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imagesA dirlo è la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n°1162 del 18 gennaio 2017.

La vicenda de quo vede come protagonisti una coppia di ultraquarantenni; il marito, imprenditore con uno strabiliante potere economico; la moglie, avvocato, che durante il breve matrimonio aveva sacrificato la propria professione per la cura della casa e per assistere professionalmente il coniuge.

In primo grado, il Tribunale di Roma negava l’assegno di mantenimento alla moglie, sulla scorta della breve durata della vita matrimoniale, appena due anni. La decisione veniva ribaltata in Appello, dove alla moglie veniva riconosciuto un assegno separatizio di € 1.000,00, a fronte della disparità economica esistente tra i coniugi, della perdita da parte della moglie dell’agiatezza “…che le condizioni economiche del marito le avrebbero assicurato ove non fosse intervenuta una separazione”, nonché della difficoltà che la stessa avrebbe certamente incontrato nell’inserirsi nuovamente nella professione forense.

La vicenda approda infine in Cassazione, dove il marito si duole, inter alia, della falsa applicazione degli articoli 115 e 116 c.c. nonché 156 c.p.c. ritenendo che “…la ridottissima durata del matrimonio e l’età dei coniugi, già ultraquarantenni, ognuno con una propria attività lavorativa incardinata, non consentiva nemmeno ipoteticamente l’accoglimento della richiesta dell’assegno di mantenimento, posta che tale attribuzione si sarebbe tradotta in una ingiusta rendita vitalizia per la moglie”.

Di diverso avviso, tuttavia, sono gli Ermellini, che hanno dichiarato infondato il suddetto motivo alla luce dei seguenti condivisibili principio: “…alla durata del matrimonio non può essere riconosciuta efficacia preclusiva del diritto all’assegno di mantenimento, ove di questo sussistano gli elementi costitutivi…”, potendo tuttalpiù “…attribuirsi rilievo ai fini della concreta quantificazione dell’assegno di mantenimento.

Nel caso di specie, pertanto, la Suprema Corte conferma l’operato dei giudici di secondo grado, riconoscendo all’avvocato il diritto all’assegno separatizio, alla luce della sussistenza degli elementi costitutivi del diritto al mantenimento, “…rappresentati dalla non addebitabilità della separazione al coniuge richiedente, dalla non titolarità, da parte del medesimo, di adeguati redditi propri, ossia di redditi che consentano di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, e dalla sussistenza di una disparità economica tra le parti”.

 

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Risultati immagini per immagine coppia di fattoCon l’aiuto del legale o di fiducia, può essere essere redatto in pochi incontri un contratto di convivenza su misura per tutelare se stessi, i propri beni, eventuali figli e per evitare litigi durante, ma soprattutto alla fine (non sperata) del rapporto di coppia, e di conseguenza per non finire in tribunale per nulla o, peggio, per ripicca.

Qui di seguito una bozza di accordo, assolutamente incompleta, da  modificarsi e integrarsi con clausole differenti o più specifiche, per meglio adattarsi alle esigenze della singola coppia.

Ad esempio, potrebbero stabilirsi delle norme volte al regolare, in caso di cessazione della convivenza, le sorti di una eventuale casa di proprietà (acquistata in costanza di convivenza) e del relativo mutuo (chi lo paga? come? in che modo?).

BOZZA CONTRATTO DI CONVIVENZA

Premesso che il sig. T. e la sig.ra C. sono uniti, sin dal …., da sinceri legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione o da matrimonio;

che il sig. T. e la sig.ra C. conducono, sin dalla data del ,,,,,, vita comune nell’abitazione sita in Polesella alla via …. n. …. ove entrambi sono residenti;

che il sig. T. e la sig.ra C. sono qualificati come conviventi ai sensi dell’art. 1 co. 36 della c.d. Legge Cirinnà;

che il sig. T. percepisce un reddito mensile pari ad € ………. netti;

che la sig.ra C. percepisce un reddito mensile netto pari ad €. ………….;

che il sig. T. risulta essere il padrone del cane … registrato all’anagrafe canina al n. ……..;

Ritenuto che i medesimi intendono regolamentare con il presente atto taluni profili di natura patrimoniale afferenti la loro convivenza e segnatamente stabilire ex ante il regime cui saranno soggetti i beni e i diritti acquistati a titolo oneroso in contitolarità dai conviventi o anche in titolarità esclusiva di uno dei conviventi e poi trasferiti pro quota all’altro;

Tanto premesso e ritenuto

                                                     tra

T….

e

 C….

si conviene quanto segue:

1) T e C convengono di provvedere alle spese comuni, nella misura mensile fissa di Euro …. , da suddividersi in tal modo: €. …. a carico di T. ed €……………… a carico di C. in considerazione del maggior reddito di T. e del lavoro casalingo posto in essere da C. quotidianamente;

1.1) Ai fini del precedente punto 1.1) si intendono per spese comuni quelle sostenute: a) per l’alimentazione di entrambi i conviventi e dei loro ospiti occasionali; b) per l’erogazione di acqua, elettricità, gas, riscaldamento, servizi condominiali, telefono, purché in relazione all’abitazione come sopra eletta a residenza comune; c) per la pulizia dell’abitazione, compresi il salario e tutti gli oneri accessori, delle eventuali persone chiamate ad effettuarla; d) per le riparazioni ordinarie dell’abitazione come sopra eletta a residenza comune, e dei mobili a suo arredo; e) per la biancheria relativa all’abitazione come sopra eletta a residenza comune, con esclusione, quindi, della biancheria e dell’abbigliamento di ciascuno dei conviventi; f) per i servizi igienico-sanitari dell’abitazione come sopra eletta a residenza comune; g) per le spese condominiali relative all’abitazione come sopra eletta a residenza comune; h) per i viaggi e le vacanze effettuati assieme; i) per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione della prole nata dal proprio rapporto e riconosciuta da entrambe le parti; l) per il mantenimento del cane Rocky;

1.2) Le somme necessarie al pagamento delle spese comuni verranno prelevate dal conto corrente IBAN IT…………………….., aperto presso la Banca …, cointestato ed a firme disgiunte. I conviventi si impegnano ad alimentare il predetto conto corrente con versamenti da effettuarsi all’inizio di ogni mese e per importi pari previsto ai sensi del precedente punto 1). Nel caso dette somme si rivelino superiori a quanto effettivamente necessario, rimarranno depositate sul predetto conto corrente per far fronte alle spese da sostenersi successivamente. Al contrario, se esse si rivelino insufficienti, ciascun convivente provvederà tempestivamente ad integrarle, nella proporzione cui è tenuto ai sensi del precedente punto 1).

