[:it]_86135137_polizeiA distanza di pochi mesi dall’entrata in vigore del Regolamento 679/2016/UE del Parlamento e del Consiglio del 27 aprile 2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, il Tribunale di Mantova si è pronunciato su un’interessante questione che coinvolge sempre più genitori e figli: privacy e social media.

La vicenda trae origine da un ricorso dinnanzi al Tribunale civile di Mantova da un padre per la revisione delle condizioni di affido e mantenimento di due figli minori in tenera età (rispettivamente tre anni e mezzo e due anni e mezzo), entrambi residenti con la madre. Nelle more del giudizio i genitori raggiungevano un accordo, inserendo tra le condizioni l’espresso l’obbligo a carico della madre di cancellare le innumerevoli fotografie dalla stessa “postate” sul suo profilo Facebook e di non pubblicarne di nuove. A seguito della mancata cancellazione delle foto il padre si rivolgeva al giudice chiedendo di inibire l’ex compagna dall’inserire altre foto dei figli sui social network e di rimuovere immediatamente quelle già presenti.

Il Tribunale dà ragione al marito, ordinando alla madre la pronta rimozione di ogni foto, con un’interessante motivazione basata non solo sulla violazione dell’espresso accordo raggiunto sul punto dai genitori ma soprattutto sull’interesse superiore dei bambini e sui pregiudizi che potrebbero derivare loro dalla circolazione di detto materiale in rete.

Osserva, infatti il Tribunale che:

  • dal momento che le fotografie dei minori devono considerarsi dati personali ai sensi del d.lgs. 196/2003 (normativa in punto di privacy) e la loro diffusione integra un’illecita “…interferenza nella loro vita privata”;
  • le continue fotografie dei figli postate dalla madre sui social, in violazione degli accordi raggiunti con il padre e contro la volontà di quest’ultimo, integrano la violazione:
    1. dell’art. 10 c.c., che tutela il diritto all’immagine;
    2. del combinato disposto degli articoli 4,7,8 e 145 del d.lgs. 196/2003 nonché degli articoli 1 e 16, co. 1, della Convenzione di New York del 1989 sui diritti del fanciullo;
    3. l’art. 8 del neo- adottato regolamento 679/2016/UE, che entrerà in vigore il prossimo 25 maggio 2018.
  • la presenza di foto dei minori sui social media costituisce altresì un comportamento potenzialmente pregiudizievole per gli stessi dal momento che “…determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto on-line, non potendo inoltre andare sottaciuto l’ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che “taggano” le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati, come ripetutamente evidenziato dagli organi di polizia”.

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[:it]download (1)La PAS (Sindrome da Alienazione Parentale)

Il fallimento della propria unione è difficile da accettare, ancor di più per i propri figli. È per questo che è importante fare capir loro che l’amore del papà e della mamma non verrà mai meno, perché padre e madre si resta anche dopo una separazione.

Aimè, tuttavia, nelle liti familiari che riempiono i tribunali italiani sta emergendo in modo sempre più preoccupante il fenomeno della c.d. alienazione parentale, definita dal celebre psichiatra americano Richard A. Gardner, come: «Un disturbo che insorge quasi esclusivamente nel contesto delle controversie per la custodia dei figli. In questo disturbo, un genitore (alienatore) attiva un programma di denigrazione contro l’altro genitore (genitore alienato). Tuttavia, questa non è una semplice questione di “lavaggio del cervello” o “programmazione”, poiché il bambino fornisce il suo personale contributo alla campagna di denigrazione. È proprio questa combinazione di fattori che legittima una diagnosi di PAS. In presenza di reali abusi o trascuratezza, la diagnosi di PAS non è applicabile».

Nella giurisprudenza degli ultimi anni il riferimento alla PAS sta divenendo sempre più recente, ancorché se l’esistenza e i connotati di questa patologia siano ancora discussi in ambito medico.

La Suprema Corte di Cassazione, con la recente sentenza n°21215 del 13 settembre 2017, si è recentemente imbattuta in un caso di alienazione parentale degno di nota, anche per le misure assunte dai giudici nei primi gradi di giudizio al fine di porvi rimedio.

I primi gradi di giudizio.

La vicenda di cui ci si occupa trae origine da una delle tante cause di divorzio in cui, oltre alle statuizioni in ordine all’assegnazione della casa familiare e al mantenimento per il coniuge e i figli, le parti hanno demandato al Tribunale di Napoli di pronunciarsi sul regime di affido e mantenimento di una figlia minore.

