[:it](Cass. Civ. ordinanza n° 26383 del 19 novembre 2020)

Di regola, la separazione con colpa (il cosiddetto “addebito”) non implica anche il risarcimento del danno. Le conseguenze patrimoniali per chi viola i doveri del matrimonio sono generalmente costituite dalla perdita di due diritti: quello all’assegno di mantenimento e quello a succedere all’ex coniuge in caso del suo decesso.

Più volte, è stato chiesto alla giurisprudenza se il tradimento possa comportare anche il risarcimento danni. E ciò per via dell’indubbio impatto psicologico ed emotivo che la scoperta di un adulterio può avere sul coniuge tradito.

La questione è stata riproposta proprio di recente alla Corte di Cassazione che, con l’ordinanza in oggetto, ha ribadito la linea interpretativa “tradizionale”, secondo la quale il tradimento non è di per sé risarcibile, salvo che non vi sia la prova concreta che abbia determinato una lesione a uno dei diritti costituzionali della persona.

Tra questi diritti viene sicuramente in mente l’onore – si pensi a una relazione extraconiugale consumata dinanzi agli occhi di tutti, in società – ma anche la salute.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, tuttavia, la richiesta di risarcimento per lesione del diritto alla salute, non può essere fondata sul semplice turbamento per il fallimento del matrimonio. Occorrere invece comprovare una condizione di afflizione che si traduca in uno sconvolgimento fisico-psicologico che superi, per gravità, le normali soglie di tollerabilità.

Quindi, non è la semplice infedeltà a determinare il diritto a ottenere il pagamento dei danni morali sofferti, ma quel “qualcosa in più” che, come detto, è costituito da una sofferenza insopportabile, la lesione di un diritto fondamentale della persona che trova nella costituzione la sua proclamazione.

In questo senso – aggiunge la Corte – è addirittura possibile ottenere il risarcimento dei danni morali anche senza una pronuncia di addebito. Si pensi al caso di chi tradisce il coniuge, con modalità umilianti, quando ormai il matrimonio è naufragato per altre ragioni. In un caso del genere, infatti, non è l’infedeltà la causa della separazione e ciò implica l’assenza di addebito; ma non bisogna neanche sottostimare le modalità con cui è avvenuto l’adulterio che, avendo leso la dignità della vittima, consentirà di ottenere il risarcimento dei danni.

Dalla sintesi di questi principi esce fuori la massima che la Cassazione, nella sentenza in commento, ha così sintetizzato: «la natura giuridica del dovere di fedeltà derivante dal matrimonio implica che la sua violazione non sia sanzionata unicamente con le misure tipiche del diritto di famiglia, quale l’addebito della separazione, ma possa dar luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali, senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia a ciò preclusiva». A patto, però, che «la condizione di afflizione indotta nel coniuge superi la soglia della tollerabilità e si traduca, per le sue modalità o per la gravità dello sconvolgimento che provoca, nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto, quale, in ipotesi, quello alla salute o all’onore o alla dignità personale».

Avv. Claudia Romano

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[:it](Corte di Cassazione ordinanza n. 25656/20, depositata il 13 novembre)

La pensione di reversibilità è una prestazione previdenziale erogata ai familiari di un pensionato, in seguito a loro richiesta, dal momento della morte di quest’ultimo.

Tra i soggetti che hanno diritto alla corresponsione di tale pensione la legge annovera anche l’ex coniuge a condizione però a) che il coniuge divorziato non sia passato a nuove nozze; b) che il medesimo sia titolare dell’assegno divorzile; c) che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza (cfr. art. 9 comma 2 legge 898/70).

Ma cosa accade se l’ex coniuge deceduto si era risposato dopo il divorzio?

