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Si allegano due sentenze del Tribunale di Tivoli in merito alla questione dei termini per l’iscrizione a ruolo delle cause di opposizione a decreto ingiuntivo, in seguito alla sentenza delle S.U. della Corte di Cassazione, già pubblicata in questo sito:

Nella prima sentenza n°1400 del 12 ottobre 2010, il Giudice  ritiene di non poter procedere ad una pronuncia di improcedibilità:

perché la questione non è stata minimamente oggetto di contraddittorio fra le parti; e  sono affette da nullità le sentenze di c.d. “terza via”, cioè basate su un rilievo ufficioso che non sia stato previamente sottoposto al contraddittorio delle parti (in tale senso dispone sia l’articolo 101, secondo comma, c.p.c., introdotto dalla legge n. 69/09,  sia consolidata  giurisprudenza in forza dell’articolo 111, comma 2, Costituzione);

perché alla fattispecie sembra potersi applicare la giurisprudenza di cui all’ordinanza della Corte di Cassazione, sez. II, 2.7.2010, n. 15811, che ha ritenuto possibile la rimessione in termini della parte incorsa in un errore incolpevole, che determinerebbe l’inammissibilità od improcedibilità della domanda, quando “si assista, come nella specie, ad un mutamento, ad opera della Corte di cassazione, di un’interpretazione consolidata a proposito delle norme regolatrici del processo”; infatti, in tal caso, “la parte che si è conformata alla precedente giurisprudenza della stessa Corte, successivamente travolta dall’overruling, ha tenuto un comportamento non imputabile a sua colpa e perciò è da escludere la rilevanza preclusiva dell’errore in cui essa è incorsa;”;

perché tali ultime affermazioni della Corte Suprema rispondono al principio del “giusto processo” (come posto in rilievo nell’ordinanza richiamata), esimendo il Tribunale dalla necessità di rimettere la causa sul ruolo istruttorio per sottoporre alle parti la questione dell’improcedibilità dell’opposizione per tardiva costituzione dell’opponente

Nella seconda sentenza n°1416 del 13 ottobre 2010, Il Giudice  concede la remissione in termini ai fini della costituzione, come richiesto degli opponenti ex art. 184 bis c.p.c. (vedi in tal senso Trib. Nola 28.9.2010; Trib. Varese 8.10.2010), in quanto:

–  per costante e protratta interpretazione giurisprudenziale l’onere della costituzione dell’opponente nel termine ridotto di cinque giorni dalla notificazione della citazione in opposizione scattava solo quando la parte opponente avesse effettivamente concesso alla controparte un termine a comparire ridotto, sia per scelta consapevole, sia per errore (vedi Cass. 18942/2006; Cass. 12044/1998; Cass. 3316/1998; Cass. 2460/1995; Cass. 3355/1987; Cass. 12.10.1955), e non in tutti i casi di opposizione a decreto ingiuntivo, nonostante la perentoria locuzione utilizzata nell’art. 645 comma 2° c.p.c. secondo la quale “in seguito all’opposizione il giudizio si svolge secondo le norme del procedimento ordinario davanti al giudice adito; ma i termini di comparizione sono ridotti a metà”, e nel caso di specie gli opponenti avevano notificato la citazione in opposizione il 27.5.2009 per l’udienza di prima comparizione del 3.11.2009, concedendo un termine superiore a quello ordinario di 90 giorni, per cui conformandosi incolpevolmente alla costante interpretazione della Suprema Corte si sono costituiti l’ottavo giorno dalla notifica, rispettando il termine di costituzione ordinario di dieci giorni;

– del resto la rimessione in termini serve solo ad evitare la definitività del decreto ingiuntivo scaturente dalla nuova interpretazione delle sezioni unite della Corte di Cassazione per l’improcedibilità derivante dalla tardiva costituzione dell’opponente, equiparata a mancata costituzione (vedi in tal senso Cass. 9684/1992; Cass. 2707/1990; Cass. 1375/1980), mentre il giudizio di opposizione si era articolato attraverso la normale dialettica delle parti, che fino al rilievo d’ufficio della questione, mai ha riguardato l’argomento della tardiva costituzione degli opponenti.