All’esito della CTU svoltasi in primo grado, da cui era emersa una forte manipolazione della bambina ad opera della madre –  tale da spingerla a provare risentimento nei confronti del padre sulla base di motivi artificiosi creati ad arte dalla madre e a rifiutarsi di incontrarlo – il Tribunale partenopeo aveva deciso:

  • di affidare la minore per un periodo di 6 mesi alla zia paterna, disciplinando puntualmente gli incontri dei genitori con la bambina
  • di porre a carico di ambedue i genitori un congruo assegno di mantenimento;
  • di rigettare la domanda di assegnazione della casa familiare e di assegno di mantenimento per il coniuge avanzata dalla madre.

La madre, tuttavia, propone ricorso avverso detta sentenza dinnanzi alla Corte d’Appello di Napoli, chiedendo di disporsi l’affido condiviso della figlia con collocamento prevalente presso la stessa.

La Corte di secondo grado, tuttavia non solo rigetta l’appello della madre ma decide – essendosi concluso il periodo di 6 mesi di affidamento della bambina alla zia paterna – di disporre l’affido esclusivo della piccola al padre, ponendo a carico dell’ex moglie un assegno di mantenimento di € 400,00 e disciplinando degli incontri protetti madre – figlia presso i Servizi Sociali.

Le risultanze della C.T.U.

Alla base della decisione, ancora una volta, gli esiti della C.T.U. svoltasi in primo grado che così ha descritto l’ex moglie, la quale:

  • “…mostra un tratto passivo aggressivo, alternando momenti in cui si percepisce vittima a momenti in cui perseguita lei stessa il C…. percepisce pericoli incombenti da cui difendersi e lottare ed è presente una spinta sadomasochistica con tendenza al vittimismo… tende a voler definire lei il ruolo paterno del sig. C., e durante i colloqui mostra un atteggiamento svalutante nei confronti del padre”;
  • “…non le [alla figlia] riconosce il diritto di amare il suo papà e, in maniera consapevole o inconsapevole, agisce con ricatto morale nei confronti della figlia, al fine di realizzare il proprio progetto di vita con il proprio attuale convivente…”;

Ancor più significative, poi, sono le risultanze con riferimento alla figlia, la quale:

  • “…in presenza della madre, si disperava dicendo di non voler andare con il padre ma, non appena la genitrice si allontanava, subito si rasserenava, confortata dall’affettuosità paterna”;
  • “…non esprime mai un proprio reale bisogno, ma solo il piacere di compiacere la madre, nonché una coatta e forzosa ostilità verso il padre… si riscontra una personalità appiattita e fortemente dipendente dalla madre…”.

Ad avviso dell’esperta nominata dal Tribunale, il condizionamento che aveva subito la minore era di tale entità da rendere insussistenti “…le condizioni per intraprendere un favorevole percorso terapeutico, al fine di agevole la ripresa dei contatti della bambina con il padre…” e da escludere altresì “…l’opportunità dell’affidamento della minore alla madre”.

Il giudizio in Cassazione

La madre decideva di ricorrere avverso detta sentenza sino alla Corte di Cassazione, eccependo che la decisione del giudice di secondo grado era fondata sulla diagnosi della sindrome d’alienazione parentale, senza che la Corte avesse provveduto “…alla verifica scientifica della teoria posta alla base della diagnosi”.

La Suprema Corte, tuttavia, rigetta l’appello della donna sulla scorta delle seguenti condivisibili argomentazioni:

  • preliminarmente, “…l’allegazione, nel ricorso per cassazione, di un mero dissenso scientifico, che non attinga un vizio nel processo logico seguito dalla Corte territoriale, si traduce in una inammissibile domanda di revisione nel merito del convincimento del giudice” (tra le molte, cfr. Cass. sez. I^, sent. 9.1.2009, n. 282);
  • la decisione della Corte d’Appello si è basata non solo sulla C.T.U. espletata ma anche sulle risultanze di uno specialista che ha seguito la bambina nel corso del giudizio d’appello, esprimendo le medesime valutazioni della consulente tecnica e alla conclusione dell’inidoneità della madre all’esercizio della responsabilità genitoriale;
  • dirimente per la decisione della corte d’appello non è stata la ricorrenza di una patologia, quale la PAS, bensì ma “…l’adeguatezza di una madre a svolgere il proprio ruolo nei confronti di una figlia minore che si trova in grave difficoltà, avrebbe bisogno del sostegno di entrambi i genitori, ma non riceve la collaborazione di cui ha bisogno dalla madre, in base alle univoche risultanze di causa…”;
  • la Corte d’Appello, infatti, ha correttamente fatto proprie le risultanze della CTU svoltasi in primo grado, dalla quale è emerso che “la P. ha cercato di esautorare il C., padre della piccola A. e di sostituirlo, nello svolgimento del ruolo paterno, con la figura del suo attuale compagno convivente. Infatti la stessa P. dichiarava che la figlia chiamava “papà” il compagno della mamma”.