La ripartizione del trattamento di reversibilità, in caso di concorso fra coniuge divorziato e coniuge superstite aventi entrambi i requisiti per la relativa pensione, deve essere effettuata, oltre che sulla base del criterio della durata del rapporto matrimoniale, anche tenendo in considerazione ulteriori elementi, da utilizzare eventualmente quali correttivi del criterio temporale; fra tali elementi, specifico rilievo assumono l’ammontare dell’assegno goduto dal coniuge divorziato prima del decesso dell’ex coniuge, nonché le condizioni dei soggetti coinvolti nella vicenda, e in quest’ottica anche l’esistenza di un periodo di convivenza prematrimoniale del secondo coniuge potrà essere considerata dal Giudice del merito quale elemento da apprezzare per una più compiuta valutazione delle situazioni

La vicenda esaminata trae origine dal giudizio insorto tra la moglie divorziata e la seconda moglie di un soggetto che era deceduto avente ad oggetto la determinazione della quota di reversibilità a loro spettante.

All’esito del giudizio di primo grado, il Tribunale di Sulmona aveva riconosciuto al coniuge divorziato la quota del 35% della pensione di reversibilità, mentre la Corte di Appello de L’Aquila, in riforma della sentenza impugnata, rideterminava la quota aumentandola dal 35% al 40%, riconoscendo, quindi, alla seconda moglie e al figlio minore del defunto la quota del 60%.

Avverso la sentenza della Corte di Appello il coniuge divorziato proponeva ricorso per Cassazione deducendo la violazione degli artt. 5 e 9, comma 3, legge. n. 898/1070.

La sentenza impugnata è stata ritenuta corretta dalla Corte di Cassazione, la quale ha chiarito che la convivenza more-uxorio non ha «una semplice valenza “correttiva” dei risultati derivanti dall’applicazione del criterio della durata del rapporto matrimoniale, bensì un distinto ed autonomo rilievo giuridico, ove il coniuge interessato provi stabilità ed effettività della comunione di vita prematrimoniale». È stato comunque precisato che la durata della convivenza non deve essere confusa con quella del matrimonio, a cui si riferisce il criterio legale.

Da ultimo gli Ermellini hanno anche sottolineato che l’entità dell’assegno divorzile non deve essere considerata un limite legale alla quota di pensione attribuibile all’ex coniuge, non essendovi alcuna indicazione legislativa in tal senso.

Avv. Claudia Romano

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La Consulta ha recentemente esaminato le questioni di legittimità sollevate dal Tribunale di Venezia riguardanti la legge sulle unioni civili e il decreto sugli atti dello stato civile.

Nel caso concreto, una donna unita civilmente ad un’altra aveva concepito all’estero, mediante tecniche di fecondazione eterologa, un figlio poi nato in Italia. Secondo il Tribunale, la disciplina vigente, nell’escludere la registrazione nell’atto di nascita del bambino come figlio di entrambe le donne, violerebbe i dritti della cosiddetta madre intenzionale e quelli del minore, e determinerebbe una irragionevole discriminazione per motivi di orientamento sessuale.

In attesa del deposito della sentenza, con l’allegato comunicato stampa, la Corte Costituzionale ha reso noto che le questioni sollevate dal Tribunale di Venezia sono state dichiarate inammissibili.

Secondo la Corte, il riconoscimento dello status di genitore alla cosiddetta madre intenzionale – all’interno di un rapporto tra due donne unite civilmente – non risponde a un precetto costituzionale ma comporta una scelta di così alta discrezionalità da essere per ciò stesso riservata al legislatore, quale interprete del sentire della collettività nazionale. Al legislatore spetta – su temi così eticamente sensibili – ponderare gli interessi e i valori in gioco, tenendo conto degli orientamenti maggiormente diffusi nel tessuto sociale in un determinato momento storico.

La Corte ha ritenuto altresì che la protezione del miglior interesse del minore in simili situazioni – oggi affidata dalla giurisprudenza all’attuale disciplina sull’adozione in casi particolari – può essere assicurata attraverso varie soluzioni, tutte compatibili con la Costituzione, che spetta sempre al legislatore individuare.

Avv. Claudia Romano[:]

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(Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza n. 21140/20)

L’assegno divorzile è una delle principali conseguenze del divorzio relative al patrimonio, perché attraverso il divorzio il giudice stabilisce l’eventuale diritto di uno dei coniugi di percepirlo.

