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downloadLa Suprema Corte di Cassazione è recentemente ritornata – con ordinanza 5 dicembre 2016 – 8 marzo 2017, n°6009 –  sugli effetti di un’intervenuta stabile convivenza sul diritto dell’ex coniuge all’attribuzione dell’assegno divorzile.

La vicenda origina dal ricorso vittorioso presentato da un ex marito nei confronti del provvedimento con cui la Corte d’Appello di Bologna, in riforma parziale della sentenza di divorzio del Tribunali di Rimini, aveva riconosciuto il diritto all’attribuzione di un assegno divorzile in favore dell’ex moglie, ancorché da tempo coabitante con il nuovo compagno, sul presupposto della mancata prova dell’esistenza di una piena comunione spirituale e materiale tra i due.

La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso, rileva l’esistenza di un’ipotesi di motivazione meramente apparente, affermando l’assoluta illogicità della distinzione tra mera coabitazione e convivenza more uxorio. Ad avviso della Corte, infatti, una volta comprovata la stabile convivenza – come nel caso di specie, in cui la resistente aveva per giunta da tempo trasferito a casa del compagno la propria residenza anagrafica – non può ragionevolmente porsi sull’ex coniuge obbligato al mantenimento anche “…l’onere di dimostrare il grado di intimità che intercorre tra la coppia”.

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downloadAll’indomani della legge n°76/2016, c.d. legge Cirinnà, che per la prima volta ha riconosciuto e disciplinato la tutela nel nostro ordinamento delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, ad accendere il dibattito tra sostenitori della famiglia tradizionale e quelli della “gender-equality” è intervenuta una rivoluzionaria pronuncia della Corte d’Appello di Trento che ha accolto la domanda di una coppia sposata all’estero, che aveva avuto un figlio ricorrendo alla pratica del c.d. “utero in affitto”, al fine di veder riconosciuto anche in Italia il rapporto di filiazione con ambedue i padri, a prescindere dalla sussistenza di una relazione genetica con entrambi.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da due uomini di nazionalità italiana, legalmente sposati negli Stati Uniti, avverso il rifiuto opposto dall’Ufficiale di stato civile di un comune italiano alla trascrizione della sentenza con cui una corte statunitense aveva accertato l’esistenza del loro rapporto genitoriale con un figlio avuto ricorrente alla pratica della procreazione medicalmente assistita, prescindendo dalla mancanza di legami genetici con uno dei due padri.

A sostegno della propria richiesta la coppia affermava:

  • di aver fatto legittimamente ricorso alla procreazione medicalmente assistita in uno Stato che non poneva, diversamente che in Italia, restrizioni sulla base del genere;
  • che, in applicazione della legge del luogo di nascita dei due gemelli, era stato originariamente riconosciuto quale unico genitore il padre che aveva donato il proprio seme (non anche la madre gestante) e, in un secondo momento anche il padre non biologico;
  • che ambedue i genitori avevano assunto sin da subito il ruolo di padre e come tali erano riconosciuti dai bambini e dalla cerchia di amici, familiari e colleghi;
  • che, pertanto, la trascrizione della sentenza straniera, tutelando il diritto dei minori alla bigenitorialità, non poteva essere negata, non sussistendo alcun conflitto con l’ordine pubblico né internazionale né interno;
  • che la presenza di due genitori dello stesso sesso non poteva considerarsi pregiudizievole per il benessere del bambino, stante “…l’irrilevanza dell’orientamento sessuale del genitore per giudicare il benessere del bambino”, accertata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Contrario all’accoglimento del ricorso è invece il Procuratore generale e il Ministero dell’interno, ad avviso dei quali il riconoscimento in Italia di una tale sentenza avrebbe contrastato con l’ordine pubblico interno italiano, costituito da quell’insieme di interessi e principi fondamentali che si rinvengono nella nostra Costituzione. Ad avviso, in particolare, del Ministero dell’interno, il padre non biologico potrebbe ricevere già tutela ricorrendo alla disciplina dell’adozione in casi particolari, adottando pertanto il figlio del padre biologico. Questa soluzione, ad avviso delle istituzioni, “…rappresenta, nel presente momento storico, l’equilibrio più avanzato raggiunto dall’ordinamento tra i vari orientamenti sociali e culturali”.

La Corte è invece di diverso avviso, accogliendo il ricorso dei due papà con la seguente motivazione.

In primis, secondo la Corte non si può impedire il riconoscimento del rapporto di filiazione ricorrendo all’eccezione di ordine pubblico, perché la scelta del legislatore ordinario di non permettere l’adozione a coppie gay non risponde a principi o interessi fondamentali sanciti dalla Costituzione.
Passando poi all’interesse superiore del minore, la Corte rileva che tanto la legge n°218/95 (legge di riforma dell’ordinamento di diritto internazionale privato italiano) quanto l’art. 8, par. 1 della Convenzione di New York del 1989 sui diritti del Fanciullo, riconoscono il “…diritto del minore a conservare lo status di figlio riconosciutogli in un atto validamente formato in altro Stato” con conseguente evidente pregiudizio per i minori in caso di mancato riconoscimento dello status filiationis (lo status di figlio) in quanto:

  • i figli non godrebbero in Italia nei confronti del padre non biologico di “…tutti i diritti che a tale status conseguono;
  • i figli sarebbero altresì “…pregiudicati anche sotto il profilo della perdita dell’identità familiare…” legittimamente acquisita nello Stato estero.

Di contro, il diritto dei due bambini alla bigenitorialità, ancorché non assoluto, non potrebbe legittimamente essere pregiudicato, stante l’assenza nel presente caso di antitetici…altri interessi e valori di rilevanza costituzionale primaria e vincolanti per il legislatore italiano” e ciò in quanto:

  • il mero divieto previsto dalla l. n°40/04 della possibilità per coppie di sesso diverso di ricorrere a procreazione assistita non può essere considerato “…espressione di principi fondamentali costituzionalmente garantiti;
  • le conseguenze previste dalla legge 40/14 in capo agli adulti che ricorrono illegalmente ad una pratica di negoziazione assistita non possono “…determinare la negazione del riconoscimento ai minori dello status filiationis legittimamente acquisito all’estero…”;
  • l’assenza di legame genetico tra i figli e il ricorrente non può essere di ostacolo al riconoscimento del rapporto di filiazione tra gli stessi già riconosciuto all’estero, “…dovendosi escludere che nel nostro ordinamento vi sia un modello di genitorialità esclusivamente fondato sul legame biologico fra genitore ed il nato”.

La Corte, pertanto, conclude accogliendo il ricorso e dichiarando l’efficacia nell’ordinamento italiano del provvedimento della corte statunitense che aveva dichiarato la paternità anche al padre non biologico.

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imagesAll’indomani della legge n°76/2016, c.d. legge Cirinnà, che per la prima volta ha riconosciuto e disciplinato la tutela nel nostro ordinamento delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, ad accendere il dibattito tra sostenitori della famiglia tradizionale e quelli della “gender-equality” è intervenuta una rivoluzionaria pronuncia della Corte d’Appello di Trento che ha accolto la domanda di una coppia sposata all’estero, che aveva avuto un figlio ricorrendo alla pratica del c.d. “utero in affitto”, al fine di veder riconosciuto anche in Italia il rapporto di filiazione con ambedue i padri, a prescindere dalla sussistenza di una relazione genetica con entrambi.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da due uomini di nazionalità italiana, legalmente sposati negli Stati Uniti, avverso il rifiuto opposto dall’Ufficiale di stato civile di un comune italiano alla trascrizione della sentenza con cui una corte statunitense aveva accertato l’esistenza del loro rapporto genitoriale con un figlio avuto ricorrente alla pratica della procreazione medicalmente assistita, prescindendo dalla mancanza di legami genetici con uno dei due padri.