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kate-separatedLa rottura del nucleo familiare comporta assai spesso la rideterminazione di equilibri, spazi e ruoli. Questo processo, tuttavia, non sempre avviene armonicamente tra i genitori. Anzi, sin troppo spesso assistiamo nelle aule di Tribunale così come nell’intimità della casa ad ex che, incapaci di elaborare il lutto della fine della propria relazione, tentano in ogni modo di allontanare i figli dai propri ex, screditandoli costantemente ai loro occhi sia come persone che come genitori.

Il Tribunale di Cosenza, di recente, si è occupato dell’ennesimo caso di alienazione parentale, che ha visto coinvolti non solo i genitori e il figlio minore ma anche le rispettive famiglie. La vicenda si snoda all’interno di un giudizio per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, durato 3 anni, e vede come protagonista il giovane figlio di una coppia divorzianda che manifesta una forte ostilità nei confronti della madre, a cui fa da contrappeso un rapporto para-simbiotico con la figura paterna.

All’esito della ctu disposta, gli specialisti evidenziavano un avanzato processo di alienazione della figura materna, rinvenendone le radici nella costante opera di svilimento operata dal marito e della sua famiglia di origine, il tutto alla presenza dello stesso minore. Quest’ultimo, troppo giovane e troppo attaccato al padre per poter avere una sua visione critica ed autonoma, aveva infatti fatto proprie le costanti critiche rivolte alla madre, finendo col disprezzarla immotivatamente e a non volere avere più contatti con la stessa.

Proprio a causa delle risultanze della C.T.U., il Tribunale, il giudice di prime cure ritiene:

  • di dover rigettare la richiesta di affido esclusivo del bambino al padre, avanzata da quest’ultimo, non essendo la relativa domanda sorretta da “valide motivazioni circa l’idoneità genitoriale della resistente” ed avendo il padre manifestato una grave inidoneità genitoriale, derivante dalla sua incapacità a preservare e garantire “…la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore” (in senso conforme, Corte di Cassazione, sez. I^ Civile, sentenza n°6919/16), tale da rischiare di determinare un’ulteriore marginalizzazione della figura materna agli occhi del minore;
  • di non poter disporre tantomeno l’affido esclusivo del bambino alla madre, peraltro non richiesto dalla stessa, in quanto, non “… pronta, in ragione dei tratti caratteriali e temperamentali ben delineati dalla ctu e dalla oggettiva problematicità dell’attuale dinamica relazionale con il figlio, ad assumersi le correlate responsabilità ….”;
  • di dover escludere altresì la prosecuzione del regime dell’affidamento condiviso, in considerazione dell’assenza di risultati positivi durante i tre anni di giudizio, nonché della “…incapacità dei genitori di gestire il conflitto personale con modalità idonee a preservare l’equilibrio psichico del figlio…”;
  • di non poter disporre l’affido del minore tantomeno ai membri delle rispettive famiglie di origine, non avendo i genitori fornito l’indicazione di “…persone affettivamente vicine al minore in grado di assumere la responsabilità dell’affidamento e di svolgerne i compiti mantenendo una posizione equidistante rispetto alle due figure genitoriali”.

In conclusione, pertanto, il Giudice ritiene percorribile unicamente la via dell’affidamento del bambino ai Servizi Sociali, con collocamento prevalente presso la casa paterna, sulla scorta del seguente ordine di motivi:

  • pur in assenza di un’espressa previsione legislativa, il giudice ha il potere-dovere di disporre tale forma di affidamento, rientrando la stessa nei provvedimenti che il giudice ha il potere-dovere di adottare, ai sensi dell’art. 337-ter, co. 1 c.c. “con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa”;
  • l’affido ai servizi sociali appare l’unica via percorribile al fine anche di monitorare costantemente i rapporti tra i genitori e con il figlio, favorendo un progressivo riequilibrio degli stessi;
  • nonostante in astratto il rimedio da adottarsi in caso di alienazione parentale consista nell’immediato “allontanamento del minore dal genitore alienante”, purtuttavia, la giovanissima età del minore rende in concreto tale rimedio impercorribile, con conseguente necessità di confermare il prevalente collocamento dello stesso presso la casa paterna.