1.3) Nel caso uno dei conviventi venga a trovarsi privo di redditi, o comunque con reddito inferiore ad €. 100,00, si conviene sin da ora che le spese comuni  saranno ad esclusivo carico dell’altro convivente per un periodo non superiore a 12 mesi. Decorso detto termine, cesserà di avere efficacia la presente convenzione la presente clausola, ed i sottoscritti potranno eventualmente adottare una nuova clausola sulla riparT.ne delle spese comuni, ferme restando le altre clausole del presente contratto. Ai fini della presente convenzione si debbono intendere, per redditi di ciascuno dei conviventi, tutti i redditi dichiarati e dichiarabili annualmente ai fini della dichiarazione dei redditi delle persone fisiche. Le imposte, tasse, contributi e oneri relativi a detti redditi sono ad esclusivo carico del suo percettore.

2) I sottoscritti, premesso che hanno eletto a residenza comune i locali dell’abitazione sita in .., alla via …………………………, e precisato che essa è condotta in locazione da T. – giusta il contratto di locazione stipulato con S. il …. ai sensi del quale T. è tenuto a corrispondere al locatore mensilmente un canone di Euro …,00– convengono che anche C. si serva di detta abitazione, dimorando in essa, per l’intera durata della convivenza. C. concorrerà con T. nel pagamento del canone di locazione nella misura del 50%;

2.1) La convenzione di cui al punto n. 2) si intende sottoposta alla condizione risolutiva della cessazione della convivenza, determinata dal decesso, dal mutuo dissenso o anche da recesso unilaterale di uno di essi conviventi comunicato per iscritto all’altro a mezzo di raccomandata con avviso di ricevimento A.R.; ai fini dell’efficacia del recesso unilaterale farà fede la data di ricezione della dichiarazione come comprovata dalla ricevuta di ritorno;

3) I sottoscritti T. e C., in via preliminare, allegano al presente contratto (allegato “A”) un inventario, sottoscritto da entrambi, dei beni immobili e mobili acquistati da ciascuno, separatamente, prima dell’inizio della convivenza, con l’indicazione, a fianco di ogni bene, del nominativo di appartenenza, ed al riguardo concordemente e vicendevolmente riconoscono e danno atto che ciascuno di essi conserverà, nonostante la convivenza, il pieno godimento, nonché la libera disponibilità di amministrazione di ogni bene immobile e mobile di sua esclusiva proprietà;

Fermo quanto previsto al comma precedente, T. e C. si impegnano reciprocamente a ritrasferire all’altro la quota del cinquanta per cento (50%) dei diritti reali sui beni acquistati in costanza di convivenza, da entrambi congiuntamente o da ciascuno di essi, anche separatamente, ad esclusione di quei beni e diritti che sarebbero «personali» in base al disposto dell’art. 179 del Codice Civile. Per «costanza di convivenza» dovrà intendersi il periodo compreso tra la data in premessa indicata di inizio convivenza e la successiva data in cui, uno dei conviventi avrà manifestato all’altro per iscritto la sua decisione di far cessare l’effetto della presente convenzione. La situazione che si verrà a creare a seguito del trasferimento di cui sopra dovrà intendersi come comunione ordinaria e sarà disciplinata dagli artt. 1100 e seguenti del Codice Civile. In caso di inadempimento di uno dei conviventi al predetto obbligo di trasferimento pro quota a favore dell’altro, quest’ultimo potrà esperire l’azione di cui all’art. 2932 del Codice Civile volta ad ottenere l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre.

3.1) In relazione ai beni acquistati in comunione i sottoscritti si concedono sin da ora, reciprocamente, diritto di prelazione, a parità di condizioni, per la sola ipotesi della vendita di quota, o di parte di essa, da parte dell’altro convivente. Il convivente che intenda vendere la sua quota, o parte di essa, deve comunicarne l’intenzione all’altro convivente, precisando altresì il prezzo, le modalità di pagamento del medesimo ed eventuali altre condizioni di vendita, con raccomandata con avviso di ricevimento A.R. Il convivente potrà esercitare il diritto di prelazione comunicando all’altro convivente, con raccomandata con avviso di ricevimento A.R., l’intenzione di acquistare la quota alle condizioni propostegli, entro e non oltre … giorni dal ricevimento della proposta di vendita. Il diritto di prelazione è convenuto per il solo caso di vendita della quota, o di parte di essa, essendo esclusi, pertanto, tutti gli altri negozi costitutivi o traslativi di diritti sulla quota medesima, o su parte di essa;

4) I conviventi sono obbligati solidalmente nei confronti dei terzi per i debiti contratti da uno di essi per i bisogni della vita corrente, per le spese relative all’alloggio comune e al cane Rocky;

5) qualora uno dei conviventi, a causa di una malattia o handicap invalidante che comporti l’incapacità di intendere e di volere, non sia più in grado di prendere le decisioni a tutela della sua salute, l’altro ne diverrà il rappresentante, potendo: a)    richiedere il suo ricovero o il suotrasferimento presso idonea struttura sanitaria o socio-sanitaria pubblica e/o privata convenzionata; b) verificare l’idoneità funzionale della struttura di degenza, assumendo le iniziative occorrenti affinché, sulla base delle prestazioni a cui ho diritto secondo le vigenti disposizioni nazionali e regionali, mi vengano assicurate le necessarie cure e il miglior benessere possibile; c) controllare la correttezza delle cure medico-infermieristiche e riabilitative, ivi comprese le misure dirette ad evitare ogni forma di accanimento terapeutico e ogni altra condizione lesiva della mia salute e del mio benessere; d) verifica dell’igiene ambientale e personale;

