[:it]Immagine correlataI c.d. “punitive damages”, di origine anglosassone, consistono nel riconoscimento al danneggiato di una somma ulteriore rispetto a quella necessaria a compensare il danno subito c.d“compensatory damages”, nel caso il danneggiante abbia agito con dolo “malice” o colpa grave “gross negligence”. Negli ordinamenti di common law, questa voce ha una sua autonomia, con una funzione spiccatamente punitiva, quasi “parapenale”.

La Corte di cassazione, sino a pochi giorni orsono, aveva sempre negato ingresso a questa categoria di danni, sostenendo che «nel vigente ordinamento il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non è riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive ma in relazione all’effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso né il medesimo ordinamento consente l’arricchimento se non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto ad un altro» (così Cass.  n. 1781/12)

Le Sezioni unite adesso, con una di quelle sentenze destinate a costituire un punto di riferimento, la n. 16601, depositata il 5 luglio 2017, hanno riesaminato detto orientamento. Nel fare ciò i Giudici  si sono soffermati sulla natura e finalità della responsabilità civile, anzitutto ricordando come già con la sentenza n. 9100 del 2015 le stesse Sezioni Unite, in quel caso tema di responsabilità degli amministratori, avessero messo in luce come la funzione sanzionatoria del risarcimento del danno non debba più ritenersi incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento, visto e considerato che negli ultimi decenni il legislatore ha introdotto, per quanto saltuariamente, disposizioni dal connotato tipicamente sanzionatorio del risarcimento.

Ergo tale “connotato sanzionatorio non è ammissibile al di fuori dei casi nei quali una qualche norma di legge chiaramente lo preveda, ostandovi il principio desumibile dall’articolo 25 Cost., comma 2, nonché dall’art. 7 della Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali”. Cioè a dire, vicino alla funzione compensativo-riparatoria dell’istituto della responsabilità civile seve riconoscersi una natura polifunzionale dello stesso istituto, che si proietta verso più aree, tra cui sicuramente principali sono quella preventiva (anche detta deterrente o dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva. Quindi, nel nostro ordinamento alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di ripristinare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione “poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile”. Non è quindi ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi.

Tuttavia il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell’ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi (come nel caso della legge della Florida, lo Stato da cui provengono le tre sentenze esame, in cui sussistono limiti al fenomeno della responsabilità multipla), dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell’atto straniero e alla loro compatibilità con l’ordine pubblico. Le Sezioni unite, per arrivare a questa conclusione, ridefiniscono il concetto di ordine pubblico, determinante nell’impedire l’applicazione della legge straniera.  Il che comporta una maggiore permeabilità nei confronti del diritto internazionale e soprattutto comunitario, alla ricerca di punto di equilibrio tra il tradizionale controllo sull’ingresso di norme o sentenze straniere che potrebbero minare la coerenza interna dell’ordinamento giuridico e una funzione promozionale dei valori tutelati dal diritto internazionale.

Questa apertura delle Sezioni unite non significa però che da oggi in poi  i giudici italiani saranno autorizzati a un significativo incremento delle somme dovute da titolo di risarcimento anche per cause nazionali.  La sentenza circoscrive gli effetti di una “curvatura deterrente/sanzionatoria” comunque individuabile nella giurisprudenza, anche costituzionale. Per un’applicazione su larga scala servirebbe un intervento normativo, visto che «ogni imposizione personale esige una “intermediazione legislativa”, per effetto del principio costituzionale sancito dall’articolo 23 della Carta, che istituisce una riserva di legge sulla previsione di nuove prestazioni patrimoniali e impedisce un “incontrollato soggettivismo giudiziario”.

Comunque una breccia si è certamente aperta.[:]

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downloadLa scelta della scuola, si sa, non è mai facile. Tra numeri chiusi, tempi stretti e la concorrenza tra istituti pubblici e privati, parificati o meno, sono sempre più frequenti i “ripensamenti” anche ad iscrizione ultimata. Aimè nella prassi, molte scuole “blindano” se non la frequenza effettiva, quanto meno il compenso per l’intero anno scolastico, attraverso contratti contenenti clausole, alcune delle quali di carattere vessatorio, che limitano e/o privano i genitori e il figlio della facoltà di recedere gratuitamente.