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Alessandro Piazzi, riminese, è il padre che è ricorso a Strasburgo e che, alla fine di un lungo calvario, ha visto riconoscere, dall’Europa, i propri diritti.

Questi i fatti.

Dopo il divorzio, il figlio del Piazzi è stato affidato alla madre, con facoltà per il padre Piazzi di vedere il bambino ogni quindi giorni.

Per un po’ le cose sono andate correttamente.

Poi per il padre è stato sempre più difficile vedere il figlio.

E’ così cominciato il lungo peregrinare del Piazzi tra avvocati e ricorsi; un vero e proprio viaggio nella sofferenza.

Il sig. Piazzi si è allora rivolto al Tribunale dei minori di Bologna,  che interessa i servizi sociali emiliano-romagnoli con il compito di assicurare le visite del padre.

A quel punto, però, la situazione si è incancrenita: il bambino (forse vittima di una sindrome da alienazione genitoriale) non ha più voluto avere rapporti con il padre.

Da qui la decisione del Piazzi di ricorrere, come extrema ratio, a Strasburgo.

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha dato ragione al padre, condannando l’Italia.

In motivazione la Corte ha riconosciuto la delicatezza della situazione e le difficoltà incontrate dalle autorità nel far rispettare le proprie decisioni. Tuttavia ha constatato che ‘tutte le autorità coinvolte non hanno agito tempestivamente. Inoltre, i giudici europei hanno sottolineato che le autorità hanno adottato misure ‘automatiche e stereotipate senza adattarle al caso specifico, e che di fatto non hanno assicurato all’uomo di poter effettivamente godere del suo diritto a vedere il figlio.

Ad Alessandro Piazzi sono stati anche riconosciuti 15 mila euro di danni morali che, con la condanna, lo stato italiano dovrà pagare.

P.S. La Corte europea dei Diritti dell’Uomo è stata istituita nel 1959 a Strasburgo come meccanismo di tutela dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo del 1950.

L’importanza della Convenzione, entrata in vigore nel 1953, non risiede unicamente nell’entità dei diritti da questa tutelati ma anche nel sistema di controllo introdotto allo scopo di esaminare le presunte violazioni e vigilare sull’osservanza, da parte degli Stati, degli obblighi derivanti dalla Convenzione.

Dalla sua creazione, la Corte ha emesso più di 10 000 sentenze che sono vincolanti per gli Stati condannati e inducono i governi a modificare la propria legislazione o la loro prassi amministrativa in numerosi ambiti. Ogni anno, riceve più di 30 000 nuovi ricorsi.

Negli anni, la Corte è stata chiamata a pronunciarsi su violazioni gravissime dei diritti umani, su questioni riguardanti l’essenza stessa dello stato di diritto, nonché su numerosi argomenti sociali quali l’aborto, il suicidio assistito, le perquisizioni corporali, la schiavitù domestica, il diritto di una persona la cui identità genitoriale risulta ignota di conoscere le proprie origini, l’indossare il velo islamico negli istituti scolastici, la tutela delle fonti giornalistiche e la discriminazione nei confronti delle minoranze.

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Si intende per mediazione l’attività professionale svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa.

In Italia l’istituto della mediazione è stato introdotto nel nostro ordinamento dal D. Lgs. 4 marzo 2010 n. 28 (in attuazione dell’art. 60 della legge delega 18 giugno 2009 n. 60), tenuto conto delle linee-guida comunitarie contenute nella Direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 maggio 2008. Il Ministero della Giustizia, con decreto 4 novembre 2010 n°180, ha definito più specificamente l’intera disciplina.