6) In caso di morte di uno dei due conviventi, l’altro sarà nominato suo rappresentante ai fini della donazione di organi, delle modalità di trattamento del corpo e delle celebrazioni funerarie;

7) la convivenza cesserà, oltre che per morte di uno di essi, per mutuo dissenso o per recesso unilaterale. Il convivente che intenda far cessare la comunione di vita lo comunica all’altro, in qualsivoglia forma. Nel caso la decisione di cessazione della convivenza sia adottata da T., conduttore dell’immobile sito in ,,,,,,,,,,,,,,,, C. conserva il diritto a servirsi dell’abitazione di cui al precedente per 3 mesi dal momento di ricevimento della comunicazione, che, in tal caso, T. deve inviare con raccomandata con avviso di ricevimento A.R.. Il diritto a servirsi dell’abitazione per il tempo sopra precisato comprende il diritto d’uso, per quel medesimo tempo, dei mobili essenziali che corredano l’abitazione, senza pregiudizio alcuno della titolarità dei medesimi. È facoltà di C., anziché servirsi dell’abitazione come sopra precisato, pretendere da T. la somma di Euro …00, sempre che T. non preferisca, anziché erogare detta somma, consentire l’uso dell’abitazione nei modi e per il tempo sopra indicati;

7.1) Alla cessazione della convivenza per qualsivoglia causa, fatto salvo quanto previsto dai commi 36 e ss.  dell’art. 1 della c.d. Legge Cirinnà, ciascun convivente, ovvero i suoi successori legittimi e/o testamentari, ha diritto di chiedere la divisione degli eventuali beni comuni.

7.2) Alla cessazione della convivenza per causa diversa dalla morte, il cane Rocky sarà affidato a C., che provvederà autonomamente ai bisogni ed al mantenimento dello stesso. Le spese per il passaggio di proprietà del cane saranno poste a carico di C.;

8) Qualunque controversia dovesse sorgere in relazione al presente contratto che abbia ad oggetto diritti disponibili, comprese quelle concernenti la sua validità, interpretazione ed esecuzione, sarà deferita al giudizio di un arbitro designato di comune accordo dai conviventi. Nel caso in cui i conviventi, per qualsivoglia causa, non giungano alla concorde designazione dell’arbitro, ciascuno di essi potrà chiederne la designazione al Presidente del Consiglio dell’ordine degli Avvocati di Roma, L’arbitrato sarà irrituale e secondo equità.

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[:it]Risultati immagini per immagine cartoni prigione

La Cassazione penale, sez. VI^, con sentenza del 19 gennaio 2017 n°2666, si è pronunciata sulla richiesta di condanna di un padre, per il reato di cui alla legge 24/2006, art. 3, per aver versato all’ex-compagna solo parte della somma per il mantenimento del figlio minorenne, rispetto al maggiore importo fissato dal Tribunale per i Minorenni, nonché per aver omesso di versare la quota del 50% delle spese mediche e straordinarie.

La vicenda si conclude in Cassazione con un annullamento senza rinvio da parte dei giudici di legittimità, perché il fatto oggetto di contestazione e di condanna nei giudizi di merito non è previsto dalla legge come reato.

Ad avviso dei giudizi di Piazza Cavour, l’applicabilità della legge n°54/2006 ai procedimenti civili riguardanti i figli delle coppie di fatto non comporta tout court l’estensione a questi ultimi delle norme penali sostanziali poste a tutela degli obblighi economici di chi era unito dal vincolo matrimoniale. L’art. 3 della legge n°54/2006, in forza del quale “in caso di violazione degli obblighi di natura economica si applica l’art. 12-sexies della legge 1 dicembre 1970, n. 898“, deve essere letto pertanto nel contesto della disciplina dettata dalla legge 8 febbraio 2006, n°54, e, in particolare, dell’art. 4, comma 2, che recita: “Le disposizioni della presente legge si applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati“.

La soluzione appena indicata, oltre ad essere attenta al dato testuale delle disposizioni di legge, risponde anche al principio del cd. “diritto penale minimo” e non lede, per il giudice di legittimità, la posizione sostanziale dei figli di genitori non coniugati, per la cui tutela è possibile il ricorso a tutte le azioni civili, ferma restando, inoltre, l’applicabilità della fattispecie di cui all’art. 570, secondo, comma, n. 2, c.p.

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imagesTra le battaglie giudiziarie che si consumano nelle aule di Tribunale, quella per il diritto a vedersi riconosciuto un congruo assegno separatizio dal proprio ex è certamente tra le più cruente e durature, destinata potenzialmente a non concludersi in un solo giudizio e formare oggetto di una serie di ricorsi volti alla sua rideterminazione alla luce di circostanze sopravvenute. Con il presente articolo proviamo a darvi una risposta ad alcune importanti domande.

Chi ha diritto all’assegno di mantenimento?

Norma fondamentale è l’art. 156 c.c., rubricato “Effetti della separazione sui rapporti patrimoniali tra coniugi”, che, al I° comma recita: “Il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora non abbia adeguati redditi propri”. Ai sensi dell’art. 156 c.c., dunque, l’assegno separatizio spetta esclusivamente al marito o alla moglie che non abbia causato con il proprio comportamento la separazione e che non disponga di redditi sufficienti per il proprio mantenimento.

Senza dilungarsi sul concetto di “addebito”, ci si limita ad evidenziare come il coniuge a cui sia addebitata la separazione conserva comunque diritto ai c.d. “alimenti”, il cui presupposto tuttavia è limitato alla pressoché totale mancanza di mezzi per sopravvivere e la cui misura è inferiore al “mantenimento”.