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza del 5 maggio 2017, n°10910, trae origine proprio da uno di detti casi, venendo in soccorso di una madre che, dopo aver pagato per l’iscrizione del figlio in una scuola paritaria, si era vista notificato un decreto ingiuntivo di pagamento della retta dell’intero anno scolastico da parte dell’istituto, nonostante avesse comunicato la volontà di recedere e nonostante il figlio avesse poi frequentato un altro istituto.

La signora decideva pertanto di impugnare il decreto, deducendo la vessatorietà di alcune clausole contrattuali, che ponevano in una posizione di svantaggio i genitori-consumatori rispetto al professionista, chiedendo, in via principale, la revoca dello stesso, incidentalmente la restituzione della quota d’iscrizione già versate e, in subordine, la riduzione del suo importo alla sola quota d’iscrizione.

Il Tribunale di Busto Arsizio, tuttavia, respingeva detti motivi di opposizione ritenendo che non sarebbe vessatoria la clausola che prevedeva “…nel caso di abbandono o non frequenza della scuola, l’obbligo del genitore contraente di corrispondere l’intera retta…”, potendo ritenersi tale “… solo in caso di recesso dello stesso professionista, e non quando, come nella fattispecie, è il consumatore a recedere”.

Il Tribunale, accoglieva tuttavia la domanda riconvenzionale della madre, volta alla restituzione quanto meno della quota d’iscrizione.

La signora e il suo avvocato, tuttavia, non si perdevano d’animo e impugnavano la sentenza di primo grado dinnanzi alla Corte d’Appello di Milano, eccependo nuovamente la vessatorietà della clausola che escludeva il diritto di recesso del genitore, oltre alla “…mancanza di conoscenza del regolamento, la mancata considerazione di una testimonianza e la asserita incompetenza territoriale del Tribunale di Busto Arsizio”.

La Corte milanese, pur disattendendo tali ultime rimostranze, dando ragione alla signora, riconosceva la vessatorietà della clausola contrattuale che poneva in capo al genitore l’obbligo di corrispondere l’intera quota nonostante la mancanza di frequenza dell’alunno, in quanto:

  • era pacifico che il relativo contratto non era stato oggetto di trattativa individuale (essendo “intonso” il modello contrattuale redatto dal professionista;
  • tale obbligo si poneva in contrasto con l’art. 33, co. 2, lett. g) del Codice del Consumo, rubricato “Clausole vessatorie nel contratto tra professionista e consumatore”, che sul punto dispone: “ Si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che hanno per oggetto, o per effetto, di: (…) g) riconoscere al solo professionista e non anche al consumatore la facoltà di recedere dal contratto, nonché consentire al professionista di trattenere anche solo in parte la somma versata dal consumatore a titolo di corrispettivo per prestazioni non ancora adempiute, quando sia il professionista a recedere dal contratto;”
  • tale vessatorietà risultava ancor più evidente se raffrontata con un’ulteriore clausola che consentiva all’istituto di “…sottrarsi all’obbligo di rendere le proprie prestazioni nel caso di mancato raggiungimento del numero idoneo per la formazione delle classi”, da considerarsi anch’essa vessatoria, atteso che tale circostanza impedirebbe al consumatore di verificarne la sussistenza, e non integrerebbe una condizione oggettiva in quanto la sua mancanza non renderebbe materialmente impossibile la prestazione promessa ma unicamente il riconoscimento dell’istituto come paritario.

Avverso tale decisione, proponeva ricorso in Cassazione l’istituto sulla base di tre motivi, tutti disattesi dalla Suprema Corte.

In particolare, con il primo motivo il ricorrente deduceva la mancanza di vessatorietà della clausola contrattuale che permetterebbe all’istituto di recedere in caso di mancato raggiungimento di un numero idoneo di studenti, in quanto la stessa avrebbe “…in realtà il carattere di condizione sospensiva, collegata ad un obbligo imposto alla stessa Acof dalla legge”, condizione che si sarebbe poi avverato facendo acquistare al contratto efficacia ex tunc. Ad avviso del ricorrente, in altri termini, una volta raggiunto il numero degli studenti per avviare il corso, né il professionista né il consumatore avrebbero potuto recedere, con conseguente assenza di qualsiasi squilibrio tra consumatore e professionista.