Da ultimo, il Tribunale decide altresì di ammonire il padre ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c. nonché di condannarlo al risarcimento dei danni endofamiliari causati tanto al diritto del figlio alla bigenitorialità quanto al diritto della madre ad intrattenere rapporti continuativi e costanti con quest’ultimo, quantificati in via equitativa in € 5.000,00 cadauno, sulla “della condizione di disagio psichico in cui versa il minore, della durata della emarginazione della figura materna, delle presumibili sofferenze patite dalla (madre) per il distacco fisico ed emotivo dal figlio, e, per altro verso, della già evidenziata concorrente responsabilità di quest’ultima…”.

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Risultati immagini per immagine usuraLa Sesta Sezione della Corte di Cassazione, con ordinanza 4 ottobre 2017 n. 23192, si è espressa ancora una volta sulla delicata e controversa questione del superamento del tasso soglia in materia di usura bancaria e, inparticolare, sulla questione riguardante la possibilità di sommare tra loro gli interessi corrispettivi e quelli moratori.

I giudici, respingendo il ricorso di un istituto bancario ha affermato che in tema di contratto di mutuo, l’art. 1 della legge n. 108 del 1996, che prevede la fissazione di un tasso soglia al di là del quale gli interessi pattuiti debbono essere considerati usurari, riguarda sia gli interessi corrispettivi che quelli moratori. Si incorre pertanto in errore allorché si ritenga in maniera apodittica che il tasso di soglia non sia superato solo perché non sarebbe consentito cumulare gli interessi corrispettivi a quelli moratori al fine di accertare il superamento del detto tasso.

In altri termini: si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento; il legislatore, infatti, ha voluto sanzionare l’usura perché realizza una sproporzione oggettiva tra la prestazione del creditore e la controprestazione del debitore.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza 4 ottobre 2017, n. 23192
Presidente Scaldaferri – Relatore Ferro

Fatti di causa

Rilevato che:
1. Bancapulia s.p.a., che aveva domandato l’ammissione al passivo per un credito vantato in virtù di un contratto di mutuo fondiario del 3.8.2001, impugna il decreto Trib. Matera 19.5.2016, in R.G. 1667/2013, con cui è stata rigettata la sua opposizione allo stato passivo del fallimento (omissis) s.p.a.;
2. il tribunale, concordemente con quanto già affermato dal giudice delegato, ha ritenuto che la banca deve essere ammessa al passivo con riferimento alla sola sorte capitale, non potendo essere riconosciuti gli interessi moratori: come emerso dalla c.t.u., al momento della pattuizione il tasso degli interessi moratori era superiore al tasso soglia, vertendosi, così, in ipotesi di usura originaria (e non in quella di usura sopravvenuta come dedotto dalla banca) e, conseguentemente, ai sensi dell’art. 1815 c.c., la pattuizione del tasso di mora era considerata nulla e nessun interesse spettava;
3. con il ricorso si deduce in unico motivo la violazione e falsa applicazione dell’art. 1815 c.c. e della l. 108/1996, in quanto il tribunale ha erroneamente rilevato che, al fine del superamento del tasso soglia, si deve valutare l’eventuale usurarietà originaria del tasso di mora e posto che, nel caso di affermata nullità degli interessi usurari moratori, detta nullità non potrebbe colpire gli interessi corrispettivi i quali non superino il tasso soglia.