A sostegno della propria richiesta la coppia affermava:

  • di aver fatto legittimamente ricorso alla procreazione medicalmente assistita in uno Stato che non poneva, diversamente che in Italia, restrizioni sulla base del genere;
  • che, in applicazione della legge del luogo di nascita dei due gemelli, era stato originariamente riconosciuto quale unico genitore il padre che aveva donato il proprio seme (non anche la madre gestante) e, in un secondo momento anche il padre non biologico;
  • che ambedue i genitori avevano assunto sin da subito il ruolo di padre e come tali erano riconosciuti dai bambini e dalla cerchia di amici, familiari e colleghi;
  • che, pertanto, la trascrizione della sentenza straniera, tutelando il diritto dei minori alla bigenitorialità, non poteva essere negata, non sussistendo alcun conflitto con l’ordine pubblico né internazionale né interno;
  • che la presenza di due genitori dello stesso sesso non poteva considerarsi pregiudizievole per il benessere del bambino, stante “…l’irrilevanza dell’orientamento sessuale del genitore per giudicare il benessere del bambino”, accertata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Contrario all’accoglimento del ricorso è invece il Procuratore generale, il quale:

  • eccepiva l’incompetenza della Corte a conoscere dell’opposizione al rifiuto di trascrizione;
  • riteneva la domanda dei ricorrenti contrastante con l’ordine pubblico interno italiano;
  • riteneva non sussistente nel diritto della CEDU “…un diritto incondizionato alla paternità o alla maternità”.

L’importanza della questione spingeva anche il Ministero dell’interno ad intervenire “…a difesa del provvedimento assunto dal Sindaco nella veste di Ufficiale di Governo”:

  • contestando la regolarità formale della notifica al Sindaco presso gli uffici dell’Avvocatura dello Stato;
  • ritenendo contrastante con l’ordine pubblico il riconoscimento del rapporto di filiazione in assenza di alcuna relazione biologica;
  • ritenendo inapplicabile alle unioni civili tra persone dello stesso sesso, per espressa previsione della legge 76/16, le norme in materia di filiazione;
  • affermando che la possibilità di ricorrere all’adozione in casi particolari del figlio dell’altro partner “…rappresenta, nel presente momento storico, l’equilibrio più avanzato raggiunto dall’ordinamento tra i vari orientamenti sociali e culturali”, in quanto conferisce rilievo giuridico a detta relazione, tutelando adeguatamente gli interessi morali e materiali dei minori.

La Corte, pronunciandosi sulla questione, preliminarmente:

– rigetta l’eccezione d’incompetenza avanzata dal Procuratore generale, ritenendo oggetto del presente giudizio esclusivamente “…il riconoscimento dell’efficacia nell’ordinamento italiano ex art. 67 della legge n°218 del 1995, del provvedimento (…) con il quale si accerta che è stata instaurata una relazione di genitorialità…”;

– nega la posizione di parte del procedimento del Sindaco, con conseguente irrilevanza degli eccepiti vizi di notifica del ricorso allo stesso;

– dichiara inammissibile l’intervento del Ministero degli interni, negando l’esistenza di un attuale interesse dello stesso ad intervenire alla luce del “…l’assenza di domande di risarcimento dei danni nel presente giudizio…”, ritenendo già debitamente tutelato dall’intervento in giudizio del Procuratore generale l’unico interesse pubblico rinvenibile “…e cioè quello di evitare che trovino ingresso nel nostro ordinamento giuridico provvedimenti contrari all’ordine pubblico in materia di stato delle persone…”.

Passando al cuore della questione, ovvero l’esistenza di un possibile contrasto con l’ordine pubblico internazionale e la rispondenza del riconoscimento della sentenza al superiore interesse dei minori, la Corte, in primis ne individua nozione e portata, alla luce della sua recente evoluzione giurisprudenziale e della recente sentenza n°19599/16 della Suprema Corte, chiarendo che:

  • rientrano tra i principi di ordine pubblico esclusivamente quei “…principi supremi e/o fondamentali della nostra carta costituzionale, vale a dire in quelli che non potrebbero essere sovvertiti dal legislatore ordinario”;
  • si deve, invece, escludere un contrasto con l’ordine pubblico “…per il solo fatto che la norma straniera sia difforme contenutisticamente da una o più disposizioni del diritto nazionale…”;
  • conseguentemente il giudice a quo, dopo aver verificato la compatibilità tra norme straniere e principi costituzionali, “…dovrà sempre negare il contrasto con l’ordine pubblico in presenza di una mera incompatibilità (temporanea) della norma straniera con la legislazione nazionale vigente, quando questa rappresenti una delle possibili modalità di espressione della discrezionalità del legislatore ordinario in un dato momento storico…”.

Passando poi alla rispondenza del riconoscimento al superiore interesse del minore, la Corte rileva che, tanto la legge n°218/95 quanto l’art. 8, par. 1 della Convenzione di NewYork del 1989 sui diritti del Fanciullo, riconoscono il “…diritto del minore a conservare lo status di figlio riconosciutogli in un atto validamente formato in altro Stato” con conseguente evidente pregiudizio per i minori in caso di mancato riconoscimento dello status filiationis in quanto:

  • i figli non godrebbero in Italia nei confronti del padre non biologico di “…tutti i diritti che a tale status conseguono;
  • i figli sarebbero altresì “…pregiudicati anche sotto il profilo della perdita dell’identità familiare…” legittimamente acquisita nello Stato estero.

Ad avviso della Corte, il diritto dei due bambini alla bigenitorialità, ancorché non assoluto, non potrebbe legittimamente essere pregiudicato, stante l’assenza nel presente caso di antitetici…altri interessi e valori di rilevanza costituzionale primaria e vincolanti per il legislatore italiano” e ciò in quanto:

  • il mero divieto previsto dalla legge n°40 del 19 febbraio 2004 della possibilità per coppie di sesso diverso di ricorrere a procreazione assistita non può essere considerato “…espressione di principi fondamentali costituzionalmente garantiti;
  • le conseguenze previste dalla legge 40/14 in capo agli adulti che ricorrono illegalmente ad una pratica di negoziazione assistita non possono “…determinare la negazione del riconoscimento ai minori dello status filiationis legittimamente acquisito all’estero…”;
  • l’assenza di legame genetico tra i figli e il ricorrente non può essere di ostacolo al riconoscimento del rapporto di filiazione tra gli stessi già riconosciuto all’estero, “…dovendosi escludere che nel nostro ordinamento vi sia un modello di genitorialità esclusivamente fondato sul legame biologico fra genitore ed il nato”.

La Corte, pertanto, conclude accogliendo il ricorso e dichiarando l’efficacia nell’ordinamento italiano del provvedimento della corte statunitense che aveva dichiarato la paternità anche al padre non biologico.

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Le SezioRisultati immagini per immagine cicognani unite della Cassazione, con la sentenza 25 gennaio 2017 n. 1946, su richiesta formulata dal Procuratore generale ai sensi dell’art 363 comma 1 c.p.c., affrontano, per la prima volta, la questione dell’attuabilità della tutela giurisdizionale del diritto all’accesso alle origini da parte del figlio nato da madre che al momento del parto dichiarava di voler rimanere anonima.
Afferma la sentenza che in tema di parto anonimo, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativa e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 278 del 2013, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in seguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità.

Precedentemente:
– la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva condannato l’Italia ritenendo che il diritto all’anonimato della donna, così come era disciplinato dal comma 7 dell’art. 28 l. adoz., comportasse una violazione del diritto del figlio a conoscere le proprie origini: impedire ad una persona di sapere da chi è nato, senza che operi il giusto bilanciamento tra l’interesse della madre all’anonimato e quello del figlio alla conoscenza delle proprie origini, costituisce violazione dell’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (Corte eur. dir. uomo, 25 settembre 2012, n. 33783).
– la Corte costituzionale poi, con sentenza additiva, aveva modificato il comma 7 dell’art. 28, L. n. 184/1983, introducendo così la possibilità che, su richiesta del figlio, la madre, che al momento del parto avesse dichiarato di non voler essere nominata, potesse essere interpellata al fine di verificare se intendesse revocare la propria dichiarazione di anonimato. L’irreversibilità della scelta materna all’anonimato, infatti, è stata giudicata costituzionalmente illegittima, stante la necessità di coordinare il diritto all’anonimato materno da un lato e, dall’altro, il diritto a conoscere le proprie origini, quale espressione del diritto alla identità personale (Corte cost. 22 novembre 2013, n. 278).
In seguito della predetta pronuncia della Consulta, nel panorama giurisprudenziale si sono venuti a delineare due distinti orientamenti:
– secondo il primo orientamento, seguito anche dai Tribunali per i minorenni di Milano, di Catania, di Bologna e di Salerno, doveva attribuirsi alla sentenza n. 278 del 2013 natura di “pronuncia additiva di principio”, in quanto la Consulta con l’inciso “attraverso un procedimento stabilito dalla legge che assicuri la massima riservatezza” istituiva una riserva di legge nell’individuazione del procedimento d’interpello per non vanificare la garanzia di segretezza sul parto riconosciuta dall’ordinamento alla donna. Pertanto, l’interpello della madre non poteva avvenire con modalità direttamente individuate dal giudice risultando tale intervento indebito nonché invasivo degli altri poteri dello Stato;
– ad avviso del a secondo orientamente, seguito dai tribunali per i minorenni di Trieste, Piemonte, Valle d’Aosta e dalla Corte d’appello di Catania (Sezione famiglia, delle persone e dei minori), in forza dei principi enunciati dalla sentenza Cedu (Godelli c. Italia) e per effetto della sentenza sopracitata della Consulta, era possibile l’interpello riservato anche senza la legge. L’art 28 comma 7 della L. 184/1983, infatti, in quanto dichiarato incostituzionale non poteva essere più applicato.