Di diverso avviso sono i giudici transtiberini, ad avviso dei quali la Corte milanese aveva giustamente ritenuto sussistente una presunzione di vessatorietà della suddetta clausola, ai sensi dell’art. 33, co. 2, lett. g) del Codice del Consumo, essendo assente un obbligo di legge che ne giustificasse l’esistenza ed essendo indubbio che la stessa clausola riconosceva “…al solo professionista e non anche al consumatore la facoltà di recedere dal contratto”. Ad avviso della Corte, inoltre, la presunzione di vessatorietà risultava nel caso di specie ancor più evidente, atteso che detta clausola consentiva “…al professionista di trattenere anche solo in parte la somma versata dal consumatore a titolo di corrispettivo per prestazioni non ancora adempiute, quando sia il professionista a recedere dal contratto” senza prevedere “analoga sanzione a carico del professionista” (sul punto si veda anche Cass. civ., Sez. III^, sentenza del 17 marzo 2010, n°6481, ad avviso del quale la somma dovuta dall’allievo nel caso di recesso integra una penale).

Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta che la Corte d’Appello:

  • avrebbe erroneamente qualificato l’istituto come asilo e non come scuola materna che, “pur non essendo obbligatoria, a differenza del nido è inserita nel sistema scolastico educativo nazionale”;
  • avrebbe errato nel ritenere irrilevante la qualifica di scuola paritaria dell’istituto, come dimostrato dalla successiva iscrizione dell’alunno presso altra scuola paritaria;
  • avrebbe dovuto applicare una circolare ministeriale che dettava regole per le iscrizioni degli alunni nell’anno accademico di riferimento.

La Suprema Corte, ancora una volta, disattende le suddette eccezioni, ritenendo indimostrata l’influenza che la corretta applicazione della normativa statale avrebbe avuto sull’esito del giudizio.

Con l’ultimo motivo di ricorso, infine, l’istituto si doglie della mancata applicazione “…dell’art. 34, comma 4, Codice del Consumo, il quale esclude la vessatorietà delle clausole che siano state oggetto di trattativa individuale”, ritenendo che dall’istruttoria sarebbe emersa non solo la possibilità ma anche l’effettiva contrattazione delle clausole contrattuali.

Anche detto ultimo motivo veniva tuttavia dichiarato inammissibile per violazione dei limiti di deducibilità del vizio ai sensi della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 6, n. 5 nonché per difetto di autosufficienza.

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Risultati immagini per immagine danno affettivoL’alterazione della vita o danno esistenziale che dir si voglia (e cioè il cosiddetto “danno esistenziale”) è una categoria di danno che non può essere liquidata sulla base di cifre ridicole e non ancorate a criteri oggettivi che prendano in seria considerazione gli effettivi pregiudizi subìti. In tal senso si è pronunciata la sentenza n. 12470 del 18 maggio 2017, della Corte di Cassazione civile che nel riconoscere il danno da “alterazione del rapporto familiare” – quale quello sofferto dalla moglie dell’infortunato gravemente invalido che vede compromessa la vita familiare, sessuale e sociale – ha affermato che lo stesso dev’essere risarcito secondo i criteri delle tabelle di Milano  e più non sulla mera applicazione di un criterio equitativo puro.

Nella fattispecie in esame un uomo, a causa di un grave sinistro stradale, riportava gravi lesioni permanenti, valutate nella misura del 70%.

Agiva in giudizio anche la moglie, al fine di ottenere il ristoro dei pregiudizi riportati a causa della completa alterazione della vita familiare, determinata dalla necessità di una continua assistenza al marito e dal deterioramento dei rapporti con lo stesso, il quale riportava postumi di carattere psichico tali da compromettere la relazione personale e affettiva con il coniuge.

Ritenendo non adeguata la liquidazione del pregiudizio non patrimoniale operata dal Tribunale, giudice di primo grado, la donna promuoveva appello, chiedendo, tra l’altro, che la liquidazione del danno venisse effettuata attraverso il riferimento alle tabelle di Milano, essendo in gioco un danno talmente grave da essere equiparabile a quello derivante dalla perdita del rapporto parentale.