La mediazione è obbligatoria dal 20 marzo 2011 (art. 5) per le seguenti materie: diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari.

E’ stato prorogato fino al 20 marzo 2012 l’entrata in vigore dell’obbligo di utilizzare il procedimento di mediazione (in quanto condizione di procedibilità del giudizio) nelle controversie in materia di condominio e di risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti.

L’organismo di mediazione è scelto dalla parte istante o determinato nel contratto. Non esistono criteri di competenza territoriale. In ipotesi di conflitto tra più istanze, è competente l’organismo al quale è stata presentata la prima (art. 4.1). La scelta dell’organismo comporta l’accettazione del regolamento, delle indennità e della nomina del mediatore, tra quelli ad esso iscritti, che sarà fatta dal responsabile dell’organismo.

La procedura di mediazione inizia attraverso il deposito di un’istanza presso un Organismo di mediazione prescelto (artt. 4.1 e 4.2). L’istanza deve contenere: l’indicazione dell’organismo, l’indicazione delle parti, dell’oggetto della pretesa e delle relative ragioni. Il responsabile dell’organismo designa un mediatore e entro 15 giorni dal deposito della domanda ha luogo il primo incontro fra le parti (art. 8.1).  La controparte ha la facoltà di rimanere assente (tuttavia, dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione il Giudice può desumere argomenti di prova nell’instaurando giudizio, ex art. 116, 2° comma, c.p.c.). L’iter di mediazione ha la durata massima di quattro mesi.

Il procedimento è caratterizzato da assenza di formalità.
Se le parti raggiungono un accordo, quest’ultimo viene omologato dal Giudice ed assume così efficacia esecutiva: il verbale costituisce titolo esecutivo per avviare l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica, per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale.

A carico del mediatore pende un obbligo di riservatezza assoluto (il cd. segreto professionale): – nessuna delle informazioni acquisite nel corso del tentativo di mediazione, quindi, potrà essere utilizzata nel corso dell’eventuale successivo procedimento giurisdizionale; – il mediatore e chiunque opera all’interno dell’organismo di mediazione non può essere chiamato a testimoniare (art. 9). Le dichiarazioni rese o le informazioni acquisite nel corso del procedimento non possono essere utilizzate nel giudizio avente il medesimo oggetto, anche parziale (art. 10.1).

Se è raggiunto un accordo, il mediatore forma processo verbale al quale è allegato il testo dell’accordo medesimo. Il verbale di accordo può divenire titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale (art. 12).
Il verbale di accordo è esente dall’imposta di registro sino alla concorrenza del valore di € 50.000,00 e l’imposta è dovuta solo sulla parte eccedente.
Alle parti che provvedono al pagamento delle spese è riconosciuto un credito d’imposta fino a concorrenza di € 500,00. In caso contrario, il credito d’imposta è al massimo € 250,00.

In caso di mancato raggiungimento di un accordo, il mediatore può comunque avanzare una proposta di conciliazione.
Se la proposta viene accettata ci si trova nella situazione precedente. Se la situazione non viene accettata e viene dato avvio al procedimento giurisdizionale, le spese legali saranno a carico della parte che ha rifiutato ingiustificatamente la proposta conciliativa nel caso in cui la sentenza corrisponderà alla proposta disattesa.
Alla parte che ha rifiutato la proposta del mediatore, anche se vittoriosa, Il giudice potrà addebitare alcune conseguenze economiche del processo (art. 13).

Quanto alle spese del procedimento di mediazione: – se si tratta di un organismo pubblico, le indennità dovute al mediatore sono stabilite dal decreto del Ministro della giustizia; – se invece si tratta di un organismo di mediazione privato, gli importi sono stabiliti sulla base di tariffe previamente approvate dal Ministero della giustizia.

I soggetti aventi titolo ad ottenere, in sede giurisdizionale, il gratuito patrocinio non saranno tenuti a versare alcun compenso per il procedimento di mediazione.