Esso trova il proprio fondamento giuridico nell’art.5 legge n. 898/70, che prevede il riconoscimento dell’assegno in favore del coniuge divorziato solo “quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.

E’ indubbia, alla luce di tale disposizione, la funzione assistenziale dell’assegno, in quanto il presupposto fondamentale per la sua attribuzione è da ricercarsi nell’esigenza di porre rimedio, in base ad un principio solidaristico, ad uno stato di disagio economico in cui venga a trovarsi il coniuge più debole, valutando la situazione dello stesso in concreto, ossia tenendo conto delle qualità personali e sociali delle parti e rapportando le stesse al tenore di vita goduto durante il matrimonio.

Come noto, la giurisprudenza di legittimità ha svolto un’importante opera di interpretazione della norma sopra citata, cristallizzatasi da ultimo con la nota pronunzia 11 luglio 2018, n. 18287 delle Sezioni Unite, che ha stabilito che l’assegno di divorzio, oltre alla citata funzione assistenziale (per assenza incolpevole di mezzi di sostentamento), ha anche una funzione compensativa e perequativa per il sacrificio di forze che hanno consentito all’altro coniuge di accumulare un patrimonio personale e di impiegare il proprio tempo nel lavoro.

L’ordinanza in commento, depositata lo scorso 2 ottobre, si staglia sulla scia di queste ultime pronunce giurisprudenziali, stigmatizzando appunto «l’orientamento consolidato che il giudice debba valutare la concreta possibilità del coniuge che chieda il mantenimento di procurarsi il reddito adeguato al proprio sostentamento».

Sulla base di tali considerazioni, gli Ermellini hanno respinto la richiesta di un uomo che pretendeva di revocare il contributo, pari ad € 200,00, erogato ogni mese all’ex coniuge, vittima di una forte sindrome depressiva, sull’assunto che «non risulta provato che lo stato ansioso della donna sia invalidante».

I Supremi Giudici, invece, hanno ritenuto che la donna avesse sufficientemente comprovato, in fase di reclamo, che la sua crisi depressiva condizionasse in modo pesante la ricerca di un lavoro ed incidesse negativamente sulla concreta possibilità che essa si procurasse un reddito adeguato al suo sostentamento.

Avv. Claudia Romano

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[:it]Woman in blue denim jacket wearing eyeglasses

(Cass. Civ., ordinanza n. 21752/2020)

Quello del mantenimento dei figli maggiorenni è un tema di pregnante attualità che ha notevoli implicazioni sul piano pratico e che continua a tenere impegnate le Corti, chiamate a stabilire, caso per caso, i limiti e le condizioni di un obbligo che trova fondamento in un preciso quadro normativo.

Il dovere al mantenimento dei figli maggiorenni è sancito, in primis, dall’art. 30 della Costituzione e dagli art. 147 e ss. c.c. che impongono ad ambedue i genitori l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle inclinazioni e delle aspirazioni dei figli, in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo, non prevedendo alcuna cessazione ipso facto per via del raggiungimento della maggiore età. L’obbligo è stato rafforzato dalla novella della legge n. 54/2006 che all’art. 155-quinquies ha stabilito che «il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico».

Non si tratta, tuttavia, di un obbligo protratto all’infinito.

Il genitore è infatti tenuto a provvedere al mantenimento del figlio maggiorenne sino a che questi non raggiunga l’indipendenza economica (ovvero in presenza di un impiego che gli consenta un reddito corrispondente alla sua professionalità e un’appropriata collocazione nel contesto economico-sociale di riferimento, adeguata alle sue attitudini ed aspirazioni), salvo che riesca a comprovare che il mancato svolgimento di un’attività economica dipende da un comportamento inerte o di rifiuto ingiustificato del figlio (cfr. Cass. n. 19589/2011).

Lo ha chiarito da ultimo la Corte di Cassazione, sesta sezione civile, nell’ordinanza n. 21752/2020 (qui sotto allegata) respingendo il ricorso di un padre che, a seguito della separazione con la ex moglie, era stato onerato del pagamento di un contributo di mantenimento nei confronti dei figli, di cui uno minorenne e uno maggiore e non autosufficiente.

