottrarsi ad un previo ricorso alla mediazione unicamente “…se dimostrano l’esistenza di un giustificato motivo a sostegno di tale decisione”.

A riguardo, la Corte preliminarmente individua l’ambito di applicazione della direttiva 2013/11, la quale si applica non già indiscriminatamente a tutte le controversie che coinvolgono consumatori, bensì esclusivamente a quelle che soddisfino i seguenti presupposti cumulativi:

  1. che la procedura sia stata promossa da un consumatore nei confronti di un professionista, secondo le definizioni contenute nella stessa direttiva;
  2. che la controversia abbia ad oggetto obbligazioni contrattuali discendenti da contratti di vendita o di servizi;
  3. che la procedura azionata rispetti i requisiti di cui all’art. 4, par. 1, lett. g), e, in particolare, risulti essere “indipendente, imparziale, trasparente, efficace, rapida ed equa”;
  4. che la procedura sia affidata ad un organismo ADR, istituito su base permanente, inserito nell’elenco di cui all’art. 20, par. 2.

Una volta chiarita l’applicabilità della direttiva in oggetto al caso di specie, la Corte, in risposta al secondo quesito, così come sopra tripartito, afferma che:

  • la previsione da parte dell’Italia di una mediazione obbligatoria è di per sé legittima in quanto, ai sensi del combinato disposto dell’art. 1 della direttiva 2013/11 e art. 3, lett. a) della direttiva 2008/52, agli Stati membri è riconosciuta la discrezionalità di prevedere l’obbligatorietà della partecipazione alle procedure ADR, purché ciò non impedisca il diritto di accesso delle parti al sistema giudiziario;
  • tale previsione, tuttavia, deve rivelarsi compatibile, in un’ottica di bilanciamento, con il principio della tutela giurisdizionale effettiva; compatibilità da ritenersi esistente “...qualora tale procedura non conduca a una decisione vincolante per le parti, non comporti un ritardo sostanziale per la proposizione di un ricorso giurisdizionale, sospenda la prescrizione o la decadenza dei diritti in questione e non generi costi, ovvero generi costi non ingenti, per le parti, a patto però che la via elettronica non costituisca l’unica modalità di accesso a detta procedura di conciliazione e che sia possibile disporre provvedimenti provvisori nei casi eccezionali in cui l’urgenza della situazione lo impone”;
  • tale giudizio di compatibilità è demandato al giudice nazionale che, nel caso de quo, deve verificare la compatibilità tra la normativa nazionale in oggetto (art. 5 del d.lgs. n°28/2010 e art. 141 cod. consumo) e il suddetto principio;
  • di contro, è certamente in contrasto con gli articoli 8, lett. b) e 9, par. 1, lett. b), la previsione da parte della normativa italiana dell’obbligo di assistenza di un avvocato e ciò in quanto i suddetti articoli espressamente impongono agli Stati di garantire “…che le parti abbiano accesso alla procedura ADR senza essere obbligate a ricorrere a un avvocato o a un consulente legale”, prevedendo altresì un obbligo di informazione in tal senso;
  • parimenti, limitare la possibilità per il consumatore di ritirarsi dalla procedura di mediazione nel solo caso in cui dimostri l’esistenza di un giustificato motivo così come la previsione di sanzioni nel successivo procedimento giurisdizionale in caso di ritiro ingiustificato, sono da considerarsi contrari all’obiettivo perseguito dalla direttiva 2013/11 e al disposto dell’art. 9, par. 2, lett. a) della stessa, che “…impone agli Stati membri di garantire che le parti abbiano la possibilità di riteriarsi dalla procedura in qualsiasi momento se non sono soddisfatte dalle prestazioni o dal funzionamento della procedura”, precisando altresì che, nel caso di previsione da parte della normativa nazionale, della partecipazione obbligatoria del professionista a detta procedura il diritto di ritirarsi deve spettare esclusivamente al consumatore e non anche al professionista;
  • da ultimo, la Corte specifica, alla luce delle dichiarazioni del governo italiano – ad avviso del quale la previsione dell’imposizione di un ammenda da parte del giudice nel successivo procedimento non riguarderebbe il caso in cui lo stesso si sia ritirato bensì nel solo caso di mancata partecipazione senza giustificato motivo – che, qualora ciò sia verificato dal giudice a quo, in tale caso la direttiva non osterebbe a una tale previsione “…purché egli possa porvi fine senza restrizioni successivamente al primo incontro”.

La Corte conclude pertanto, rispondendo alle questioni postele dal giudice italiano nei seguenti termini:

  • «la direttiva 2013/11 dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che prevede il ricorso a una procedura di mediazione, nelle controversie indicate all’articolo 2, paragrafo 1, di tale direttiva, come condizione di procedibilità della domanda giudiziale relativa a queste medesime controversie, purché un requisito siffatto non impedisca alle parti di esercitare il loro diritto di accesso al sistema giudiziario;
  • la medesima direttiva dev’essere invece interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, la quale prevede che, nell’ambito di una mediazione siffatta, i consumatori debbano essere assistiti da un avvocato e possano ritirarsi da una procedura di mediazione solo se dimostrano l’esistenza di un giustificato motivo a sostegno di tale decisione.»

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Risultati immagini per mediazione immagineIl Tribunale di Mantova, con ordinanza 24 settembre 2015, interpreta la disposizione contenuta nell’art. 4 comma 1 D.L. n. 132 del 2014 (secondo cui la mancata risposta all’invito entro trenta giorni dalla ricezione o il suo rifiuto può essere valutato dal giudice ai fini delle spese del giudizio e di quanto previsto dagli artt. 96 e 642, comma 1, c.p.c.) nel senso che la mancata risposta del convenuto all’invito alla negoziazione assistita consente al giudice di concedere la provvisoria esecutività al decreto ingiuntivo, ma non può valere ad esonerare l’istante dal fornire la prova della propria pretesa; e ciò in quanto dalla mera contumacia del convenuto non possono desumersi argomenti di prova ex art. 115 comma 1 c.p.c.