Allo stato sono previste tre distinte tipologie di mediazione: – mediazione obbligatoria: il previo esperimento del tentativo di mediazione è condizione di procedibilità della successiva domanda in sede giurisdizionale; – mediazione volontaria: è quella liberamente scelta dalle parti; – mediazione “delegata”: si verifica quando il Giudice, in corso di causa, sollecita queste ultime ad avvalersi dello strumento conciliativo (il termine ultimo per tale invito è l’udienza di precisazione delle conclusioni; oppure, ove questa non sia prevista dal rito, prima della discussione della causa).

In caso di mancato esperimento del previo obbligatorio tentativo di mediazione, la relativa eccezione deve essere sollevata dal convenuto a pena di decadenza, entro la prima udienza, o rilevato d’ufficio dal Giudice. In caso di mancata contestazione, il procedimento prosegue normalmente.

Il tentativo obbligatorio di conciliazione e su invito del giudice non si applicano all’azione civile nel processo penale (art. 5.4) e ai procedimenti: per ingiunzione (fino alla pronuncia delle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione); per convalida di licenza o sfratto (fino al mutamento del rito ex art 667 c.p.c.); possessori (fino alla pronuncia dei provvedimenti ex art. 703 c. 3 c.p.c.); di opposizione o incidentali di cognizione nell’esecuzione forzata; per i procedimenti in camera di consiglio.

Della mancata partecipazione senza giustificato motivo alla mediazione il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del c.p.c. (art. 8.5).

A decorrere dalla data di comunicazione alle parti, l’istanza di mediazione produce gli stessi
effetti della domanda giudiziale e, per una sola volta, impedisce la decadenza (art. 5.6).

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L’art. 156 c.c. prevede al comma primo che con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale può disporre (a determinate condizioni indicate nella norma) l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente all’altro un assegno, quando quest’ultimo non ha redditi adeguati.

A tal proposito la giurisprudenza di legittimità ha precisato:

– che detta disciplina costituisce una deroga al principio generale dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c.. (Cass. 21 marzo 1992, n. 3529 e 3 luglio 1996, n. 6087);

– che le istanze delle parti relative al riconoscimento e alla determinazione dell’assegno divorzile o del contributo di mantenimento non possono essere respinte sotto il profilo della mancata dimostrazione, da parte dell’istante, degli assunti sui quali le richieste sono basate.

– che, tuttavia non viene meno il principio della disponibilità della prova in capo alle parti, giacché l’espletamento di indagini da parte della Finanza è previsto, quale che sia la documentazione dalla quale emerga il reddito, solo in caso di contestazione e per tale debba intendersi non la mera negazione, ma la contestazione stessa allorché rivesta sufficiente ragionevolezza (Cass. 23 gennaio 1996, n. 496).

La prova del reddito può essere data, oltre che con la documentazione prevista dalla norma stessa, con qualsiasi mezzo, compresi la presunzione, il ricorso alle nozioni di comune esperienza, nonché, secondo la recente modifica dell’art. 115 c.p.c., anche i fatti non espressamente contestati dalla parte costituita.

Il Giudice non è vincolato a disporre prove d’ufficio, ogni volta che sia contestato un reddito, essendo principio generale per cui l’autorità giudiziaria ha facoltà di ammettere i mezzi di prova dedotti dalle parti e di ordinare gli altri che può disporre d’ufficio, previa valutazione della loro rilevanza e concludenza.

Per tali motivi la giurisprudenza ha concluso che le dichiarazioni dei redditi dell’obbligato, in quanto svolgono una funzione tipicamente fiscale, non rivestono, in una controversia concernente l’attribuzione o la quantificazione dell’assegno di mantenimento, relativa a rapporti estranei al sistema tributario, valore vincolante per il giudice, il quale, nella sua valutazione discrezionale, ben può disattenderle, fondando il suo convincimento su altre risultanze probatorie.