La valutazione relativa all’esistenza di una «colpevole inerzia del figlio», precisa il provvedimento, deve essere fondata su un accertamento di fatto che tenga conto dell’età, dell’effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale e tecnica, dell’impegno rivolto verso la ricerca di un’occupazione lavorativa, nonché, in particolare, della complessiva condotta personale tenuta da parte dell’avente diritto a partire dal raggiungimento della maggiore età (cfr. Cass. n. 5088/2018).

La mancata prova di tale inerzia, nel caso di specie, ha infatti determinato l’inammissibilità del motivo di ricorso per manifesta infondatezza.

Avv. Claudia Romano[:]

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(Cass. civ., Sez. Unite, 28 settembre 2020, n. 20443)

Esistono vari rimedi a disposizione del coniuge o dell’ex partner (nel caso di coppia di fatto) qualora l’altro non versi l’assegno per i figli stabilito dal giudice.

Un valido strumento di pressione per il genitore inadempiente, specie nel caso in cui questi, per motivi di lavoro o di piacere, sia solito recarsi all’estero. Infatti, la libertà “di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi” sancita dalla nostra Costituzione può trovare, in taluni casi, dei limiti, come quando ci si sottragga al proprio obbligo di assistenza economica nei confronti della prole.

Pertanto, qualora un genitore non adempia agli obblighi alimentari nei confronti della prole e scaturenti da una pronuncia del giudice, l’altro potrà decidere:

  • di non dare il proprio consenso al rilascio del passaporto; oppure (se l’abbia già fatto)
  • di revocare il consenso già prestato tramite una semplice dichiarazione in Questura.

Nel caso di specie, gli Ermellini hanno affermato che il ritiro del passaporto e l’annotazione “non valida per l’espatrio” sulla carta d’identità del genitore obbligato al mantenimento di figli minori sono provvedimenti vincolati per l’amministrazione. Il provvedimento amministrativo della Questura, dunque, «si limita a fotografare una situazione di fatto: quella del ritiro dell’assenso».

In questi casi, il genitore che si veda negare o revocare il consenso al passaporto sarà costretto a rivolgersi al giudice tutelare, il quale convocherà davanti a sé entrambi i genitori per valutare, sulla base delle loro dichiarazioni, se dare o meno la propria autorizzazione all’espatrio.

Avv. Claudia Romano

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(Cass. civ. Sez. VI – 2, Ord., 01-09-2020, n. 18156)

Il caso di specie riguarda una lite fra ex coniugi sulla proprietà comune di strumenti finanziari acquistati in costanza del regime di comunione legale e alienati dal solo marito, prima della separazione personale, sul presupposto della natura personale di tali strumenti (in quanto il loro acquisto era stato operato con capitali propri depositati all’estero e rimpatriati grazie al cosiddetto scudo fiscale).

In primo grado,  il Tribunale aveva accolto la domanda di condanna del marito al pagamento diretto della metà del valore dei titoli, avanzata dalla moglie in sede di precisazione delle conclusioni, essendo nel frattempo cessato il regime legale (tale cessazione si è verificato in corso di causa per effetto della modifica dell’art. 191 c.c., ai sensi del quale, nel caso di separazione personale, la comunione tra i coniugi si scioglie nel momento in cui il tribunale autorizza i coniugi a vivere separati).

La Corte d’Appello, a fronte della censura del marito, ha negato che vi fosse stato mutamento di domanda, argomentando che la richiesta di condanna pro quota costituiva una specificazione della originaria domanda di ricostituzione della comunione per equivalente.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del marito, evidenziando però che i giudici di merito avrebbero dovuto accogliere la domanda originaria della moglie, ciò in quanto, cessato il regime legale  tra i coniugi, rimane comunque intatta la contitolarità dei cespiti fino alla divisione.