Viene quindi rigettata la domanda di pagamento della somma dovuta a saldo del corrispettivo per la fornitura e posa in opera di alcuni manufatti, proposta  da un signore con ricorso ex art. 702-bis c.p.c., in considerazione del fatto che parte attrice, a fondamento della propria pretesa, aveva prodotto solo una copia della fattura giustificativa del preteso credito ma non aveva formulato alcuna istanza istruttoria.

 

Testo degli artt. 2 e 4 del DL 12/09/2014, n. 132: procedura di negoziazione assistita da uno o più avvocati

Art. 2.  Convenzione di negoziazione assistita da uno o più avvocati

  1. La convenzione di negoziazione assistita da uno o più avvocati è un accordo mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza di avvocati iscritti all’albo anche ai sensi dell’articolo 6 del decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 96.

1-bis.  È fatto obbligo per le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, di affidare la convenzione di negoziazione alla propria avvocatura, ove presente.

  1. La convenzione di negoziazione deve precisare:
  2. a) il termine concordato dalle parti per l’espletamento della procedura, in ogni caso non inferiore a un mese e non superiore a tre mesi, prorogabile per ulteriori trenta giorni su accordo tra le parti;
  3. b) l’oggetto della controversia, che non deve riguardare diritti indisponibili o vertere in materia di lavoro
  4. La convenzione è conclusa per un periodo di tempo determinato dalle parti, fermo restando il termine di cui al comma 2, lettera a).
  5. La convenzione di negoziazione è redatta, a pena di nullità, in forma scritta.
  6. La convenzione è conclusa con l’assistenza di uno o più avvocati.
  7. Gli avvocati certificano l’autografia delle sottoscrizioni apposte alla convenzione sotto la propria responsabilità professionale.
  8. È dovere deontologico degli avvocati informare il cliente all’atto del conferimento dell’incarico della possibilità di ricorrere alla convenzione di negoziazione assistita.

Art. 4.  Non accettazione dell’invito e mancato accordo

  1. L’invito a stipulare la convenzione deve indicare l’oggetto della controversia e contenere l’avvertimento che la mancata risposta all’invito entro trenta giorni dalla ricezione o il suo rifiuto può essere valutato dal giudice ai fini delle spese del giudizio e di quanto previsto dagli articoli 96 e 642, primo comma, del codice di procedura civile.
  2. La certificazione dell’autografia della firma apposta all’invito avviene ad opera dell’avvocato che formula l’invito.
  3. La dichiarazione di mancato accordo è certificata dagli avvocati designati.

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Il nuovo istituto della negoziazione assistita è stato introdotto con il “decreto giustizia” (d.l. n. 132/2014, convertito nella L. n. 162/2014), può essere facoltativo o obbligatorio.
Nel primo caso il ricorso al procedimento in questione viene liberamente scelto dalle parti.
Nel secondo caso la negoziazione costituisce una condizione di procedibilità, imposta dalla legge; come nel caso di: “chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa ad una controversia in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti” e “chi intende proporre in giudizio una domanda di pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti cinquantamila euro”.
I possibili esiti sono: 1) il mancato accordo (e la dichiarazione di mancato accordo è certificata dagli avvocati ex art. 4 comma 3 legge 162/14); 2) il raggiungimento di un accordo.
La convenzione deve contenere, a norma dell’art. 2 del d.l. n. 132/2014, sia il termine concordato dalle parti per l’espletamento della procedura, che non può essere inferiore ad un mese e superiore a tre (salvo proroga di trenta giorni su richiesta concorde delle parti), sia l’oggetto della controversia, che non può riguardare né i diritti indisponibili, né materie di lavoro. Il rifiuto o la mancata risposta entro trenta giorni all’invito a stipulare la convenzione costituirà motivo di valutazione da parte del giudice ai fini dell’addebito delle spese di giudizio, della condanna al risarcimento per lite temeraria ex art. 96 c.p.c. e di esecuzione provvisoria ex art. 642 c.p.c.
Nel caso di raggiungimento dell’accordo gli avvocati certificano l’autografia delle firme e la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico.
Secondo l’art. 5 della legge 162/14 l’accordo che compone la controversia, sottoscritto dalle parti e dagli avvocati che le assistono, costituisce titolo esecutivo e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale.
I difensori che sottoscrivono l’accordo raggiunto dalle parti a seguito della convenzione sono tenuti a trasmetterne copia al Consiglio dell’Ordine circondariale del luogo ove l’accordo è stato raggiunto, ovvero al Consiglio dell’Ordine presso cui è iscritto uno degli avvocati (art. 11, c. 1, legge 162/14).
Sempre secondo l’art. 5 della legge 162/14 se con l’accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti soggetti a trascrizione, per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione del processo verbale di accordo deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato.
Costituisce poi illecito deontologico per l’avvocato impugnare un accordo alla cui redazione ha partecipato.
Novità sul versante fiscale: con la Circolare del 29 luglio 2015 il Ministero della Giustizia ha chiarito che i procedimenti sono esenti dal pagamento del contributo unificato, delle imposte di bollo e dei diritti di copie. Inoltre, sono previsti incentivi fiscali per la negoziazione assistita: chi ha corrisposto un compenso all’avvocato che lo ha assistito nel procedimento di negoziazione assistita concluso con successo o chi ha utilizzato l’arbitrato raggiungendo un lodo finale potrà infatti avanzare richiesta di attribuzione di credito di imposta da conteggiare nella dichiarazione dei redditi, anche in forma di compensazione.

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