In proposito va ricordato anche che l’art. 250 c.c. pone il principio dell’assoluta volontarietà del riconoscimento: l’anonimato della madre nubile deriva non tanto dalla dichiarazione di non voler essere nominata quanto dalla mancata creazione del rapporto di filiazione con il nato.
Invece, per la donna coniugata che abbia generato il figlio con persona diversa dal marito, dovrà avere riguardo all’art. 30 ord. st. civ. che, prevedendo al 1 comma la possibilità di dichiarare di non voler essere nominata, le consente di mantenere l’anonimato (in difetto l’indicazione della donna coniugata comporterebbe l’applicazione della presunzione di paternità del marito ex art. 231 c.c.).
Ambedue le disposizioni non contengono limiti di “durata”. Nulla osta quindi a che, in un momento successivo, la donna possa essere nuovamente chiamata a “scegliere” tra restare anonima o permettere la sua identificazione.
In assenza di un intervento legislativo volto a dettare la procedura atta all’interpello stesso la sentenza in esame afferma l’insussistenza di ostacoli, per il giudice, di “mutuare dall’ordinamento ….. un meccanismo utile a garantire la tutela dei diritti nascenti dalla declaratoria di illegittimità costituzionale”.
Deve seguirsi il c.d. procedimento “base” di volontaria giurisdizione, in camera di consiglio, dinanzi al tribunale per i minorenni del luogo di residenza, così come previsto dai commi 5 e 6 art. 28, L. n. 184/1983. Cioè a dire il medesimo procedimento che trova applicazione per la ricerca delle origini del figlio adottato, può adattarsi al caso del figlio che richiede al giudice di autorizzare le ricerche e il successivo interpello della madre biologica circa la sua volontà di mantenere ancora ferma la dichiarazione di anonimato, ovvero di revocarla.
Nell’ambito di tale procedimento, inoltre, si deve rispettare quanto stabilito dall’art. 93 del codice in materia di protezione dei dati personali – là dove delineano modalità idonee a preservare la massima segretezza e riservatezza pur consentendo di comunicare tutte le informazioni relative alla cartella clinica, purché non identificative – nonché al comma 6 dell’art. 28 L. n. 184/1983: l’accesso per l’adottato alle notizie sulla sua origine e sulla identità dei genitori deve essere consentito con modalità che assicurino sia l’equilibrio psico-fisico del figlio che il massimo rispetto della madre e della sua libertà di autodeterminazione.
Si noti bene:
– i tribunali per i minorenni hanno già attivato prassi che consentono indagini sulla identificazione della madre, nonché l’accertamento della sua sussistenza in vita.
– In caso di riscontro positivo, la donna viene convocata per “comunicazioni orali” dal giudice, tenendo peraltro segreto il motivo della convocazione stessa, che verrà disvelato solo nel colloquio con il giudice, al quale peraltro saranno state date tutte le informazioni relative alle condizioni psico-fisiche della donna in modo che venga adottata ogni possibile cautela.
– In caso di diniego di consenso – ovvero là dove la madre esprima la propria volontà di mantenere l’anonimato – il giudice ne dà solo riferimento scritto senza formare alcun verbale e senza comunicare il nome del richiedente; se, al contrario, la donna acconsente, revocando la dichiarazione di non voler essere nominata, viene redatto il verbale, sottoscritto anche dalla madre, e viene comunicato il nome del figlio.
– Nell’ipotesi in cui, al contrario, la madre risulti deceduta, la stessa giurisprudenza ritiene che il diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini non incontri più alcun limite, posto che, diversamente, verrebbe meno un suo diritto fondamentale, senza che sussistano più quelle ragioni di tutela e protezione, riconosciutele nel corso della vita e che solo lei può escludere con la revoca della propria dichiarazione di anonimato (Cass. civ. sez. I, 21 luglio 2016, n. 15024; Cass. civ. sez. I, 9 novembre 2016, n. 22838; App. Catania 13 gennaio 2016).

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Cass. S.U. 25 gennaio 2017 n. 1946 sul diritto a conoscere le proprie origini

le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 25 gennaio 2017 n. 1946, su richiesta formulata dal Procuratore generale ai sensi dell’art 363 comma 1 c.p.c., affrontano, per la prima volta, la questione dell’attuabilità della tutela giurisdizionale del diritto all’accesso alle origini da parte del figlio nato da madre che al momento del parto dichiarava di voler rimanere anonima.
Afferma la sentenza che in tema di parto anonimo, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativa e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 278 del 2013, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in séguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità.

Precedentemente:
– la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva condannato l’Italia ritenendo che il diritto all’anonimato della donna, così come era disciplinato dal comma 7 dell’art. 28 l. adoz., comportasse una violazione del diritto del figlio a conoscere le proprie origini: impedire ad una persona di sapere da chi è nato, senza che operi il giusto bilanciamento tra l’interesse della madre all’anonimato e quello del figlio alla conoscenza delle proprie origini, costituisce violazione dell’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (Corte eur. dir. uomo, 25 settembre 2012, n. 33783).
– la Corte costituzionale poi, con sentenza additiva, aveva modificato il comma 7 dell’art. 28, L. n. 184/1983, introducendo così la possibilità che, su richiesta del figlio, la madre, che al momento del parto avesse dichiarato di non voler essere nominata, potesse essere interpellata al fine di verificare se intendesse revocare la propria dichiarazione di anonimato. L’irreversibilità della scelta materna all’anonimato, infatti, è stata giudicata costituzionalmente illegittima, stante la necessità di coordinare il diritto all’anonimato materno da un lato e, dall’altro, il diritto a conoscere le proprie origini, quale espressione del diritto alla identità personale (Corte cost. 22 novembre 2013, n. 278).
In seguito della predetta pronuncia della Consulta, nel panorama giurisprudenziale si sono venuti a delineare due distinti orientamenti:
– secondo il primo orientamento, seguito anche dai Tribunali per i minorenni di Milano, di Catania, di Bologna e di Salerno, doveva attribuirsi alla sentenza n. 278 del 2013 natura di “pronuncia additiva di principio”, in quanto la Consulta con l’inciso “attraverso un procedimento stabilito dalla legge che assicuri la massima riservatezza” istituiva una riserva di legge nell’individuazione del procedimento d’interpello per non vanificare la garanzia di segretezza sul parto riconosciuta dall’ordinamento alla donna. Pertanto, l’interpello della madre non poteva avvenire con modalità direttamente individuate dal giudice risultando tale intervento indebito nonché invasivo degli altri poteri dello Stato;
– ad avviso del a secondo orientamente, seguito dai tribunali per i minorenni di Trieste, Piemonte, Valle d’Aosta e dalla Corte d’appello di Catania (Sezione famiglia, delle persone e dei minori), in forza dei principi enunciati dalla sentenza Cedu (Godelli c. Italia) e per effetto della sentenza sopracitata della Consulta, era possibile l’interpello riservato anche senza la legge. L’art 28 comma 7 della L. 184/1983, infatti, in quanto dichiarato incostituzionale non poteva essere più applicato.