Come si quantifica l’assegno di mantenimento?

Il legislatore, sul punto, si limita ad affermare, sempre all’art. 156 c.c. ma al suo II° comma che: “L’entità della somministrazione è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell’obbligato”.

Sul punto è intervenuta sin da subito la giurisprudenza della Corte di Cassazione chiarendo che: “la misura dell’assegno va determinata non solo valutando i redditi dell’obbligato, ma anche altre circostanze non indicate specificatamente, né determinabili a priori, ma da individuarsi in tutti quegli elementi fattuali di ordine economico, o comunque apprezzabili in termini economici, diversi dal reddito dell’obbligato, suscettibili di incidere sulle condizioni economiche delle parti” (Cass. civ. sez. VI-1, ordinanza del 9 febbraio 2015, n°2445). Nella specie, la Suprema Corte ha puntualmente individuato una lunga serie di criteri per la quantificazione dell’assegno, tra i quali, ricordiamo:

  • il tenore di vita goduto dai coniugi durante la convivenza;
  • i redditi dell’obbligato in assoluto e in relazione a quelli del coniuge avente diritto al mantenimento;
  • l’assegnazione della casa familiare (di cui il giudice ora deve necessariamente tenere conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, ai sensi dell’art. 337 sexies c.c.)
  • le potenzialità lavorative del coniuge richiedente il mantenimento.

È possibile revocare l’assegno di mantenimento o rideterminarne la quantificazione?

È poi certamente possibile ottenere una revoca o una rideterminazione dell’assegno di mantenimento alla luce di nuove circostanze sopravvenute successivamente alla sentenza di separazione.

A riguardo, prendiamo spunto da una recente pronuncia della Corte di Cassazione per analizzare due di queste circostanze: la nascita di un nuovo figlio del coniuge obbligato e la potenzialità lavorativa del coniuge beneficiario.

La vicenda di cui ci occuperemo trae origine da una triste vicenda familiare, comune a tanti genitori single.

Una coppia di giovani sposi decide di separarsi consensualmente concordando che l’ex marito avrebbe versato un assegno di separazione all’ex moglie e si sarebbe fatto carico della quasi totalità delle spese straordinarie per i loro figli.

A distanza di pochi anni, tuttavia, l’ex marito ricorre al Tribunale per veder revocato l’assegno separatizio in favore della moglie, sostenendo di non potervi più far fronte a causa delle rilevanti spese che doveva sostenere a seguito della nascita di un nuovo figlio, avuto dall’attuale compagna. Ad avviso dell’ex marito, inoltre, la moglie non avrebbe più avuto diritto al mantenimento perché, nonostante fosse giovane e con un figlio ormai grande (16 anni) la stessa non si era attivata al fine di cercare un lavoro, impiegando invece il suo tempo a lavorare “gratuitamente” con il fratello.

La Corte territoriale dà parzialmente ragione al marito, ritenendo, in particolare, che il diritto al mantenimento del nuovo figlio dovesse considerarsi prevalente su quello dell’ex moglie e che la donna avesse in astratto tutte le carte in regola per trovarsi un lavoro e non dipendere più dal marito.

La donna decide allora di ricorrere per Cassazione che, investita della questione, si interroga sulla rilevanza da dare alla nascita del nuovo figlio così come alle capacità lavorative della donna.

In particolare, la Corte di Piazza Cavour, chiarisce che la formazione di una nuova famiglia e la nascita di figli dal nuovo partner, può certamente considerarsi una circostanza sopravvenuta idonea a determinare una riduzione dell’assegno di separazione in favore dell’ex coniuge. È infatti innegabile che la costituzione di una nuova famiglia e la nascita di un figlio determinino una crescita significativa delle spese a cui si deve andare incontro. Dall’altro lato, tuttavia, è sempre necessario accertare quanto detta spesa incida sui redditi complessivi del coniuge obbligato. La Corte, inoltre, chiarisce un concetto importantissimo. Non è possibile considerare il diritto al mantenimento del nuovo figlio superiore e prevalente né su quello dei fratelli avuti dalla precedente unione né dell’ex coniuge.

La Corte, da ultimo, si sofferma sull’idoneità delle potenzialità lavorative non sfruttate del coniuge ad incidere sul suo diritto al mantenimento. A riguardo, i giudici, rispondono in senso affermativo, sottolineando tuttavia come il Tribunale debba dare rilevanza unicamente alla concreta ed “effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale, e non già di mere valutazioni astratte ed ipotetiche” (Cass. civ. sez. I^, sentenza del 13 gennaio 2017, n°789).

Nel caso concreto, la Corte dà ragione pertanto all’ex moglie, l censurando l’operato della corte di merito e le conclusioni dalla stessa raggiunte laddove non fondate “sulla concreta possibilità, da parte dell’istante di svolgere un’attività lavorativa”, incaricando pertanto il giudice del rinvio di procedere ad un nuovo apprezzamento della vicenda.

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imagesLa Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n°789 del 13 gennaio 2017, è ritornata sull’annosa questione della rideterminazione dell’assegno separatizio e/o divorzile a fronte della nascita di un figlio da una nuova relazione del coniuge obbligato.

La vicenda origina dal ricorso per cassazione di una moglie avverso il provvedimento con cui la Corte territoriale aveva, inter alia, disposto la revoca del modesto assegno separatizio convenuto tra i coniugi in sede di separazione consensuale nonché rideterminato la ripartizione tra i coniugi delle spese straordinarie sostenute per i figli alla luce delle sopravvenute nuove spese a cui l’ex marito doveva far fronte per la crescita del figlio nato successivamente alla separazione da una relazione di fatto, nonché del mancato reperimento da parte della donna di una sistemazione lavorativa, nonostante la stessa fosse ancora giovane e con un figlio sedicenne che non necessitava più di cure costanti.

La pronuncia della Suprema Corte offre importanti spunti tanto in punto di incidenza della creazione di una nuova famiglia sugli obblighi di mantenimento nei confronti della precedente famiglia, quanto in ordine alla rilevanza e alla prova delle potenzialità lavorative del coniuge beneficiario di un assegno separatizio.