Ragioni della decisione

Considerato che:
1. l’art. 1815, co. 2, c.c. stabilisce che “se sono dovuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi” e ai sensi dell’art. 1 d.l. 29 dicembre 2000, n. 394, convertito in l. 28 febbraio 2001, n. 24, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento; il legislatore, infatti, ha voluto sanzionare l’usura perché realizza una sproporzione oggettiva tra la prestazione del creditore e la controprestazione del debitore;
2. il ricorso è manifestamente infondato; come ha già avuto modo di statuire la giurisprudenza di legittimità “è noto che in tema di contratto di mutuo, l’art. 1 della l. n. 108 del 1996, che prevede la fissazione di un tasso soglia al di là del quale gli interessi pattuiti debbono essere considerati usurari, riguarda sia gli interessi corrispettivi che quelli moratori (Cass. 4 aprile 2003, n. 5324). Ha errato, allora, il tribunale nel ritenere in maniera apodittica che il tasso di soglia non fosse stato superato nella fattispecie concreta, solo perché non sarebbe consentito cumulare gli interessi corrispettivi a quelli moratori al fine di accertare il superamento del detto tasso” (Cass. ord. 5598/2017; con principio già affermato da Cass. 14899/2000).
Il ricorso è dunque infondato e va rigettato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Ai sensi dell’art. 13, co. 1-quater, d.P.R. 115/02, come modificato dalla l. 228/12, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del co. 1-bis dello stesso art. 13[:]

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Protagonisti della vicenda in esame è una coppia siriano-tedesca, formata da Soha Sahyouni e Raja Mamisch, entrambi residenti in Germania. Nel 2013, il marito recava in Siria per chiedere il divorzio dalla moglie e il suo rappresentante pronunciava la formula di rito davanti a un tribunale religioso. Successivamente, la moglie sottoscriveva una dichiarazione nella quale “riconosceva di avere ricevuto tutte le prestazioni che, secondo la normativa religiosa, le erao dovute in base al contratto di matrimonio e a causa del divorzio unilaterale del marito, liberandolo da ogni obbligo nei suoi confronti”.

Di rientro in Europa, l’uomo chiedeva e otteneva il riconoscimento del divorzio in Germania, da Tribunale regionale superiore (Oberlandesgericht) di Monaco di Baviera. Il provvedimento veniva contestato dalla moglie.

In questo caso a essere sotto accusa è il cosiddetto “triplo talaq”: la possibilità, solo per l’uomo, di pronunciare 3 volte, nell’arco di diverse settimane, la formula “Io divorzio da te” e sciogliere così il vincolo matrimoniale. Cosa che per la coppia siriano-tedesca era avvenuta nel 2013 quando l’uomo si era recato in Siria per farsi riconoscere l’annullamento del matrimonio secondo la formula islamica.

L’avvocato generale della Corte Ue, nelle allegate conclusioni,  sostiene che i cosiddetti divorzi privati islamici violano il principio di non discriminazione di genere sancito dalla Carta dei diritti fondamentali, in quanto (in base alla sharia) sono soltanto i mariti a poterli richiedere. Non vanno inoltre riconosciuti entro i confini dell’Unione europea, poiché pronunciati senza la decisione con effetto costitutivo. il regolamento non è applicabile perché “Il diritto siriano non conferisce alla moglie le medesime condizioni di accesso al divorzio concesse al marito”. Una circostanza considerata “discriminatoria” e che impedisce alle autorità degli stati membri dell’Unione europea di riconoscere i divorzi religiosi ottenuti in questo modo. I giudici nazionali degli Stati UE non devono riconoscere atti di tribunali islamici che pongono la donna in uno stato di inferiorità, nemmeno se questa vi ha acconsentito.

A ciò si aggiunga che il regolamento europeo del 2010, cd. regolamento Roma III, non estende la sua efficacia a divorzi “privati” che sono decretati in sistemi giuridici di ispirazione mussulmana e ammettono che il matrimonio possa sciogliersi per volontà dello sposo. In essi manca, infatti, l’intervento sia di un’autorità giurisdizionale nazionale che di un’autorità pubblica.

Per l’avvocato generale quindi non ci sono dubbi: il divorzo islamico non va riconosciuto. L’ultima parola, però, spetta alla Corte di giustizia.

In attesa della sentenza della Corte di Giustizia sul punto, queste sono le conclusioni (qui sotto allegate) dell’avvocato generale Saugmandsgaard Øe in merito alla vicenda di cui alla causa C-372/2016.[:]

[:it]Niente assegno di divorzio dal marito ricco all’ex moglie, professoressa.

Lo afferma la Corte di cassazione, con sentenza 29 agosto 2017 n. 205235, ribadendo i principi già esposti nella nota sentenza n. 11504 del 10 maggio scorso.

La donna, insegnante di matematica, proprietaria dell’abitazione in cui risiede e che aveva effettuato alcuni investimenti immobiliari, si era rivolta al tribunale di Fermo per ottenere un assegno di divorzio. Una richiesta motivata dalla necessità di mantenere lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio e dal fatto che la condizione economica dell’ex marito era più vantaggiosa rispetto alla sua.