Su tale assunto «il compartecipe che abbia chiesto nei confronti di altro compartecipe, di rimettere in proprietà comune un certo importo indebitamente sottratto, non incorre nel divieto di mutamento di domanda se chiede in corso di causa il pagamento diretto della propria quota. Il compartecipe debitore ha diritto di opporsi a tale domanda, non perché sia nuova, ma facendo valere il proprio interesse a ricostituire la comunione in vista della divisione, in modo da regolare in quella sede i rapporti di dare e avere, invece di pagare la quota del compartecipe fuori dalle operazioni divisionali».

 

Avv. Claudia Romano

Clear glass hour glass on brown wooden table[:]

[:it]Woman in black shirt carrying baby in gray onesie

Con Decreto Legge n°111 dell’8 settembre 2020, in vigore a fare data dal 9 settembre 2020, lo Stato italiano ha introdotto importanti misura a favore dei genitori-lavoratori dipendenti, nell’evenienza, tutt’altro che remota, in cui i figli siano costretti ad una quarantena obbligatoria.

In particolare, ai sensi dell’art. 5 del D.L. 111/2020 sono state introdotte le seguenti misure durante la durata “…della quarantena del figlio convivente, minore di anni quattordici, disposta dal Dipartimento di prevenzione della ASL territorialmente competente a seguito  di  contatto verificatosi all’interno del plesso scolastico”.

1) Lavoro in modalità agile

Ai sensi del comma 1, uno dei genitori avrà la possibilità di svolgere prestazioni di lavoro in modalità agile (c.d. smart working) durante tutta o parte la quarantena.

2) congedo straordinario

Qualora ciò non sia possibile, ai sensi del comma 2, uno dei genitori potrà astenersi in tutto o in parte dal lavoro per tutta o parte della quarantena del figlio.

Per il periodo di congedo fruito, il lavoratore avrà diritto ad “un’indennità pari al 50 per cento della retribuzione stessa”.

La norma specifica altresì che:

  • le misure riguardano unicamente le quarantene di figli minori di anni 14 conviventi;
  • detti benefici potranno essere riconosciuti solo per periodi di quarantena compresi entro la fine del corrente anno;
  • le misure non vengono concesse qualora uno dei genitori già lavori in smart working ovvero non svolga attività lavorative.

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[:it]Two hand exchanging twenty jordanian dinars

L’ordinanza de quo ha ad oggetto un ricorso avverso il decreto con il quale la Corte d’Appello de L’Aquila aveva respinta la richiesta, proposta dall’ex marito, di revoca dell’assegno divorzile di euro 400, disposto a favore della ex moglie con la sentenza definitiva di cessazione degli effetti civili del matrimonio pronunciata dal Tribunale.

Con un unico motivo di ricorso, l’ex marito eccepisce l’omessa valutazione della possibilità dell’ex moglie di ricercare un lavoro, essendone abile.

La Cassazione ha invece ritenuto inammissibile il ricorso, osservando che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la Corte territoriale aveva operato una valutazione in ordine all’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, posto che la donna aveva dimostrato di essersi “attivata in questi anni, ma senza successo, nella ricerca di un lavoro stabile (accettando lavori a termine e partecipando a concorsi) che le consenta di raggiungere l’autosufficienza economica” (pag. n. 3 decreto impugnato).

In buona sostanza dunque, con questa ordinanza, la Corte ha ribadito un orientamento ormai pressoché costante nella giurisprudenza di legittimità secondo il quale, in tema di diritto all’assegno divorzile, l’attitudine dell’ex coniuge al lavoro assume rilievo solo se venga riscontrata una effettiva sopravvenuta possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale, e non già sulla base di mere valutazioni astratte e ipotetiche.

 

avv. Claudia Romano

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[:it]studio-32Gentili Clienti,

lo Studio Legale Martignetti – Romano rende noto che resterà chiuso per ferie a partire dal lunedi 3 agosto e sino a lunedì 31 agosto 2020.

Per urgenze vi invitiamo a contattarci ai seguenti recapiti:

– avv. Maria Martignetti 339/119.57.27;

– avv. Luigi Romano 333/444.67.07.

 

 

Avv. Maria Martignetti            Avv. Claudia Romano               Avv. Luigi Romano       Avv. Marzia Capomagi[:]

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