In particolare, per quanto attiene alla la formazione di una nuova famiglia e la nascita di figli dal nuovo partner, gli Ermellini condivisibilmente chiariscono che:

  • detto evento debba essere considerato dal giudice quale circostanza sopravvenuta idonea a determinare una tale riduzione alla luce dei nuovi oneri economici ad essa connessa, qualora accertata in sede giudiziale;
  • la riduzione degli oneri di mantenimento nei confronti dei figli nati dalla precedente unione e nei confronti dell’ex coniuge, tuttavia, non può avvenire automaticamente, dovendo procedersi ad un accertamento in concreto dell’incidenza del nuovo nucleo familiare sul potere economico del coniuge obbligato;
  • sia poi da escludere che “…il diritto alimentare del coniuge separato sia recessivo rispetto a quello del nuovo figlio … sicchè anche in tale ipotesi dovrà valutarsi l’incidenza della circostanza sopravvenuta per verificare se sia in concreto giustificata, a mente dell’art. 156 c.p.c., u.c., la revoca o la modifica delle condizioni già fissate”.

Passando poi all’incidenza da attribuirsi alle potenzialità lavorative del coniuge beneficiario dell’assegno separatizio e al mancato reperimento da parte dello stesso di una sistemazione lavorativa, la Corte offre i seguenti condivisibili principi:

  • in tema di separazione personale dei coniugi, “l’attitudine al lavoro proficuo dei medesimi, quale potenziale capacità di guadagno, costituisce elemento valutabile ai fini della determinazione della misura dell’assegno di mantenimento da parte del giudice, che deve al riguardo tenere conto non solo dei redditi in denaro ma anche di ogni utilità o capacità dei coniugi suscettibile di valutazione economica;
  • l’attitudine del coniuge al lavoro assume in tal caso rilievo solo se venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale, e non già di mere valutazioni astratte ed ipotetiche” (Cass. 13 febbraio 2013, n. 3502; Cass. 25 agosto 2006, n. 18547; Cass. 2 luglio 2004, n. 12121)

Nel caso concreto, la Corte dà ragione pertanto all’ex moglie censurando l’operato della corte di merito e le conclusioni dalla stessa raggiunte laddove non fondate “sulla concreta possibilità, da parte dell’istante di svolgere un’attività lavorativa”, incaricando pertanto il giudice del rinvio di procedere ad un nuovo apprezzamento della vicenda.

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Risultati immagini per immagine giuramento processoIl Tribunale di  Palermo, con ordinanza 23 dicembre 2016, dichiara l’inammissibilità del giuramento decisorio deferito al coniuge allo scopo di dimostrare l’effettiva consistenza delle sue risorse economiche nell’ambito di un giudizio di separazione o di divorzio.

Il giudice arriva a detta decisione considerando non tanto l’indisponibilità sostanziale del diritto alla prestazione di natura assistenziale,  quanto sulla base della dirimente argomentazione per cui il suo deferimento non legittimerebbe, in ogni caso,  un’automatica decisione sul punto, dal momento che le dichiarazioni da esso scaturenti rappresenterebbero solo semplici elementi presuntivi, idonei al più a riscontrare altre prove.

TRIBUNALE DI PALERMO – SEZIONE I CIVILE – ORDINANZA 23 DICEMBRE 2016

Il Giudice Esaminati gli atti e sciolta la riserva assunta all’udienza del 13 dicembre 2016, Osserva Il problema dell’ammissibilità del giuramento decisorio finalizzato ad una più compiuta descrizione e quantificazione delle risorse economiche dei coniugi ha suscitato un vivace dibattito, sia in ambito giurisprudenziale che in prospettiva dottrinale, tra i sostenitori dell’indisponibilità del diritto all’assegno di mantenimento e coloro i quali, invece, accettano l’idea che tale posizione soggettiva rientri nel potere dispositivo delle parti (cfr., tra i precedenti dogmaticamente più solidi in giurisprudenza, Cass. Civ. 4 giugno 1983, n. 3811 per la tesi affermativa e Cass. Civ. 9 novembre 1970, n. 2287, per la prospettazione negativa).

Si ritiene, d’altronde, che un ragionevole approccio alla tematica in questione debba muovere dall’assunto per cui il diritto all’assegno di mantenimento, sia in regime di separazione che in quello di divorzio, è disponibile nella misura in cui il giudice, per poterlo riconoscere, necessita della domanda di parte, ma che – in linea con le più autorevoli meditazioni dottrinali sul tema – a tale disponibilità processuale relativa fa da contraltare una autentica indisponibilità sostanziale, la quale riceve conferma dalla stessa natura assistenziale dell’assegno. È pur vero che alcuni interpreti riconnettono l’inammissibilità del giuramento decisorio alla sola porzione “alimentare” dell’assegno (in quanto ritenuta indisponibile), mostrandosi al contrario inclini ad ammetterlo per tutto ciò che esula dallo stato di bisogno.

Tuttavia, al netto delle più che fondate riserve sulla legittimità dell’impostazione esegetica fatta propria dalla parte deferente, va comunque rimarcato che il deferimento del giuramento decisorio sulle risorse economiche dei coniugi non permetterebbe – come osservato dai più autorevoli interpreti – un’automatica decisione sul punto (tant’è vero che si è ritenuto che le dichiarazioni che ne costituiscono il contenuto rappresenterebbero né più né meno che semplici elementi presuntivi, idonei al più a riscontrare altre prove).

Quanto appena osservato induce a ritenere che, indipendentemente dalla querelle dogmatica circa la sua dignità di mezzo di prova, il giuramento decisorio in relazione all’assegno di mantenimento del coniuge più debole, in quanto espressione imperfetta del potere dispositivo delle parti nel processo, non assolverebbe pienamente la sua funzione tombale di risoluzione della controversia, che – come è noto – non lascia all’organo giudicante alcun margine di apprezzamento.