Inoltre, con riferimento ai poteri istruttori d’ufficio, l’esercizio dei medesimi rientra nella discrezionalità del giudice del merito e non può essere considerato come un dovere imposto sulla base della semplice contestazione delle parti in ordine alle loro rispettive condizioni economiche.

Quanto, invece, alla prova presuntiva le circostanze sulle quali la presunzione si fonda devono essere tali da lasciare apparire l’esistenza del fatto ignoto come una conseguenza ragionevolmente probabile del fatto noto, dovendosi ravvisare una connessione tra i fatti accertati e quelli ignoti secondo regole di esperienza che convincano di ciò, sia pure con qualche margine di opinabilità. La suprema Corte ha mantenuto sempre un atteggiamento ad essa favorevole, sulla base dell’assunto generale per cui il relativo accertamento per presunzioni non è censurabile in cassazione. Non spetta, infatti, ai giudici di legittimità valutare l’opportunità di fondare la decisione su tale mezzo di prova, nonché la ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare gli elementi di fatto come fonti di presunzione, purché -e questo limite è, invece, sindacabile nel giudizio di legittimità- l’accertamento del giudice di merito sia sorretto da motivazione immune da vizi logici (v. Cass. Civ. 14 maggio 2005, n. 10135).

Nel caso della sentenza in esame, Cass. Sez. 1 16 luglio 2010, n. 16763, i giudici della prima sezione hanno ritenuto immune da vizi logici e giuridici la valutazione di merito dei giudici di appello in ordine alla capacità patrimoniale e reddituale rilevante del marito, commerciante di preziosi, certamente superiore a quella della moglie, insegnante elementare con reddito di circa euro 20.000,00 all’anno, ed idonea quindi a consentirgli l’esborso mensile deciso in sede di merito

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La Corte di Cassazione, pronunciandosi per la prima volta sulla questione, ha dichiarato ammissibile il ricorso ex art. 111 Cost. avverso il provvedimento di rigetto della domanda di rientro nella residenza abituale del minore, illecitamente trasferito in altro Stato, emesso dal Tribunale dei Minorenni, ai sensi dell’art. 11 paragrafi 6,7,8, del Reg. CE n. 2201 del 2003, in sede di riesame del precedente diniego dell’autorità giudiziaria dello Stato membro ospitante il minore sottratto, ritenendo applicabile per analogia il procedimento previsto nell’art. 7 della l. n. 64 del 1994 (di ratifica della Convenzione dell’Aja in materia di sottrazione internazionale del minore) che, nell’ipotesi di domanda formulata per il tramite dell’Autorità centrale, prevede espressamente, al comma quarto, la proponibilità del ricorso per cassazione.

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La Corte, Sezione Lavoro, con sentenza 18 giugno 2010 n°14783 riconosce il diritto agli assegni familiari in relazione ai figli di una coppia di fatto, sebbene il padre fosse ancora legato in matrimonio con altra persona (dalla quale non era peraltro legalmente separato), affermando che la normativa sull’assegno richiede la condizione di figlio naturale riconosciuto e non anche necessariamente l’inserimento nella famiglia legittima.
Secondo detta sentenza:
–   la condizione di figlio naturale riconosciuto si ricollega al riconoscimento, quale atto formale operato dal genitore, possibile anche da parte di persona unita in matrimonio ad altra persona all’epoca del concepimento, ai sensi dell art. 250 c.c.;
–   per altro verso, nella disciplina degli assegni familiari, il concetto di nucleo familiare delineato dal legislatore va al di là della famiglia configurata dal matrimonio e ricomprende anche i figli nati fuori dal matrimonio, legalmente riconosciuti, anche se non inseriti nella famiglia legittima.
In giurisprudenza, Cass. Sez. lav. 7 aprile 2000 n.4419 ha recentemente affermato che, nel regime posto dal D.L. 13 marzo 1988, n.69 la convivenza non è richiesta quale presupposto perché sorga il diritto a percepire l’assegno per il nucleo familiare (composto dai coniugi e dai figli, compresi quelli naturali legalmente riconosciuti), ma rappresenta soltanto un elemento di fatto idoneo a comprovare presuntivamente il requisito della vivenza a carico, essendo sufficiente per l’insorgenza del diritto al beneficio, sensibilmente diverso da quello agli assegni familiari, che il genitore, cui spetta l’assegno, provveda abitualmente al mantenimento dei figli. Nè è di ostacolo l’astratta configurabilità di due nuclei familiari in caso di genitori del figlio naturale non riconosciuto, i quali, non legati tra loro da coniugio, non facciano parte dello stesso nucleo familiare, atteso che comunque opera la prescrizione posta dall’art. 2 comma 8-bis DL 69/88 secondo cui, per i componenti del nucleo familiare al quale la prestazione è corrisposta, l’assegno stesso non è compatibile con altro assegno o diverso trattamento di famiglia a chiunque spettante.