Il tribunale di Fermo accoglieva la richiesta della donna, ritenendo che il mantenimento dovuto «in ragione della forte sproporzione delle situazioni reddituali e patrimoniali tra le parti e al fine di una conservazione, almeno tendenziale, in favore del coniuge economicamente più debole del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio».

L’uomo presentava ricorso alla Corte di Appello di Ancona, la quale, non solo confermava la sentenza di primo grado, ma condannava l’ex marito all’intero pagamento delle spese sia per il procedimento in primo grado che per quello dell’appello.

A questo punto al marito non rimaneva che presentare ricorso in Cassazione. L’uomo si doleva del fatto che i giudici di merito non avevano in alcun modo dato un peso al fatto che lui aveva dato alla ex 157 mila euro prima della pronuncia di divorzio, nè valorizzato il fatto che la signora era tutt’altro che bisognosa. La donna poteva contare, infatti, sul suo stipendio di professoressa di matematica, su un’abitazione di proprietà, oltre che sui frutti di vari investimenti immobiliari. Dalla situazione economica era chiaro, secondo il ricorrente, che non c’erano i presupposti per l’assegno.

I giudici della sesta sezione ribaltano la “doppia conforme” a favore della moglie, facendo perdere la partita finale alla signora. «Si ritiene – nella motivazione nella sentenza – che il ricorso deve essere accolto dando così continuità alla recente giurisprudenza di questa Corte n. 11504 del 10 maggio 2017, secondo cui il diritto all’assegno di divorzio è condizionato dal suo previo riconoscimento in base a una verifica giudiziale». Se per i giudici di primo e secondo grado andava data importanza alla circostanza che tra situazione patrimoniale e reddituale dell’uomo e quella della donna esisteva una forte sproporzione, la Corte di Cassazione ha completamente ribaltato il principio, nel senso che gli aspetti ai quali dare rilevanza per definire se l’ex moglie ha diritto all’assegno di divorzio sono altri. I giudici di primo e secondo grado avrebbero dovuto valutare che la donna è insegnante di matematica, ha effettuato investimenti immobiliari ed ha un’abitazione di proprietà. In pratica, è necessario accertare se l’ex coniuge richiedente l’assegno ha veramente diritto ad ottenerlo, in base al principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali persone singole, e solo dopo si potrà quantificare l’importo.

il matrimonio non può più essere considerato un’assicurazione sulla vita.[:]

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kate-separatedIl Tribunale civile di Roma ha recentemente chiarito, con decreto del 7 marzo 2017, quali sono le condizioni necessarie per l’accoglimento della domanda di affido esclusivo dei figli minori.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da una madre per la regolamentazione dell’affido e del mantenimento del figlio, nato da una relazione con un uomo già sposato e con figli. Nella domanda introduttiva la ricorrente sosteneva che, sin dalla nascita del piccolo, il padre aveva contribuito solo in minima parte al suo mantenimento, vedendolo solo in poche occasioni, chiedendo pertanto l’affido condiviso con collocamento prevalente del bambino presso di sé e, in subordine, l’adozione di “…altre forme di affidamento ritenute più opportune dal Tribunale”.

Il padre, costituitosi in giudizio, aderiva alla domanda di affido condiviso, manifestando la disponibilità a vedere il minore una volta al mese, stante gli impegni lavorativi e la distanza geografica.

All’esito dell’udienza presidenziale, la Corte romana disponeva l’affido condiviso del minore con collocamento prevalente presso la madre e il “…diritto dovere del padre di vederlo e tenerlo con sé almeno cinque giorni al mese, al fine di instaurare una relazione continuativa”.

Il Tribunale, tuttavia, a conclusione del giudizio, disponeva la modifica del regime di affidamento, disponendo l’affido esclusivo del minore presso la madre, sulla base delle seguenti motivazioni:

  • non avendo il legislatore tipizzato le condotte ostative integranti la fattispecie di cui all’art. 337 quater c.c. – ai sensi del quale può derogarsi alla regola dell’affido esclusivo solo ove questo risulti “…contrario all’interesse del minore” – “… la loro individuazione è rimessa alla decisione del giudice, da adottarsi nelle fattispecie concrete con provvedimento motivato”;
  • richiamando la giurisprudenza della Suprema Corte, una deroga al regime dell’affido condiviso deve essere debitamente motivata tanto in positivo, per quanto attiene all’idoneità del genitore affidatario, quanto in negativo, in relazione all’inidoneità educativa dell’altro genitore;
  • le “ipotesi di affidamento esclusivo sono individuabili ogni qualvolta l’interesse del minore possa essere pregiudicato da un affidamento condiviso…” e rinvenibili nei casi in cui il genitore, a titolo esemplificativo, “…sia indifferente nei confronti del figlio, non contribuisca al mantenimento del figlio, manifesti un disagio esistenziale incidente sulla relazione affettiva, ecc.”