PQM

dichiara inammissibile il giuramento decisorio deferito da … a …. sui capitolati articolati nella nota autorizzata del (OMISSIS). Rinvia all’udienza del … per la precisazione delle conclusioni. Palermo, 23 dicembre 2016

IL GIUDICE Michele Ruvol

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[:it]Risultati immagini per immagini nonni e bambiniLa legge non prevede limiti di età per chi intende generare un figlio.

Per tale ragione la Cassazione, con sentenza 30 giugno 2016 n. 13435, ha accolto il ricorso straordinario di una coppia di coniugi ai quali la figlia era stata tolta a poche settimane della nascita per abbandono di minore.

Alla base dell’accusa, oggetto anche di  un processo penale, l’aver lasciato la bambina da sola in macchina.

Nel processo si era però chiarito che la bimba non aveva corso, in realtà, alcun pericolo perché la strada, di paese, era illuminata e chiusa al transito.

I giudici civili di merito avevano però insistito  sull’età della coppia: la mamma aveva concepito la figlia a 57 anni, quando il marito ne aveva 69.

Tuttavia per i Giudici di legittimità detta circostanza, in assenza d’altro, non basta per spezzare i legami familiari.

Infatti, in tema di adozione, il prioritario diritto fondamentale del figlio di vivere, nei limiti del possibile, con i suoi genitori e di essere allevato nell’ambito della propria famiglia, sancito dall’art. 1 della l. n. 184 del 1983, impone particolare rigore nella valutazione dello stato di adottabilità, ai fini del perseguimento del suo superiore interesse, potendo quel diritto essere limitato solo ove si configuri un endemico e radicale stato di abbandono – la cui dichiarazione va reputata, alla stregua della giurisprudenza costituzionale, della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia, come “extrema ratio” – a causa dell’irreversibile incapacità dei genitori di allevarlo e curarlo per loro totale inadeguatezza.

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download (1)Non è un mistero che la separazione e/o il divorzio legale tra marito e moglie, così come la separazione di fatto tra partners di coppie non coniugate, rischiano di avere gravi e dolorose ripercussioni anche sui figli, usati come arma in un vero e proprio conflitto tra i genitori. Troppo spesso, infatti, la crisi della coppia si estende alla coppia genitoriale, con grave e, aimè, irreparabile danno per i bambini.

Uno degli effetti maggiormente pregiudizievoli per i bambini è la c.d. PAS, ovvero sindrome da alienazione genitoriale (o PAS, dall’acronimo di Parental Alienation Syndrome). Questo disturbo psicopatologico, ancorché ancora al centro di discussioni e non ancora riconosciuto dalla comunità scientifica internazionale, colpirebbe proprio i bambini coinvolti nel conflitto genitoriale determinando una vera alienazione degli stessi da una delle figure genitoriali, specie quella non convivente con il minore.

Lasciando da parte le prese di posizione di psicoterapeuti e tribunali sull’esistenza stessa della PAS, rimane un dato oggettivo e sconcertante: sempre più spesso i genitori non conviventi lamentano continue e costanti interferenze degli ex partner, rei di ostacolare i rapporti liberi dei figli con l’altro genitore, spingendosi sino a svilire costantemente la sua figura, senza tenere in minima considerazione gli effetti tragici che tale condotta rischia di avere sulla crescita serena e corretta della prole. Quel che maggiormente preoccupa, poi, è che la tutela giurisdizionale dei diritti del genitore non convivente viene assai spesso frustrata dai tempi “biblici” della giustizia italiana e dal ricorso da parte dei tribunali ad una serie di misure automatiche e stereotipate, assolutamente inidonee a ristabilire i rapporti tra genitore e figlio non convivente.

Questa allarmante situazione è stata di recente oggetto di una serie di importanti condanne da parte della Corte EDU, ad avviso della quale il nostro Paese non si sarebbe dotato di misure idonee a rendere effettivo il diritto di visita, frustrando ingiustamente tanto il diritto del genitore non convivente alla genitorialità (diritto di rango costituzionale) quanto il diritto del bambino alla c.d. bigenitorialità, ovvero ad avere rapporti paritetici ed effettivi con ambedue i minori, a prescindere dal suo collocamento presso l’uno o l’altro genitore. Tali diritti, è bene ricordarlo, traggono la loro origine tanto dalla nostra Costituzione, in particolare dagli articoli 2, 29 e 30 Cost., quanto da una serie di Convenzioni internazionali ratificate dall’Italia, tra cui, in primis, la stessa CEDU (acronimo per Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali) che, all’art. 8, rubricato “diritto al rispetto della vita privata e familiare”, recita: “1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.

Un’analisi di alcune delle recenti condanne da parte della Corte EDU appaiono pertanto utili, se non indispensabili, per capire quali sono i comportamenti in positivo che dovrebbero tenere gli organi dello Stato – partendo dai Tribunali, passando per assistenti sociali e centri di mediazione – al fine di tutelare tanto il diritto del padre alla genitorialità e, nello specifico, l’esercizio effettivo del suo diritto di visita, quanto il diritto del figlio alla bigenitorialità, salvo i casi eccezionali in cui lo stesso risulti pregiudizievole al minore.