In proposito va ricordato anche che l’art. 250 c.c. pone il principio dell’assoluta volontarietà del riconoscimento: l’anonimato della madre nubile deriva non tanto dalla dichiarazione di non voler essere nominata quanto dalla mancata creazione del rapporto di filiazione con il nato.
Invece, per la donna coniugata che abbia generato il figlio con persona diversa dal marito, dovrà avere riguardo all’art. 30 ord. st. civ. che, prevedendo al 1 comma la possibilità di dichiarare di non voler essere nominata, le consente di mantenere l’anonimato (in difetto l’indicazione della donna coniugata comporterebbe l’applicazione della presunzione di paternità del marito ex art. 231 c.c.).
Ambedue le disposizioni non contengono limiti di “durata”. Nulla osta quindi a che, in un momento successivo, la donna possa essere nuovamente chiamata a “scegliere” tra restare anonima o permettere la sua identificazione.
In assenza di un intervento legislativo volto a dettare la procedura atta all’interpello stesso la sentenza in esame afferma l’insussistenza di ostacoli, per il giudice, di “mutuare dall’ordinamento ….. un meccanismo utile a garantire la tutela dei diritti nascenti dalla declaratoria di illegittimità costituzionale”.
Deve seguirsi il c.d. procedimento “base” di volontaria giurisdizione, in camera di consiglio, dinanzi al tribunale per i minorenni del luogo di residenza, così come previsto dai commi 5 e 6 art. 28, L. n. 184/1983. Cioè a dire il medesimo procedimento che trova applicazione per la ricerca delle origini del figlio adottato, può adattarsi al caso del figlio che richiede al giudice di autorizzare le ricerche e il successivo interpello della madre biologica circa la sua volontà di mantenere ancora ferma la dichiarazione di anonimato, ovvero di revocarla.
Nell’ambito di tale procedimento, inoltre, si deve rispettare quanto stabilito dall’art. 93 del codice in materia di protezione dei dati personali – là dove delineano modalità idonee a preservare la massima segretezza e riservatezza pur consentendo di comunicare tutte le informazioni relative alla cartella clinica, purché non identificative – nonché al comma 6 dell’art. 28 L. n. 184/1983: l’accesso per l’adottato alle notizie sulla sua origine e sulla identità dei genitori deve essere consentito con modalità che assicurino sia l’equilibrio psico-fisico del figlio che il massimo rispetto della madre e della sua libertà di autodeterminazione.
Si noti bene:
– i tribunali per i minorenni hanno già attivato prassi che consentono indagini sulla identificazione della madre, nonché l’accertamento della sua sussistenza in vita.
– In caso di riscontro positivo, la donna viene convocata per “comunicazioni orali” dal giudice, tenendo peraltro segreto il motivo della convocazione stessa, che verrà disvelato solo nel colloquio con il giudice, al quale peraltro saranno state date tutte le informazioni relative alle condizioni psico-fisiche della donna in modo che venga adottata ogni possibile cautela.
– In caso di diniego di consenso – ovvero là dove la madre esprima la propria volontà di mantenere l’anonimato – il giudice ne dà solo riferimento scritto senza formare alcun verbale e senza comunicare il nome del richiedente; se, al contrario, la donna acconsente, revocando la dichiarazione di non voler essere nominata, viene redatto il verbale, sottoscritto anche dalla madre, e viene comunicato il nome del figlio.
– Nell’ipotesi in cui, al contrario, la madre risulti deceduta, la stessa giurisprudenza ritiene che il diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini non incontri più alcun limite, posto che, diversamente, verrebbe meno un suo diritto fondamentale, senza che sussistano più quelle ragioni di tutela e protezione, riconosciutele nel corso della vita e che solo lei può escludere con la revoca della propria dichiarazione di anonimato (Cass. civ. sez. I, 21 luglio 2016, n. 15024; Cass. civ. sez. I, 9 novembre 2016, n. 22838; App. Catania 13 gennaio 2016).
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Cass. S.U. 25 gennaio 2017 n. 1946 sul diritto a conoscere le proprie origini

le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 25 gennaio 2017 n. 1946, su richiesta formulata dal Procuratore generale ai sensi dell’art 363 comma 1 c.p.c., affrontano, per la prima volta, la questione dell’attuabilità della tutela giurisdizionale del diritto all’accesso alle origini da parte del figlio nato da madre che al momento del parto dichiarava di voler rimanere anonima.
Afferma la sentenza che in tema di parto anonimo, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativa e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 278 del 2013, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in séguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità.

Precedentemente:
– la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva condannato l’Italia ritenendo che il diritto all’anonimato della donna, così come era disciplinato dal comma 7 dell’art. 28 l. adoz., comportasse una violazione del diritto del figlio a conoscere le proprie origini: impedire ad una persona di sapere da chi è nato, senza che operi il giusto bilanciamento tra l’interesse della madre all’anonimato e quello del figlio alla conoscenza delle proprie origini, costituisce violazione dell’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (Corte eur. dir. uomo, 25 settembre 2012, n. 33783).
– la Corte costituzionale poi, con sentenza additiva, aveva modificato il comma 7 dell’art. 28, L. n. 184/1983, introducendo così la possibilità che, su richiesta del figlio, la madre, che al momento del parto avesse dichiarato di non voler essere nominata, potesse essere interpellata al fine di verificare se intendesse revocare la propria dichiarazione di anonimato. L’irreversibilità della scelta materna all’anonimato, infatti, è stata giudicata costituzionalmente illegittima, stante la necessità di coordinare il diritto all’anonimato materno da un lato e, dall’altro, il diritto a conoscere le proprie origini, quale espressione del diritto alla identità personale (Corte cost. 22 novembre 2013, n. 278).
In seguito della predetta pronuncia della Consulta, nel panorama giurisprudenziale si sono venuti a delineare due distinti orientamenti:
– secondo il primo orientamento, seguito anche dai Tribunali per i minorenni di Milano, di Catania, di Bologna e di Salerno, doveva attribuirsi alla sentenza n. 278 del 2013 natura di “pronuncia additiva di principio”, in quanto la Consulta con l’inciso “attraverso un procedimento stabilito dalla legge che assicuri la massima riservatezza” istituiva una riserva di legge nell’individuazione del procedimento d’interpello per non vanificare la garanzia di segretezza sul parto riconosciuta dall’ordinamento alla donna. Pertanto, l’interpello della madre non poteva avvenire con modalità direttamente individuate dal giudice risultando tale intervento indebito nonché invasivo degli altri poteri dello Stato;
– ad avviso del a secondo orientamente, seguito dai tribunali per i minorenni di Trieste, Piemonte, Valle d’Aosta e dalla Corte d’appello di Catania (Sezione famiglia, delle persone e dei minori), in forza dei principi enunciati dalla sentenza Cedu (Godelli c. Italia) e per effetto della sentenza sopracitata della Consulta, era possibile l’interpello riservato anche senza la legge. L’art 28 comma 7 della L. 184/1983, infatti, in quanto dichiarato incostituzionale non poteva essere più applicato.