La Corte di Appello, giudice di secondo grado, accoglieva parzialmente l’impugnazione: – dava atto del fatto che il marito aveva riportato in conseguenza del sinistro, oltre a una grave invalidità (70%), anche alterazioni caratteriali, caratterizzate da comportamenti aggressivi con improvvisi scoppi d’ira, con conseguente deterioramento dei rapporti personali e affettivi compresi quelli di natura sessuale tra i due coniugi, oltre che nei confronti del mondo esterno; – dava atto dell’inidoneità della somma liquidata in prima istanza a coprire interamente il danno; provvedeva a rideterminare detto danno nella somma di € 60.000, sulla base di due parametri equitativi puri e cioè attribuendo un determinato valore economico a ciascun anno di futura durata della convivenza per i successivi vent’anni; e riconoscendo un valore annuo alla perdita della sfera affettiva sessuale (pari a € 2.500)  e altro valore (€ 2.500 euro) per gli oneri di assistenza.

Di diverso avviso la Corte di Cassazione, secondo cui:

– la sentenza di secondo grado non ha tenuto adeguato conto, da un punto di vista teorico-ricostruttivo, di tutte le conseguenze non patrimoniali patite dalla moglie, a seguito dell’incidente stradale che aveva coinvolto il consorte: ciò sia sotto al profilo degli obblighi assistenziali, che dello sconvolgimento della vita personale, relazionale e sessuale della ricorrente e, ancora, della sofferenza morale;

– si è consumata una violazione di legge in punto di liquidazione del danno non patrimoniale in quanto la ricorrente si è concretamente doluta in appello della mancata liquidazione del danno in base ai valori delle tabelle milanesi ed ha versato in atti le stesse; inoltre i giudici d’appello hanno provveduto ad integrare la somma liquidata in primo grado con una cifra ulteriore, mentre “il giudice è tenuto a riconsiderare unitariamente benché nella sua articolata complessità il danno a riliquidarlo nella sua interezza, non potendosi limitare ad aggiungere una cifra per un aspetto non adeguatamente considerato dal giudice di primo grado, perché ciò contrasta con la valutazione unitaria del danno non patrimoniale, finalizzata al suo risarcimento integrale”;

– nella liquidazione del danno non patrimoniale non è consentito, in mancanza di criteri stabiliti dalla legge, il ricorso a una liquidazione equitativa pura, non fondata su criteri obiettivi, i soli idonei a valorizzare le singole variabili del caso concreto e a consentire la verifica “ex post” del ragionamento seguito dal giudice in ordine all’apprezzamento della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell’entità della relativa sofferenza e del turbamento del suo stato d’animo, dovendosi ritenere preferibile, per garantire l’adeguata valutazione del caso concreto e l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, l’adozione del criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, al quale la stessa Cassazione riconosce la valenza, in linea generale e nel rispetto dell’art. 3 Cost., di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno non patrimoniale alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c., salva l’emersione di concrete circostanze che ne giustifichino l’abbandono.

In altri termini la Cassazione rigetta il ricorso al criterio equitativo puro, osservando che “la sentenza quantifica l’importo dovuto alla ricorrente per il risarcimento del danno non patrimoniale da alterazione del rapporto parentale discostandosi dalle tabelle per far ricorso ad un criterio equitativo puro, senza giustificare in alcun modo la necessità di farvi ricorso e senza precisare per quale motivo sia impossibile, nel caso di specie, utilizzare altri più omogenei e verificabili criteri di quantificazione del danno”. E infine: il riconoscimento di un importo fisso da corrispondere alla danneggiata in relazione a ciascun anno di futura convivenza, agganciato a due diversi profili di affettività, viene circoscritto ad un periodo di vent’anni: restrizione del tutto arbitraria, considerato che tale alterazione irreversibile del rapporto non appare destinata ad evolversi positivamente con l’avanzare dell’età dei coniugi e tenuto conto che la limitazione non risulta parametrata né alle aspettative di vita della vittima diretta, né a quelle della consorte.

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[:it]Risultati immagini per immagine creditoLa Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, con la sentenza 15 novembre 2016, n. 23225, enuncia i seguenti principi di diritto in tema di compensazione:

A) “Le norme del codice civile sulla compensazione stabiliscono i presupposti sostanziali, oggettivi, del credito opposto in compensazione: liquidità – che include il requisito della certezza – ed esigibilità. Verificata la ricorrenza dei predetti requisiti, il giudice dichiara l’estinzione del credito principale per compensazione – legale – a decorrere dalla coesistenza con il controcredito e, accogliendo la relativa eccezione, rigetta la domanda.