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«Posto che la convivenza della bambina con la madre rappresenta un insuperabile impedimento al riavvicinamento dell’altra figura genitoriale, stante il comportamento di diretta o indiretta suggestione e di indottrinamento della piccola che ha fatto nascere in lei un pregiudizio negativo circa la figura paterna, si ritiene necessario disporre l’affidamento esclusivo della bambina al padre al fine di ricostruire un normale rapporto padre-figlia».

Questa la motivazione posta a base del provvedimento del Tribunale di Matera in considerazione del fatto:

– che il dovere primario di ogni genitore è quello di aiutare la personalità del bambino a maturare e ad emergere, intervenendo, pur nel rispetto dei suoi bisogni, affinchè vengano plasmati i profili comportamentali abnormi e contrari al suo stesso interesse;

– che il rifiuto della bambina nei confronti del padre è stato rafforzato e incoraggiato dall’atteggiamento della madre che, anziché aiutare la figlia ad elaborare ed accettare la figura paterna, ha favorito il maturare in lei di istanze oppositive e immotivatamente ostili.

Ma è giudizio imporre la coartazione delle relazioni umane, anche se tra padre e figlia?

Può ritenersi rispettoso dei bisogni di un minore essere sradicato dalle braccia della madre per ritrovarsi, di punto in bianco, affidato coattivamente ad un papà che si conosce poco, con il quale il bambino non ha potuto costruire una relazione e verso il quale mostra dichiarato disagio se non addirittura rifiuto?

E’ veramente difficile rispondere, perché per quanto immotivati e indotti possano risultare i sentimenti repulsivi che il bambino esprime verso un genitore, non vi è dubbio che sono pur sempre espressione del suo essere in quel momento e il problema non può certamente risolversi “imponendogli” lo stravolgimento del suo assetto di vita e delle sue abitudini.

Il problema che si pone è quello di saper leggere e interpretare autenticamente la volontà del bambino di fronte a manifestazioni di disagio o addirittura di rifiuto verso un genitore.

Tuttavia è estremamente distinguere il rifiuto motivato e spontaneo del bambino da quello indotto dal genitore che maggiore influenza esercita su di lui? Come riconoscere un vero e motivato rigetto da una PAS (sindrome da alienazione parentale)?

Nota bene:

– i Giudici di Matera (sentenza 11 febbraio 2010) t prima di giungere al provvedimento estremo sopra citato avevano già disposto l’affidamento della bambina al Servizio Sociale del Comune di Matera, affinchè questo monitorasse e gestisse il rapporto padre-figlia, adottando le misure più idonee a favorire l’evoluzione del rapporto e degli incontri fra il genitore e la bambina, con ordine di relazionare al Tribunale semestralmente;

– la misura dell’affidamento al Servizio sociale non aveva però portato alcun miglioramento nella relazione, atteso che la bambina continuava a mostrare un atteggiamento oppositivo e di rifiuto verso il padre e d’altro canto, la mamma risultava essere poco collaborativa ed anzi piuttosto ostile nei confronti dell’altro genitore;

– risulta infatti dagli atti processuali che la madre avrebbe mosso verso il padre l’accusa di essere un soggetto pericoloso per la figlia e inadeguato al ruolo genitoriale, svalutandone qualsiasi competenza e capacità di relazionarsi con la figlia, senza tuttavia riuscire a provare, in corso di causa, con riscontri oggettivi, molti dei comportamenti negativi attribuiti all’ex partner.