In proposito va ricordato anche che l’art. 250 c.c. pone il principio dell’assoluta volontarietà del riconoscimento: l’anonimato della madre nubile deriva non tanto dalla dichiarazione di non voler essere nominata quanto dalla mancata creazione del rapporto di filiazione con il nato.
Invece, per la donna coniugata che abbia generato il figlio con persona diversa dal marito, dovrà avere riguardo all’art. 30 ord. st. civ. che, prevedendo al 1 comma la possibilità di dichiarare di non voler essere nominata, le consente di mantenere l’anonimato (in difetto l’indicazione della donna coniugata comporterebbe l’applicazione della presunzione di paternità del marito ex art. 231 c.c.).
Ambedue le disposizioni non contengono limiti di “durata”. Nulla osta quindi a che, in un momento successivo, la donna possa essere nuovamente chiamata a “scegliere” tra restare anonima o permettere la sua identificazione.
In assenza di un intervento legislativo volto a dettare la procedura atta all’interpello stesso la sentenza in esame afferma l’insussistenza di ostacoli, per il giudice, di “mutuare dall’ordinamento ….. un meccanismo utile a garantire la tutela dei diritti nascenti dalla declaratoria di illegittimità costituzionale”.
Deve seguirsi il c.d. procedimento “base” di volontaria giurisdizione, in camera di consiglio, dinanzi al tribunale per i minorenni del luogo di residenza, così come previsto dai commi 5 e 6 art. 28, L. n. 184/1983. Cioè a dire il medesimo procedimento che trova applicazione per la ricerca delle origini del figlio adottato, può adattarsi al caso del figlio che richiede al giudice di autorizzare le ricerche e il successivo interpello della madre biologica circa la sua volontà di mantenere ancora ferma la dichiarazione di anonimato, ovvero di revocarla.
Nell’ambito di tale procedimento, inoltre, si deve rispettare quanto stabilito dall’art. 93 del codice in materia di protezione dei dati personali – là dove delineano modalità idonee a preservare la massima segretezza e riservatezza pur consentendo di comunicare tutte le informazioni relative alla cartella clinica, purché non identificative – nonché al comma 6 dell’art. 28 L. n. 184/1983: l’accesso per l’adottato alle notizie sulla sua origine e sulla identità dei genitori deve essere consentito con modalità che assicurino sia l’equilibrio psico-fisico del figlio che il massimo rispetto della madre e della sua libertà di autodeterminazione.
Si noti bene:
– i tribunali per i minorenni hanno già attivato prassi che consentono indagini sulla identificazione della madre, nonché l’accertamento della sua sussistenza in vita.
– In caso di riscontro positivo, la donna viene convocata per “comunicazioni orali” dal giudice, tenendo peraltro segreto il motivo della convocazione stessa, che verrà disvelato solo nel colloquio con il giudice, al quale peraltro saranno state date tutte le informazioni relative alle condizioni psico-fisiche della donna in modo che venga adottata ogni possibile cautela.
– In caso di diniego di consenso – ovvero là dove la madre esprima la propria volontà di mantenere l’anonimato – il giudice ne dà solo riferimento scritto senza formare alcun verbale e senza comunicare il nome del richiedente; se, al contrario, la donna acconsente, revocando la dichiarazione di non voler essere nominata, viene redatto il verbale, sottoscritto anche dalla madre, e viene comunicato il nome del figlio.
– Nell’ipotesi in cui, al contrario, la madre risulti deceduta, la stessa giurisprudenza ritiene che il diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini non incontri più alcun limite, posto che, diversamente, verrebbe meno un suo diritto fondamentale, senza che sussistano più quelle ragioni di tutela e protezione, riconosciutele nel corso della vita e che solo lei può escludere con la revoca della propria dichiarazione di anonimato (Cass. civ. sez. I, 21 luglio 2016, n. 15024; Cass. civ. sez. I, 9 novembre 2016, n. 22838; App. Catania 13 gennaio 2016).
[:es]
Cass. S.U. 25 gennaio 2017 n. 1946 sul diritto a conoscere le proprie origini

le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 25 gennaio 2017 n. 1946, su richiesta formulata dal Procuratore generale ai sensi dell’art 363 comma 1 c.p.c., affrontano, per la prima volta, la questione dell’attuabilità della tutela giurisdizionale del diritto all’accesso alle origini da parte del figlio nato da madre che al momento del parto dichiarava di voler rimanere anonima.
Afferma la sentenza che in tema di parto anonimo, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativa e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 278 del 2013, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in séguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità.

Precedentemente:
– la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva condannato l’Italia ritenendo che il diritto all’anonimato della donna, così come era disciplinato dal comma 7 dell’art. 28 l. adoz., comportasse una violazione del diritto del figlio a conoscere le proprie origini: impedire ad una persona di sapere da chi è nato, senza che operi il giusto bilanciamento tra l’interesse della madre all’anonimato e quello del figlio alla conoscenza delle proprie origini, costituisce violazione dell’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (Corte eur. dir. uomo, 25 settembre 2012, n. 33783).
– la Corte costituzionale poi, con sentenza additiva, aveva modificato il comma 7 dell’art. 28, L. n. 184/1983, introducendo così la possibilità che, su richiesta del figlio, la madre, che al momento del parto avesse dichiarato di non voler essere nominata, potesse essere interpellata al fine di verificare se intendesse revocare la propria dichiarazione di anonimato. L’irreversibilità della scelta materna all’anonimato, infatti, è stata giudicata costituzionalmente illegittima, stante la necessità di coordinare il diritto all’anonimato materno da un lato e, dall’altro, il diritto a conoscere le proprie origini, quale espressione del diritto alla identità personale (Corte cost. 22 novembre 2013, n. 278).
In seguito della predetta pronuncia della Consulta, nel panorama giurisprudenziale si sono venuti a delineare due distinti orientamenti:
– secondo il primo orientamento, seguito anche dai Tribunali per i minorenni di Milano, di Catania, di Bologna e di Salerno, doveva attribuirsi alla sentenza n. 278 del 2013 natura di “pronuncia additiva di principio”, in quanto la Consulta con l’inciso “attraverso un procedimento stabilito dalla legge che assicuri la massima riservatezza” istituiva una riserva di legge nell’individuazione del procedimento d’interpello per non vanificare la garanzia di segretezza sul parto riconosciuta dall’ordinamento alla donna. Pertanto, l’interpello della madre non poteva avvenire con modalità direttamente individuate dal giudice risultando tale intervento indebito nonché invasivo degli altri poteri dello Stato;
– ad avviso del a secondo orientamente, seguito dai tribunali per i minorenni di Trieste, Piemonte, Valle d’Aosta e dalla Corte d’appello di Catania (Sezione famiglia, delle persone e dei minori), in forza dei principi enunciati dalla sentenza Cedu (Godelli c. Italia) e per effetto della sentenza sopracitata della Consulta, era possibile l’interpello riservato anche senza la legge. L’art 28 comma 7 della L. 184/1983, infatti, in quanto dichiarato incostituzionale non poteva essere più applicato.

In proposito va ricordato anche che l’art. 250 c.c. pone il principio dell’assoluta volontarietà del riconoscimento: l’anonimato della madre nubile deriva non tanto dalla dichiarazione di non voler essere nominata quanto dalla mancata creazione del rapporto di filiazione con il nato.
Invece, per la donna coniugata che abbia generato il figlio con persona diversa dal marito, dovrà avere riguardo all’art. 30 ord. st. civ. che, prevedendo al 1 comma la possibilità di dichiarare di non voler essere nominata, le consente di mantenere l’anonimato (in difetto l’indicazione della donna coniugata comporterebbe l’applicazione della presunzione di paternità del marito ex art. 231 c.c.).
Ambedue le disposizioni non contengono limiti di “durata”. Nulla osta quindi a che, in un momento successivo, la donna possa essere nuovamente chiamata a “scegliere” tra restare anonima o permettere la sua identificazione.
In assenza di un intervento legislativo volto a dettare la procedura atta all’interpello stesso la sentenza in esame afferma l’insussistenza di ostacoli, per il giudice, di “mutuare dall’ordinamento ….. un meccanismo utile a garantire la tutela dei diritti nascenti dalla declaratoria di illegittimità costituzionale”.
Deve seguirsi il c.d. procedimento “base” di volontaria giurisdizione, in camera di consiglio, dinanzi al tribunale per i minorenni del luogo di residenza, così come previsto dai commi 5 e 6 art. 28, L. n. 184/1983. Cioè a dire il medesimo procedimento che trova applicazione per la ricerca delle origini del figlio adottato, può adattarsi al caso del figlio che richiede al giudice di autorizzare le ricerche e il successivo interpello della madre biologica circa la sua volontà di mantenere ancora ferma la dichiarazione di anonimato, ovvero di revocarla.
Nell’ambito di tale procedimento, inoltre, si deve rispettare quanto stabilito dall’art. 93 del codice in materia di protezione dei dati personali – là dove delineano modalità idonee a preservare la massima segretezza e riservatezza pur consentendo di comunicare tutte le informazioni relative alla cartella clinica, purché non identificative – nonché al comma 6 dell’art. 28 L. n. 184/1983: l’accesso per l’adottato alle notizie sulla sua origine e sulla identità dei genitori deve essere consentito con modalità che assicurino sia l’equilibrio psico-fisico del figlio che il massimo rispetto della madre e della sua libertà di autodeterminazione.
Si noti bene:
– i tribunali per i minorenni hanno già attivato prassi che consentono indagini sulla identificazione della madre, nonché l’accertamento della sua sussistenza in vita.
– In caso di riscontro positivo, la donna viene convocata per “comunicazioni orali” dal giudice, tenendo peraltro segreto il motivo della convocazione stessa, che verrà disvelato solo nel colloquio con il giudice, al quale peraltro saranno state date tutte le informazioni relative alle condizioni psico-fisiche della donna in modo che venga adottata ogni possibile cautela.
– In caso di diniego di consenso – ovvero là dove la madre esprima la propria volontà di mantenere l’anonimato – il giudice ne dà solo riferimento scritto senza formare alcun verbale e senza comunicare il nome del richiedente; se, al contrario, la donna acconsente, revocando la dichiarazione di non voler essere nominata, viene redatto il verbale, sottoscritto anche dalla madre, e viene comunicato il nome del figlio.
– Nell’ipotesi in cui, al contrario, la madre risulti deceduta, la stessa giurisprudenza ritiene che il diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini non incontri più alcun limite, posto che, diversamente, verrebbe meno un suo diritto fondamentale, senza che sussistano più quelle ragioni di tutela e protezione, riconosciutele nel corso della vita e che solo lei può escludere con la revoca della propria dichiarazione di anonimato (Cass. civ. sez. I, 21 luglio 2016, n. 15024; Cass. civ. sez. I, 9 novembre 2016, n. 22838; App. Catania 13 gennaio 2016).
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downloadIl 14 gennaio 2017 è stato pubblicato in G.U. (n°11 del 14/01/2017) il Decreto del Ministero della Giustizia, del 15 dicembre 2016, che individua i Tribunali presso i quali sarà avviato a breve il c.d. “Fondo di solidarietà a tutela del coniuge in Stato di bisogno”, introdotto dall’art. 1, co. 414-416, legge n°208 del 28 ottobre 2015.