Alla luce di quanto sopra, il Tribunale di Roma ha ritenuto che i comportamenti tenuti dal padre integrano le ipotesi giustificative di una deroga alla regola del regime condiviso:

  • avendo il padre, a fare data dall’adozione dei provvedimenti presidenziali, incontrato il bambino in pochissime occasioni, accampando pretestuose ragioni di carattere lavorativo e difficoltà di carattere economico, non presentandosi neppure il giorno del suo compleanno e ciò nonostante l’ampia disponibilità data alla madre a favorire detti incontri;
  • non avendo il padre mai dimostrato nei confronti del piccolo “…interesse alla sua vita, alla sua condizione di salute, ai suoi impegni”.

Proprio in virtù della totale incapacità del genitoriale, il Tribunale romano opta pertanto per un affido esclusivo alla madre “…per tutte le questioni attinenti al figlio, anche qualora relative a scelte di maggiore rilevanza, compresa la scelta della residenza abituale del minore, con totale esclusione da tali scelte del padre”.

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Risultati immagini per foto tradimentoRisultati immagini per foto tradimentoL’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, rescindendo ogni connessione con il tenore e il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire meno definitivamente ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge”.

Lo ha nuovamente ribadito la Corte di Cassazione con ordinanza n. 18111 depositata lo scorso 21 luglio.

La vicenda in esame

La Corte d’appello di Cagliari, con sentenza del 18/9 – 2/10/2015, escludeva il diritto dell’ex moglie a percepire l’assegno divorzile, risultando la stessa convivente con un nuovo compagno.

Avverso tale pronuncia, la donna presentava ricorso in Cassazione, eccependo la fine della convivenza sin dal 2008 – ovvero prima ancora dell’inizio del giudizio di primo grado – e richiedendo pertanto il riconoscimento dell’assegno divorzile.

La Cassazione, con ordinanza 21 luglio 2017, n. 18111 rispingeva il ricorso, affermando che il diritto all’assegno divorzile non discende dalla situazione attuale del coniuge economicamente più debole, ma può essere riconosciuto solamente laddove sussista ancora un collegamento con il tenore ed il modello di vita che caratterizzava il periodo di convivenza matrimoniale. E ciò in quanto la nuova convivenza stabile e continua, costituendo “un modello di vita in comune, analogo a quello che di regola caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio”, è tale da rescindere ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, con ciò, ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile.

Oltretutto – prosegue la decisione –  la formazione di una famiglia di fatto è sempre l’espressione di una scelta libera e consapevole, scelta che determina la cessazione del dovere di solidarietà patrimoniale tra gli ex coniugi e che, contestualmente, comporta l’assunzione di un rischio in relazione alle vicende successive della famiglia di fatto, ivi compresa la possibilità che tale rapporto di convivenza possa cessare.

Conseguentemente, una volta che il dovere di solidarietà patrimoniale tra ex coniugi è venuto meno a seguito della creazione di una nuova famiglia di fatto, esso non potrà rivivere neppure in caso di rottura del rapporto di convivenza.[:]

[:it] 

Risultati immagini per immagine assegno mantenimentoUn uomo viene condannato in sede di appello a versare alla moglie un assegno mensile da 650 euro, comprensivo della rata del mutuo contratto per l’acquisto della casa coniugale.

E ciò in considerazione del fatto:

  • che l’accordo di separazione stipulato dai coniugi prevedeva il marito dovesse versare alla moglie, per il mantenimento di lei e delle figlie, la somma di 1.500 euro mensili, comprensiva della rata di mutuo e delle spese per le utenze domestiche;
  • che la moglie non aveva più svolto attività lavorative retribuite di carattere continuativo, nè poteva rilevare la sua astratta attitudine al lavoro, difettando comunque qualunque concreta capacità di guadagno;
  • che, invece, il marito invece poteva contare su una fonte di reddito stabile e continuativa, esercitando la professione di promotore finanziario;
  • che, in proposito, la dichiarazione dei redditi da lui prodotta, e da cui emergeva un reddito mensile netto di neanche 1.500 euro, non poteva ritenersi attendibile, in quanto detto importo non era certo sufficiente a far fronte agli esborsi mensili sostenuti dall’uomo, quali il pagamento dell’assegno di 837,60 euro per le due figlie e altre spese fisse; le rate del mutuo ipotecario, pari a 550 euro; i canoni di locazione di 430 euro e di 110 euro, rispettivamente per l’abitazione e l’ufficio …

Di qui l’evidente consistente disparità economica tra i coniugi.