Recita l’art. 9, comma 3, della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata in Italia con l. 27 maggio 1991, n. 176, “Gli Stati parti rispettano il diritto del fanciullo separato da entrambi i genitori o da uno di essi, di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i suoi genitori, a meno che ciò non sia contrario all’interesse preminente del fanciullo”.

La norma è stata trasposta nella legge 8 febbraio 2006, n. 54, segnatamente con lo statuire il diritto del figlio minore a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascun genitore, in parole semplici, a non essere privato del genitore non affidatario. Il figlio deve crescere unitamente ai due genitori e il principio è ampliato ai casi di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, nullità del matrimonio canonico, ancora, al caso di mancata/cessata convivenza dei genitori non coniugati.

Sancisce l’art. 155 c.c., novellato dall’art. 1, l. 8 febbraio 2006, n. 54, che, in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, ricevere cura, educazione, istruzione da entrambi, conservare rapporti significativi con gli ascendenti ed i parenti di ciascun ramo genitoriale.
Infatti soltanto il rispetto di una totale par condicio nei confronti del figlio può salvaguardare il diritto del minore a vedere rispettato il migliore rapporto possibile con ciascuno di essi e con i parenti di entrambi i rami.

Per realizzare tale finalità, il giudice adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa, valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati ad entrambi i genitori … Certamente questa normativa tende ad attuare l’ottimale realizzazione dell’interesse dei figli con l’affidamento condiviso ad entrambi i genitori. Se però fosse pregiudizievole, si potrà disporre l’affidamento monogenitoriale od a soggetti diversi dai genitori (ad esempio, in giurisprudenza si è rilevato come il giudice potrebbe anche decidere di affidare al Comune i figli di genitori separati, qualora, nel corso del giudizio di separazione, questi manifestino un alto tasso di litigiosità, che interferisca negativamente sullo sviluppo del minore). E, nel giudizio va motivata compiutamente la scelta non condivisa, esprimente l’eccezione.

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Ai fini della determinazione della quota di eredità riservata al legittimario, il valore dei beni residui e di quelli donati in vita dal “de cuius” va calcolato al momento dell’apertura della successione; l’inizio di un procedimento di trasformazione urbanistica (qualificazione attribuita dal piano regolatore generale addottato dal Comune) è di per sé sufficiente ad incidere sul valore di mercato di un immobile, risultando irrilevanti le vicende successive quali la mancata approvazione o la modificazione dello strumento stesso da parte del Comune.

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Si legge nel terzo comma dell’art.155 c.c., applicabile nel caso di affido condiviso “la potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione e alla salute sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente

Testualmente la norma sembra imporre la decisione congiunta solo per le “decisioni di maggiore interesse”; ma, contestualmente, prevede la possibilità dell’esercizio separato della potestà, unicamente per le “questioni di ordinaria amministrazione”; e quindi di esclusivo carattere patrimoniale.
Cioè a dire: – i genitori devono trovare un “previo accordo” non solo sulle decisioni, in senso stretto, “di maggior interesse“, ma su quasi tutto; salvo che sulla “ordinaria amministrazione” (allorché il giudice abbia stabilito l’esercizio separato della potestà).