Partiamo dunque con il chiarire che esiste un vero e proprio obbligo del Tribunale di attivarsi al fine di rimuovere celermente ogni ostacolo frapposto al rapporto tra figlio e genitore convivente, e a “…creare le condizioni necessarie alla piena realizzazione del diritto di visita del padre del minore (così CUDU, Bondavalli c. Italia, ric. n°35532/12, sentenza del 17 novembre 2015, par. 81; in senso conforme CEDU, Macready c. Repubblica ceca, ric. nn°4824/06 e 15512/08, sentenza del 22 aprile 2010, par. 66), mediante l’adozione di “…misure idonee a riunire genitore e figlio, anche in presenza di conflitti tra i genitori” (così, CEDU, Strumia c. Italia, ric. n°53377/13, sentenza del 23 giugno 2016, par. 110). Tale obbligo positivo non è limitato unicamente alla vigilanza “…affinchè il minore possa raggiungere il genitore o mantenere un contatto con lui, bensì comprendono anche tutte le misure propedeutiche che consentono di raggiungere tale risultato” (così CEDU, Giorgioni c. Italia, ric. n°43299/12, sentenza del 15 settembre 2016, par. 62). Dette misure, aggiunge la Corte, non possono consistere unicamente in quelle “automatiche e stereotipate” (quali le richieste di informazioni a periti incaricati ovvero la delega delle funzioni di controllo delle visite ai servizi sociali) che, spesso, non scalfiscono la situazione di alienazione già esistente, anzi contribuiscono alla sua acuizione mediante il decorso del tempo.

Qualora poi, come spesso accade, sia ravvisabile una mancanza di collaborazione da parte del genitore collocatario, dovuta soprattutto a tensioni esistenti tra i genitori, la stessa non può “…dispensare le autorità competenti dall’utilizzare tutti gli strumenti atti a consentire il mantenimento del legame familiare” (CEDU, Giorgioni c. Italia, ric. n°43299/12, sentenza del 15 settembre 2016, par. 74; CUDU, Bondavalli c. Italia, ric. n°35532/12, sentenza del 17 novembre 2015, par. 82; CEDU, Lombardo c. Italia, ric. n°25704/11, sentenza del 29 gennaio 2013, par. 91; CEDU, Santilli c. Italia, ric. n°51930/10, sentenza del 17 dicembre 2013, par. 74). In altri termini, secondo il condivisibile parere della Corte Europea, il Tribunale ha il potere nonché il dovere di attivarsi al fine di rimuovere celermente ogni ostacolo frapposto al rapporto tra figlio e genitore convivente, con specifico riferimento alla mancanza di collaborazione in tal senso da parte del genitore collocatario, e a “…creare le condizioni necessarie alla piena realizzazione del diritto di visita del padre del minore” (così CUDU, Bondavalli c. Italia, ric. n°35532/12, sentenza del 17 novembre 2015, par. 81; in senso conforme CEDU, Macready c. Repubblica ceca, ric. nn°4824/06 e 15512/08, sentenza del 22 aprile 2010, par. 66), mediante l’adozione di “…misure idonee a riunire genitore e figlio, anche in presenza di conflitti tra i genitori” (così, CEDU, Strumia c. Italia, ric. n°53377/13, sentenza del 23 giugno 2016, par. 110).

Un ultimo aspetto di fondamentale importanza sottolineato poi dalla Corte è che “per essere adeguate, le misure volte a riunire genitore e figlio devono essere attuate rapidamente, in quanto il decorso del tempo non può avere conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il minore e il genitore non convivente (CEDU, Giorgioni c. Italia, ric. n°43299/12, sentenza del 15 settembre 2016, par. 63, CEDU, Bondavalli c. Italia, ric. n°35532/12, sentenza del 17 novembre 2015, par. 73; si veda anche CEDU, Lombardo c. Italia, ric. n°25704/11, sentenza del 29 gennaio 2013; CEDU, Santilli c. Italia, ric. n°51930/10, sentenza del 17 dicembre 2013). In tale ottica, qualora si ravvisino opposizioni del genitore collocatario all’esercizio del diritto di visita da parte dell’altro genitore, sarà “necessaria una risposta rapida a tale situazione tenuto conto dell’incidenza, in questo tipo di cause, del trascorrere del tempo, che può avere effetti negativi sulla possibilità per il genitore interessato di riallacciare un rapporto con il figlio (CEDU, Giorgioni c. Italia, ric. n°43299/12, sentenza del 15 settembre 2016, par. 70).

I sopramenzionati principi sono stati di recente recepiti dalla Suprema Corte di Cassazione nella recente sentenza 16 febbraio – 8 aprile 2016, n°6919, in cui ha opportunamente sottolineato come: «in tema di affidamento dei figli minori, il giudizio prognostico che il giudice, nell’esclusivo interesse morale e materiale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell’unione, va formulato tenendo conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, nonché della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore, fermo restando, in ogni caso, il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione (v. Cass. n. 18817/2015). Non può esservi dubbio che tra i requisiti di idoneità genitoriale, ai fini dell’affidamento o anche del collocamento di un figlio minore presso uno dei genitori, rilevi la capacità di questi di riconoscere le esigenze affettive del figlio, che si individuano anche nella capacità di preservargli la continuità delle relazioni parentali attraverso il mantenimento della trama familiare, al di là di egoistiche considerazioni di rivalsa sull’altro genitore.

Ad avviso della Suprema Corte, quindi, gli ostacoli frapposti dal genitore all’esercizio del diritto di visita da parte dell’ex coniuge sono un elemento che deve essere valutato al fine di giudicare la sua capacità genitoriale, potendo legittimare anche l’affidamento del bambino all’altro genitore.

Che cosa fare dunque se il vostro ex compagno o ex coniuge vi impedisce di vedere vostro figlio secondo le modalità concordate o decise dal Tribunale? Denunciate subito l’accaduto tramite il vostro avvocato e chiede quanto prima la modifica delle modalità di affidamento. Come infatti chiarito dalla Cassazione, in tali casi “il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità in fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente/a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena.

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downloadSempre più spesso i nostri Tribunali sono chiamati a pronunciarsi sul riconoscimento dello status di figlio, in particolare nei confronti del padre biologico.

Al fine di comprendere meglio la questione è necessario preliminarmente ripercorrere la disciplina relativa allo stato di figlio, contenuta nel Libro I, Titolo VII, del codice civile, distinguendo a seconda che si parli di figlio nato dentro o fuori dal matrimonio (noti un tempo come figli legittimi e figli naturali).

Partendo proprio dai figli nati da genitori coniugati, l’art. 231 c.c. prevede come regola generale che “Il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio”.