Che cos’è il Fondo di solidarietà, quali sono le sue finalità?

Il Fondo di solidarietà nasce quale risposta all’emergenziale situazione di quei nuclei familiari disgregati il cui sostentamento è legato inscindibilmente alla corresponsione dell’assegno di mantenimento. In questo periodo di crisi economica, infatti, per scelta o per necessità, accade sempre più di frequente che il coniuge obbligato al mantenimento della prole minorenne e/o portatrice di handicap grave si renda inadempiente, privando sostanzialmente la famiglia dei redditi necessari alla mera sopravvivenza. Attraverso il recente intervento legislativo, il Legislatore intende risolvere detto impasse prevedendo la possibilità per il coniuge convivente di accedere al predetto Fondo in caso di inadempienza del coniuge obbligato, ottenendo un’anticipazione di una somma non superiore al mantenimento dovuto.

Chi può beneficiarne?

All’art. 1, lett. b), il D.M. definisce “richiedente, il coniuge separato in stato di bisogno con il quale convivono figli minori o figli maggiorenni portatori di handicap grave che non abbia ricevuto l’assegno periodico a titolo di mantenimento per inadempienza del coniuge che vi era tenuto, in possesso dei requisiti di cui all’art. 3”.

Requisiti per accedervi sono pertanto che il ricorrente:

a) sia un coniuge separato, convivente con i figli minori o maggiorenni portatori di gravi handicap;

b) che risulti beneficiario di un assegno periodico di mantenimento;

c) che il coniuge obbligato non abbia adempiuto al mantenimento, in toto o in parte.

Dove è attivo?

Il Fondo, attualmente in fase di sperimentazione, non è attivo in tutti i tribunali italiani ma solo in quelli, ai sensi dell’art. 2, “…che hanno sede nel capoluogo dei distretti sede delle corti di appello indicati nella tabella A annessa al R.D. del 30 giugno 1941, n°12”.

Dove e come si presenta l’istanza?

Ai sensi dell’art. 3, l’istanza di accesso deve essere depositata presso la cancelleria dei Tribunale utilizzando un modulo che sarà reso disponibile sul sito www.giustizia.it a partire da metà febbraio 2017 (in teoria già dal 16 febbraio 2017, ovvero 30 giorni dopo la pubblicazione del D.M.).

Qual è il contenuto dell’istanza?

Ai sensi del comma 2 dell’art. 3, l’istanza dovrà contenere, a pena d’inammissibilità:

a) le generalità e i dati anagrafici del richiedente;

b) il codice fiscale;

c) l’indicazione degli estremi del proprio conto corrente bancario o postale;

d) l’indicazione della misura dell’inadempimento del coniuge tenuto a versare l’assegno di mantenimento, con la specificazione che lo stesso é maturato in epoca successiva all’entrata in vigore della legge;

e) l’indicazione se il coniuge inadempiente percepisca redditi da lavoro dipendente e, nel caso affermativo, l’indicazione che il datore dei lavoro si é reso inadempiente all’obbligo di versamento diretto a favore del richiedente a norma dell’art. 156, sesto comma, del codice civile;

f) l’indicazione che il valore dell’indicatore ISEE o dell’ISEE corrente in corso di validità é inferiore o uguale a euro 3.000;

g) l’indirizzo di posta elettronica ordinaria o certificata a cui l’interessato intende ricevere ogni comunicazione relativa all’istanza;

h) la dichiarazione di versare in una condizione di occupazione, ovvero di disoccupazione ai sensi dell’art. 19 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150, senza la necessità della dichiarazione al portale nazionale delle politiche del lavoro di cui all’art. 13 del medesimo decreto; in caso di disoccupazione, la dichiarazione di non aver rifiutato offerte di lavoro negli ultimi due anni.

All’istanza, inoltre, deve essere allegata, sempre a pena di inammissibilità:

a) copia del documento di identità del richiedente;

b) copia autentica del verbale di pignoramento mobiliare negativo, ovvero copia della dichiarazione negativa del terzo pignorato relativamente alle procedure esecutive promosse nei confronti del coniuge inadempiente;

c) visura rilasciata dalla conservatoria dei registri immobiliari delle province di nascita e residenza del coniuge inadempiente da cui risulti l’impossidenza di beni immobili;

d) l’originale del titolo che fonda il diritto all’assegno di mantenimento, ovvero di copia del titolo munita di formula esecutiva rilasciata a norma dell’art. 476, primo comma, del codice di procedura civile.

Che cosa succede dopo il deposito?

Ai sensi dell’art. 4, una volta depositata l’istanza, il giudice valuterà, nei trenta giorni successivi, la sua ammissibilità.

Qualora il Tribunale giudichi l’istanza ammissibile, provvederà a trasmetterla direttamente al Dipartimento per gli affari di giustizia dell’omonimo Ministero, che provvederà alla corresponsione degli importi dovuti. Se invece il giudice la ritiene inammissibile la trasmette al fondo indicandone le ragioni.

Se l’istanza è accolta avrò diritto a tutto quanto non è stato versato?

Una volta accolta l’istanza e tramessa al Dipartimento presso cui è attivo il Fondo, quest’ultimo provvederà alla loro liquidazione nei limiti non solo della misura massima mensile dell’assegno sociale non versato ma anche delle stesse dotazioni del Fondo, pari ad euro 250.000 per l’anno 2016 ed euro 500.000 per l’anno 2017.

Il provvedimento positivo del Fondo può essere revocato in un secondo momento?

L’art. 6 prevede la revoca del provvedimento positivo del dipartimento in due casi:

a) quando sia accertata l’insussistenza dei requisiti soggettivi e oggettivi;

b) qualora sia accertata l’incompletezza o non veridicità della documentazione allegata all’istanza.

Cosa accade se viene revocato il provvedimento?

Qualora sia revocato il provvedimento, lo Stato provvederà a recuperare le somme indebitamente erogate, salvi eventuali ulteriori conseguenze di legge civile, penale ed amministrativa.

Cosa succede al coniuge inadempiente?

Una volta accettata l’istanza e ricevuta la corresponsione del mantenimento da parte del Fondo, quest’ultimo si sostituirà al genitore beneficiario nelle pretese nei confronti del coniuge inadempiente. In particolare, il Dipartimento intimerà al debitore di provvedere al versamento entro il termine di 10 giorni.Se questo adempie spontaneamente entro detto termine, egli dovrà trasmettere entro 5 giorni la quietanza o attestazione del pagamento.Se invece il coniuge obbligato rimane inadempiente e sono presenti fondati indici della sua solvibilità, il Ministero si surroga nei diritti del coniuge beneficiario, promuovendo un’azione esecutiva per il recupero delle somme erogate. Le somme recuperate saranno poi riassegnate al Fondo di solidarietà.