Ergo al di fuori della ipotesi testualmente prevista per le “questioni di ordinaria amministrazione” non c’è spazio per un esercizio della potestà ad entrambi i genitori che non sia anche assolto di comune accordo, almeno implicitamente
Solo, in fatti, nel caso in cui i genitori trovino comuni linee educative e riescano a superino eventuali conflitti nell’interesse dei figli l’esercizio della potestà ad entrambi potrà dirsi davvero rispondente all’interesse della prole.

Per decisioni di maggiore interesse, è stata indicata dalla giurisprudenza, ad esempio: – la scelta della scuola da fare frequentare al figlio (Trib. Bologna 13 giugno 2007 e Trib. Napoli 27 febbraio 2007); – la scelta della residenza del figlio, potendo essendo la rilevante distanza  tra le residenze dei genitori un concreto ostacolo all’affidamento condiviso (Trib. Pisa 20 dicembre 2006; Trib. Minorenni Emilia Romagna 6 febbraio 2007; Corte di Appello Bologna 29 dicembre 2006; Trib. Rimini 21 ottobre 2006).
A chi dovesse ritenere, poi, che sovente non è semplice trovare l’accordo, non si può che ribattere che è vero e che, allo stato, l’unica soluzione è quella di rivolgersi al Giudice, eventualmente proponendo un ricorso ex art. 709 ter c.p.c.

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[:it]Quanto al regime dell’assegnazione di beni in locazione o in comodato

 

Nell’ipotesi in cui la casa familiare sia stata concessa in locazione, il genitore affidatario o collocatario subentra nel rapporto locativo, ex lege, e sarà quindi obbligato a corrispondere il canone in via esclusiva, anche quando il contratto originario sia stato sottoscritto da entrambi i coniugi (cfr. Cass. 30 aprile 2009, n. 10104). Ovviamente il Giudice dovrà tener conto del predetto a carico del genitore assegnatario.

 

Qualora, invece, la casa familiare sia stata concessa in comodato da un terzo, l’assegnazione non comporta di per sé un aggravio economico, a causa della normale gratuità di tale tipo di contratto e di esso dovrà tenersi conto ai fini della quantificazione del mantenimento. Il contratto di comodato continuerà in tal caso con il genitore assegnatario senza che muti né la natura né il contenuto del titolo di godimento del bene.

 

Ove il comodato di un bene immobile sia stato stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare già formato o in via di formazione, si versa nell’ipotesi del comodato a tempo indeterminato, caratterizzato dalla non prevedibilità del momento in cui la destinazione del bene verrà a cessare. Infatti, in tal caso, per effetto della concorde volontà delle parti, si è impresso allo stesso un vincolo di destinazione alle esigenze abitative familiari (e perciò non solo e non tanto a titolo personale del comodatario) idoneo a conferire all’uso — cui la cosa deve essere destinata — il carattere implicito della durata del rapporto, anche oltre la crisi coniugale e senza possibilità di far dipendere la cessazione del vincolo esclusivamente dalla volontà, ad nutum, del comodante.

In tal caso, qualora la stipulazione del comodato sia stata espressamente finalizzata alla soddisfazione delle esigenze abitative della famiglia, il comodante non può opporsi alla continuazione del godimento in favore dell’assegnatario, salvo che non si verifichi la condizione di cui all’art. 1809 comma 2 c.c., cioè a dire  la sopravvenienza di un urgente ed imprevisto bisogno del comodante (vedi sul punto Cass. 11 febbraio 2007, n. 3179; Cass. 6 giugno 2006, n. 13260, Cass., sez. un., 21 luglio 2004, n. 13603).

Invece, secondo Cass. 7 luglio 2010 n. 15986, trova applicazione in tal caso la disciplina del comodato senza determinazione di durata o precario, con l’effetto che il proprietario potrà riavere l’immobile anche se la casa sia stata assegnata al coniuge affidatario o collocatario, a semplice richiesta della restituzione, ai sensi dell’art. 1810 c.c., non già dell’art. 1809 comma 2 c.c.[:]

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