Detta valutazione viene ritenuto corretta anche dalla Cassazione, che, con ordinanza 20 luglio 2017 n. 17971 conferma l’assegno di mantenimento in favore della donna.

Irrilevante deve ritenersi la sua potenziale attitudine al lavoro, poiché, ad avviso della Corte di legittimità, è mancato ogni riscontro sulla effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa, in considerazione di ogni concreto fattore individuale e ambientale, e non già di mere valutazioni astratte e ipotetiche.

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[:it]kate-separatedIn questi tempi di crisi crearsi una nuova vita dopo la separazione può essere arduo, soprattutto dal punto di vista economico, a causa della (quasi) duplicazione delle spese a cui il nucleo familiare, oramai scisso, è destinato inesorabilmente ad andare incontro.

Di qui l’idea di due coniugi comaschi, che da tempo vivevano come “separati in casa” di rivolgersi congiuntamente al Tribunale di Como per sentir pronunciare la loro separazione personale senza tuttavia interrompere la convivenza sotto lo stesso tetto. La coppia, infatti, motivava la propria scelta su basi prettamente economiche, consistenti nella necessità e volontà di utilizzare i propri risparmi per la crescita del figlio e l’assistenza sanitaria della moglie, ritenendo maggiormente sostenibile e conveniente continuare a usufruire della stessa casa congiuntamente, seppur dormendo in camere separate, sino a quando, in un incerto futuro, uno dei due avesse potuto permettersi di prendere un’altra abitazione in affitto.

Il Tribunale lombardo, tuttavia, rigetta l’istanza d’omologa. A non convincere il giudicante sarebbero le seguenti considerazioni in fatto:

  • la finalità assistenziale nei confronti del figlio ben poteva essere soddisfatta vivendo in separate case, non essendo la situazione economica dei genitori tale da pregiudicare una sua crescita “dignitosa”, perdipiù in considerazione dei non irrilevanti risparmi che i genitori avevano già messo da parte per le sue future esigenze;
  • le asserite necessità di assistenza sanitaria della moglie apparivano generiche e prive di sostegno probatorio;
  • i coniugi non avevano fissato un termine a questa forma ibrida di convivenza, limitandosi a far dipendere l’abbandono della casa da parte di uno dei due a un miglioramento delle loro condizioni economiche, improbabile essendo i due dipendenti;

Ad avviso del Tribunale, inoltre, presupposto della separazione è proprio l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, con la conseguenza che “…l’ordinamento non può dare riconoscimento, con le relative conseguenze di legge, a soluzioni “ibride” che contemplino il venir meno tra i coniugi di gran parte dei doveri derivanti dal matrimonio, pur nella persistenza della coabitazione, la quale ex art. 143 cc costituisce anch’essa uno di questi doveri e rappresenta la “cornice” in cui si inseriscono i vari aspetti e modi di essere della vita coniugale”;

Ad avviso del Tribunale di Como dunque, se “…è vero che in costanza di matrimonio tale dovere può essere derogato, per accordo tra i coniugi, nel superiore interesse della famiglia, per ragioni di lavoro, studio ecc.. sì da non escludere la comunione di vita interpersonale (cfr. Cass. 19439/11, 17537/03), ma ciò non autorizza a ritenere il contrario, cioè ad affermare la validità di un accordo (con le conseguenze di legge della separazione) volto a preservare e legittimare la mera coabitazione una volta che sia cessata la comunione materiale e spirituale tra le parti”.

Nell’ultima parte motiva emerge tuttavia una seconda ragione dagli aspetti ben più pratici: il rischio che, acconsentendo ad una separazione che prescinda dall’interruzione della convivenza, si facilitino “operazioni elusive o accordi simulatori”, a cui, aimè, assai spesso coppie ricorrono per opportunità e/o necessità al fine, soprattutto, di ottenere benefici fiscali.

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