Al fine di superare detta presunzione gli articoli 243 bis e ss. c.c. disciplinano il c.d. disconoscimento di paternità, mediante il quale il marito, la madre e il figlio possono provare che non sussista il rapporto di filiazione.

Per quanto concerne invece i figli nati fuori dal matrimonio, gli artt. 250 e ss. c.c. prevedono la possibilità per i due genitori di procedere, congiuntamente o separatamente, al riconoscimento all’atto di nascita o successivamente, mediante dichiarazione dinnanzi all’ufficiale dello stato civile.

Detta dichiarazione può essere, tuttavia, impugnata per difetto di veridicità ai sensi degli articoli 263 c.c. e seguenti. Legittimati all’impugnazione saranno l’autore stesso del riconoscimento, colui che è stato riconosciuto o chiunque altro vi abbia interesse. L’azione è imprescrittibile solo riguardo al figlio, dovendo di contro essere esercitata entro i termini stringenti di cui all’art. 263 c.c., da parte degli altri soggetti.

La dichiarazione di paternità o maternità può inoltre avvenire giudizialmente ai sensi degli articoli 269 c.c. e ss. su domanda dello stesso figlio o dalla madre, se minore di 14 anni, o ancora dal tutore, qualora il figlio sia interdetto, previa autorizzazione da parte del giudice tutelare.

Proprio la mancanza di termini prescrizionali per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità su domanda del figlio sono stati oggetto di una recentissima pronuncia della Suprema Corte (sez. I^, sentenza del 29 novembre 2016, n°24292).

La vicenda trae origine dal ricorso promosso da un padre biologico avverso la sentenza con cui la Corte d’appello di Torino aveva accolto la domanda della figlia di veder dichiarata la sua paternità, nonostante fossero decorsi oltre 40 anni dal momento in cui la stessa era venuta a conoscenza della vera identità del padre, dichiarando manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.c. proposta dal padre.

Nella specie, il padre lamentava l’incostituzionalità dell’art. 270 c.c. a causa della mancata previsione di un termine prescrizionale per l’esercizio della relativa azione da parte della figlia. Ad avviso del padre, infatti, permettere ad una persona, che conosce da 40 anni la vera identità del padre naturale e che ha vissuto tutta la vita chiamando padre il marito della madre, avrebbe comportato il sacrificio ingiustificato del “…diritto del presunto padre alla stabilità dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo…” imponendogli così “…un accertamento coattivo del rapporto di filiazione che l’interessata avrebbe potuto richiedere decenni prima”.

La Corte, tuttavia, conferma la sentenza impugnata ritenendo prevalente il diritto della figlia alla c.d. “verità biologica” della procreazione, che costituisce una delle componenti più importanti del diritto all’identità personale, diritto inviolabile della persona tutelato tanto dall’art. 2 della Costituzione quanto dall’art. 8 CEDU. Ad avviso della Corte, infatti, conoscere la vera identità dei propri genitori biologici è “una componente essenziale dell’interesse della persona che si traduce nella esigenza di garantire ad essa il diritto alla propria identità e, segnatamente, alla affermazione di un rapporto di filiazione veridico”.  (Corte cost. n. 7/2012, n. 322/2011, n. 216 e 112/1997).

Ad avviso della Corte, inoltre, la decisione di introdurre un termine di prescrizione o di decadenza per la dichiarazione di paternità non potrebbe essere assunta da un Tribunale, spettando unicamente al Legislatore.

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downloadLa Suprema Corte si è recentemente pronunciata sul ricorso promosso da un padre biologico avverso la sentenza con cui la Corte d’appello di Torino aveva accolto la domanda della figlia di veder dichiarata la sua paternità, nonostante fossero decorsi oltre 40 anni dal momento in cui la stessa era venuta a conoscenza della vera identità del padre, dichiarando manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.c. proposta dal padre.

Nella specie, il ricorrente si lamentava della costituzionalità della mancata previsione di un termine prescrizionale nell’art. 270 c.c. con conseguente effetto, qualora la domanda di dichiarazione giudiziale di paternità sia proposta con notevole ritardo, “…di sacrificare il diritto del presunto padre alla stabilità dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo e di imporgli a distanza di molto tempo un accertamento coattivo del rapporto di filiazione che l’interessata avrebbe potuto richiedere decenni prima”.

Ad avviso della Suprema Corte, tuttavia, la questione è da considerarsi manifestamente infondata, in quanto:

  • la verità biologica della procreazione costituisce una componente essenziale dell’interesse della persona che si traduce nella esigenza di garantire ad essa il diritto alla propria identità e, segnatamente, alla affermazione di un rapporto di filiazione veridico” (Corte cost. n. 7/2012, n. 322/2011, n. 216 e 112/1997);
  • A ciò consegue che “…l’incertezza sullo stato filiale può determinare una condizione di disagio ed un vulnus allo sviluppo adeguato ed alla formazione della personalità riferibile ad ogni stadio della vita”;
  • il diritto del figlio ad uno status filiale corrispondente alla verità biologica costituisce una delle componenti più rilevanti del diritto all’identità personale che accompagna senza soluzione di continuità la vita individuale e relazionale non soltanto nella minore età, ma in tutto il suo svolgersi” (sul punto Corte di Cassazione, Sezione 1 civile Sentenza 9 giugno 2015, n. 11887) e “…attiene al nucleo dei diritti inviolabili della persona (articolo 2 Cost. e articolo 8 CEDU) intesi nella dimensione individuale e relazionale”;
  • ad ogni modo, non si potrebbe comunque introdurre giudizialmente un termine prescrizionale o decadenziale per la dichiarazione di paternità poiché esclusivamente il legislatore “…potrebbe stabilire la durata del termine da sostituire all’imprescrittibilità” (v., con riguardo all’articolo 263 c.c., Corte cost. n. 7/2012, n. 134/1985);
  • ciò, anche a prescindere dalle notevoli difficoltà pratiche che presenterebbe ad ogni modo l’individuazione di un razionale dies a quo.

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