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imagesLa Suprema Corte di Cassazione è recentemente ritornata – con sentenza 3 gennaio 2017, n°27 – a chiarire i presupposti indefettibili per ottenere l’affido esclusivo dei figli.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da una madre separata avverso la sentenza con cui la Corte d’appello di Brescia, confermando le statuizioni del giudice di primo grado, aveva:

–  disposto l’affidamento in via esclusiva dei due figli al padre, a seguito dell’accertata accesa conflittualità esistente tra i genitori, ostacolante la condivisione e l’adozione di decisioni comuni, e tale da incidere negativamente sull’interesse dei minori;

–  negato il diritto al mantenimento della moglie poiché godeva di un reddito minore rispetto a quello dell’ex marito ma superiore a quello dichiarato in giudizio e, in ogni caso, sufficiente a farle conservare il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio

In particolare, ad avviso della donna, la scelta del regime dell’affidamento esclusivo era ingiustificata, in quanto da un lato non avrebbe certamente potuto garantire una minore conflittualità tra i coniugi né tutelare maggiormente i minori, e innecessaria, attesa la piena idoneità genitoriale della madre.

La Corte di Cassazione dà ragione alla ricorrente, motivando la propria decisione alla luce dei seguenti condivisibili principi:

  • per giurisprudenza costante, il regime di affidamento condiviso costituisce “…il regime ordinario di affidamento, che non è impedito dall’esistenza di una conflittualità tra i coniugi, che spesso connota i procedimenti di separazione, tranne quando tale regime sia pregiudizievole per l’interesse dei figli, alterando e ponendo in serio pericolo il loro equilibrio e sviluppo psico-fisico”;
  • conseguentemente, una pronuncia di affidamento esclusivo, proprio per il suo carattere eccezionale, deve essere giustificata e motivata alla luce della concomitante presenza di tre elementi: il pregiudizio potenzialmente arrecato ai figli da un affidamento condiviso, l’idoneità del genitore affidatario e l’inidoneità educativa e manifesta carenza dell’altro genitore.

Nel caso di specie, la Corte censura l’operato della Corte di merito, la quale aveva disposto l’affidamento esclusivo dei minori alla luce della sola conflittualità esistente tra i coniugi (peraltro “ordinaria” nei giudizi di separazione) e della conseguente generica “…necessità di assicurare rapidità nelle decisioni riguardanti i figli…”, senza tuttavia accertare né motivare puntualmente l’esistenza di un pregiudizio per i minori.

La Corte conferma, invece, le statuizioni in punto di mantenimento, ritenendo le censure mosse tese ad una revisione del giudizio di fatto operato dai giudici di merito, preclusa al giudice di legittimità.

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dieta-vegana-cibi-vegetali-proteici-vegan-foodI motivi di conflitto tra genitori separati possono essere innumerevoli, dagli sport alla scuola da frequentare, dalle vacanze alle gite scolastica, sino ad arrivare al regime d’alimentazione da fare seguire ai figli. Tale ultimo motivo, di recente, è finito alla ribalta a seguito della diffusione di stili alternativi di alimentazione, quale la dieta vegetariana e vegana.

Proprio un conflitto tra due genitori circa il regime alimentare da fare seguire alla figlia è stato recentemente risolto dal Tribunale civile di Roma, sez. I^, con ordinanza del 19 ottobre 2016.

Il caso trae origine da un ricorso ex art. 709 ter c.p.c. presentato da un padre separato, preoccupato dalla dieta vegana imposta unilateralmente dalla madre alla propria figlia non soltanto a casa ma anche a scuola. In particolare, ad avviso del padre, tale dieta, sarebbe stata assolutamente dannosa per la bambina tanto da un punto di vista salutistico, come confermato da una relazione del pediatra asseverante la ridotta crescita della stessa, quanto psicologico, a seguito della costrizione per la bambina di seguire una dieta diversa dagli altri compagni, nonostante l’assenza di malattie o allergie tali da renderla necessaria.

Si costituiva in giudizio la madre la quale tentava inutilmente di minimizzare sostenendo che la dieta seguita dalla stessa e fatta seguire alla figlia fosse in realtà vegetariana, comprensiva pertanto del consumo di uova e latticini, e che, in ogni caso, tale dieta sarebbe decisamente più salutare rispetto al consumo di carne, stante l’incertezza dei controlli sulla stessa, e la presenza in molti prodotti preconfezionati di sostanze nocive. Ad avviso della madre, inoltre, ben poteva la bambina seguire la “dieta paterna” durante i periodi trascorsi con il padre, ferma la dieta vegana tanto a casa quanto a scuola.

Di diverso avviso è, tuttavia, il Tribunale di Roma.

I giudici capitolini, investiti della questione, chiariscono preliminarmente che“…la decisione relativa al regime alimentare del figlio minore deve indubbiamente essere considerata di maggiore interesse” e pertanto, nel regime di affidamento condiviso vigente nel caso di specie, deve essere rimessa, in caso di disaccordo tra i genitori, al giudice.

Il Tribunale, pertanto, dopo aver analizzato la documentazione medica in atti e rilevato l’assenza di ragioni connesse alla salute della minore, quali allergie o intolleranze, tali da far prediligere la dieta vegana, ha ritenuto di dover “…applicare parametri di normalità statistica che impongono di far seguire alla figlia minore della parti un regime alimentare privo di restrizioni.”

Secondo la condivisibile motivazione del Tribunale, infatti, la scelta sul regime alimentare da far seguire alla bambina deve prescindere totalmente dalle convinzioni alimentari dei genitori, dovendosi compiere facendo riferimento “…alle condotte normalmente tenute dai genitori nella generalità dei casi per la cura e l’educazione dei figli”. E tale è il regime alimentare, privo di restrizioni ad alcun alimento, normalmente seguito dalle scuole italiane, le cui mense sono (o meglio dovrebbero) essere sottoposte all’attento controllo pubblico.

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Our RightsNei giudizi relative all’affido e al mantenimento del minore, e non solo, è sempre più frequente che il giudice disponga l’ascolto del bambino.

Perchè, con quali finalità, in quali casi, in quali modi?

Proviamo a dare una risposta a queste domande, partendo dall’individuazione del quadro normativo per poi muoverci al contenuto di questo diritto/dovere.

L’audizione del minore come espressione del suo superiore interesse

L’audizione del minore è un vero e proprio diritto riconosciuto al bambino, espressione processuale del superiore interesse del minore a cui devono essere improntate tutte le controversie che lo concernano. Al fine di fare emergere dal processo il superiore interesse del minore, fondamentale appare infatti la sua audizione da parte dello stesso organo giudicante, eventualmente anche a mezzo di esperti, al fine di vagliare la volontà e la maturità con cui questa è stata espressa.

Quadro normativo internazionale e italiano

Il diritto del bambino a essere ascoltato è stato codificato per la prima volta nel 1989 dall’art.12 della Convenzione ONU sui Diritti del Fanciullo, che riconosce “(…) al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità”.

Questo principio è stato successivamente riconosciuto dall’art. 6 della Convenzione di Strasburgo sullo esercizio dei diritti del fanciullo del 1996, ratificata in Italia con la legge n°77 del 2003, nonché, più di recente, nell’Unione europea dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea, che, all’art. 24, espressamente prevede che “…Essi possono esprimere liberamente la propria opinione; questa viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità. 2. In tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente”.

Il superiore interesse del minore e il suo diritto ad essere ascoltato sono stati recepiti, con qualche ritardo, nell’ordinamento italiano, attraverso le modifiche al codice civile, introdotte dapprima con legge n°54/06 e, più di recente, con la legge n°219/12. In particolare, attraverso quest’ultimo provvedimento, è stato inserito all’art. 315 bis c.c. che:

  • ai commi 1 e 2 individuano i diritti del fanciullo a essere “mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni” nonché “… a crescere in famiglia e mantenere rapporti significativi con i parenti”;
  • al comma 3 afferma che: “Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano.

Tramite l’art. 315 bis c.c. il Legislatore riconosce, pertanto, il diritto del bambino a fare sentire la propria voce ed esprimere i propri desideri in tutte le procedure, siano esse giudiziarie o amministrative, che lo concernano, anche solo indirettamente.

Tale esigenza, come capirete, si manifesta sovente nella cause volte a regolamentare l’affido, il collocamento e il mantenimento di figli nati indifferentemente dentro o fuori dal matrimonio.

A quale età sono ascoltati i minori?

L’ascolto del minore non avviene sempre e comunque. Esso è soggetto a un duplice limite, dipendente dalla sua età e/o dalla sua capacità di discernimento.

Il legislatore italiano, così come quello internazionale, afferma, infatti, che vi è un vero e proprio dovere di ascoltare il bambino solo dopo che abbia compiuto i dodici anni di età.

Eccezionalmente, tuttavia, sarà possibile procedere all’ascolto di un bambino anche al di sotto dei 12 anni purché risulti capace di discernimento, attraverso un giudizio prognostico e discrezionale riservato al giudicante.

Occorre, tuttavia, rilevare che in Italia, assai spesso, le Corti tendono a considerare unicamente il fattore anagrafico, senza spingersi in opportune indagini circa la sua effettiva capacità di discernimento. A riguardo, la Commissione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo, in più di un’occasione, ha manifestato una forte preoccupazione nei confronti della prassi invalsa presso le Corti italiane di restringere il diritto d’audizione sulla base della sola età. Ad avviso degli esperti infatti, i bambini, anche in tenera età, sono capaci di esprimere il loro punto di vista, anche attraverso comunicazioni non verbali, non dovendosi richiedere al bambino una conoscenza completa di tutti gli aspetti della questione processuale che lo riguarda.

Il giudice può negare l’audizione del minore che ha più di dodici anni o capace di discernimento?

Come chiarito dal Tribunale dei Minori dell’Emilia Romagna, con sentenza 7 maggio 2009, e ribadito dalla Suprema Corte di Cassazione, con sentenza 21 ottobre 2009, n°22238 “(…) l’audizione dei minori nelle procedure giudiziarie che li riguardano e in ordine al loro affidamento ai genitori è divenuta comunque obbligatoria con l’art. 6 della Convenzione di Strasburgo sullo esercizio dei diritti del fanciullo del 1996, ratificata con la legge n°77 del 2003 (Cass. 16 aprile 2007 n°9094 e 18 marzo 2006 n°6081), per cui ad essa deve procedersi, salvo che possa arrecare danno al minore stesso, come risulta dal testo della norma sovranazionale e dalla giurisprudenza di questa Corte (la citata Cass. n°16753 del 2007)”.

In altri termini, in via del tutto eccezionale, il giudice può negare l’audizione del minore quando questa possa causare un pregiudizio e/o un danno grave al bambino.

La volontà del minore è vincolante per il giudice?

Anche se il giudice ha il dovere, entro i suddetti limiti, di procedere all’ascolto del bambino, lo stesso non deve e non può essere vincolato tout court dalla sola volontà espressa dal bambino.

Spesso, infatti, i bambini, anche se cresciuti, possono non essere in grado di identificare il loro reale interesse; altre volte, non meno infrequenti, il volere dei bambini può essere alterato e viziato dal comportamento del genitore, specie se con loro convivente, come riscontrato nei casi sempre più comuni di c.d. Sindrome da Alienazione Parentale (o PAS).

Il giudicante sarà dunque incaricato di valutare l’indipendenza e la maturità del giudizio espresso dal minore e attribuirgli il giusto peso nella determinazione del suo superiore interesse. Ciò comporterà la necessità per il giudice di procedere a ulteriori accertamenti quando risulti dubbia l’effettiva corrispondenza del volere espresso con il reale interesse del bambino.

Questo aspetto, di fondamentale importanza, è stato chiarito qualche anno fa dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, con la celebre sentenza del 13 luglio 2010, Elsholz c. Germania in cui la Corte ha censurato la decisione dell’Autorità nazionale tedesca che aveva negato il diritto del padre ad intrattenere regolari frequentazioni con il figlio, sulla scorta della mera volontà espressa da quest’ultimo e senza disporre alcuna delle ulteriori indagini richieste ripetutamente dal padre al fine di valutarne l’effettiva corrispondenza del volere espresso dal bambino al superiore interesse dello stesso.

In quali modi si procede all’ascolto del minore?

Le normative internazionali in materia lasciano liberi i giudici nel determinare i mezzi e le modalità attraverso cui procedere all’audizione del minore, tra quelli messi a disposizione tanto dal loro diritto nazionale quanto, in ambito europeo, dal regolamento n°1206/2001.

Qualora, poi, si debba procedere all’ascolto di bambini in tenera età, la Commissione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo suggerisce l’utilizzo privilegiato di forme di comunicazione non verbali, quali il gioco, il linguaggio del corpo, le espressioni facciali, il disegno, la pittura.

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downloadIl prossimo 11 febbraio 2017 entrerà in vigore il neo-approvato D. lgs. n°7 del 19 gennaio 2017, pubblicato in G.U. n°22 del 27 gennaio 2017, rubricato “Modifiche e riordino delle norme di diritto internazionale privato per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettera b) della legge 20 maggio 2016, n.76″.

Attraverso detto provvedimento il Legislatore intende adattare il sistema internazional-privatistico italiano, di cui alla l. 218/95, alla recente disciplina oggetto del regolamento UE 2016/1104 che attua la cooperazione rafforzata nel settore della competenza, della legge applicabile, del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni in materia di effetti patrimoniali delle unioni registrate, nonché agli altri regolamenti internazional-privatistici di famiglia adottati nell’ultimo decennio in seno all’Unione europea.

In particolare, ai sensi rispettivamente degli articoli 32 bis e quinquies, vengono estesi, rispettivamente alle coppie italiane coniugate all’estero nonchè alle unioni civili (o analoghi istituti) costituiti all’estero da cittadini italiani dello stesso sesso abitualmente residenti in Italia, gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana.

Viene altresì introdotto l’art. 32 ter, relativo alla legge applicabile alla capacità e alle condizioni per costituire un’unione civile (co. 1), alla forma dell’unione civile (co. 3), ai rapporti personale e patrimoniali tra le parti (co. 4), a, nonché alla disciplina del nulla osta di cui all’art. 116, co. 1, c.c. (co. 2), nonchè alle obbligazioni alimentari (con rinvio espresso del co. 5 alla disciplina dettata dall’art. 45 l. 218/959.

L’art. 32 quater, disciplina poi lo scioglimento dell’unione civile:

  • riconoscendo la giurisdizione italiana non solo nei casi previsti dagli articoli 3 e 9, ma anche”…quando una delle parti è cittadina italiana o l’unione è costituita in Italia“, ed estendendo detta competenza anche ai casi di nullità e annullamento dell’unione civile;
  • estendendo la disciplina dettata dal regolamento n°1259/2010 in punto di legge applicabile al divorzio e alla separazione personale anche allo scioglimento dell’unione civile.

Da ultimo, il decreto in oggetto sostituisce integralmente l’art. 45, relativo alle obbligazioni alimentari della famiglia, individuando quale legge applicabile alle obbligazioni alimentari nella famiglia quella designata dal regolamento 2009/4/CE.

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[:it]Di recente, l’Unione Europea è dovuta ricorrere alla cooperazione rafforzata al fine di adottare due regolamenti gemelli, fondamentali per colmare evidenti lacune nell’impianto internazional-privatistico comunitario, il regolamento 2016/1103 e 2016/1104, rispettivamente in materia di regimi patrimoniali tra coniugi e in materia di effetti patrimoniali delle unioni registrate.

I regolamenti in oggetto, si prefiggono la finalità di individuare, mediante un impianto di criteri oggettivi predeterminati dal legislatore e/o lasciati alla libera scelta delle parti, la competenza territoriale, la legge applicabile, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali tanto delle unioni registrate quanto delle coppie coniugate.

I due regolamenti gemelli – nati dalle ceneri di due proposte di regolamento della Commissione europea, il cui iter di adozione si era infranto sulle alte scogliere del requisito del voto ad unanimità – sono stato pertanto adottati solamente mediante il ricorso alla c.d. cooperazione rafforzata, che vede oggi coinvolti Austria, Belgio, Bulgaria, Repubblica ceca, Cipro, Croazia, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Slovenia, Spagna e Svezia. L’auspicio è che altri Stati membri presto si decidano di aderirvi rendendo la disciplina dei regolamenti 1103 e 1104 del 2016 applicabile nell’intera Unione.

Occorrerà tuttavia aspettare sino al 29 gennaio 2019 per la loro applicazione.

Di seguito il testo dei due regolamenti.[:]

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