B) Se il credito opposto in compensazione è certo, ma non liquido, nel senso di non determinato, in tutto o in parte, nel suo ammontare, il giudice può provvedere alla relativa liquidazione se è facile e pronta; quindi, o può dichiarare estinto il credito principale per compensazione giudiziale fino alla concorrenza con la parte di controcredito liquido, o può sospendere cautelativamente la condanna del debitore fino alla liquidazione del controcredito eccepito in compensazione.

C) Se è controversa, nel medesimo giudizio instaurato dal creditore principale, o in altro giudizio già pendente, l’esistenza del controcredito opposto in compensazione (art. 35 cod. proc. civ.) il giudice non può pronunciare la compensazione, nè legale nè giudiziale.

D) La compensazione giudiziale, di cui all’art. 1243 c.c., comma 2, presuppone l’accertamento del controcredito da parte del giudice dinanzi al quale la medesima compensazione è fatta valere, mentre non può fondarsi su un credito la cui esistenza dipenda dall’esito di un separato giudizio in corso e prima che il relativo accertamento sia divenuto definitivo. In tale ipotesi, pertanto, resta esclusa la possibilità di disporre la sospensione della decisione sul credito oggetto della domanda principale, e va parimenti esclusa l’invocabilità della sospensione contemplata in via generale dall’art. 295 c.p.c., o dall’art. 337 c.p.c., comma 2, in considerazione della prevalenza della disciplina speciale del citato art. 1243 c.c.”.

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[:it]Con sentenza del 22 gennaio 2010, n°9633, la I^ sezione della Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata su un’annosa questione, frutto di accesi dibattiti tra avvocati e clienti: la determinazione del compenso professionale.

La vicenda trae origine dalla liquidazione da parte del giudice delegato del fallimento di una società in favore del difensore della suddetta di un importo notevolmente inferiore a quanto determinato dallo stesso professionista, il quale, pertanto decideva di ricorrere sino in Cassazione.

In particolare, il collega deduceva  “…la violazione di legge, variamente articolata, nell’erronea affermazione del vincolo di giudicato in ordine al compenso da liquidare al professionista”.

La Corte di cassazione, accogliendo il ricorso, giudica fondato il predetto motivo ritenendo, in particolare, che “…la statuizione concernente il regolamento delle spese nell’ambito del giudizio contenzioso patrocinato dall’avv. ___, non può in alcun modo vincolare la successiva liquidazione del corrispettivo professionale dovuto dal fallimento da lui rappresentato”. Ad avviso della S.C., infatti, “…la determinazione degli onorari nei confronti del cliente soggiace, infatti, a criteri legali diversi da quelli applicabili nei confronti del soccombente. Quest’ultima dipende, innanzitutto, dall’esito vittorioso della lite ma può essere perfino negata, in tutto o in parte, in forza di compensazione dettata da ragioni affatto estranee alla qualità della prestazione professionale, oggetto di un’obbligazione di mezzi”.

Da ultimo, la Corte di legittimità chiarisce come la differenza esistente tra rapporto processuale e rapporto contrattuale interno tra avvocato e cliente comporti pertanto l’applicazione di diversi criteri di liquidazione.

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[:it]Cosa dice sostanzialmente la legge sul prestito vitalizio ipotecario

 Il prestito vitalizio ipotecario ha per oggetto la concessione da parte di banche di “finanziamenti a medio e lungo termine” .

I finanziamenti vengono poi garantiti nei confronti della banca da “ipoteca di 1° grado su immobili residenziali”.

In caso di morte del mutuatario il debito deve essere pagato dai suoi eredi.

Il finanziamento può essere rimborsato integralmente in unica soluzione al momento della morte del soggetto (ovvero quando l’immobile ipotecato venga trasferito o vi si compiano atti che ne riducano il valore), oppure può essere stabilita una modalità di rimborso graduale della quota di interessi e delle spese.

Fin qui, quindi, non sembrano  esserci sostanziali differenze da un normale mutuo ipotecario, anche se normalmente per i mutui ipotecari inizia subito il sistema del rimborso col metodo “alla francese”, comprensivo anche di capitale. Ma si tratta di una scelta della banca, come possono constatare coloro che pattuiscono un periodo di preammortamento molto lungo.

In caso di mancato pagamento del debito da parte degli eredi la banca provvede a soddisfarsi sull’immobile ipotecato.

 Il prestito vitalizio ipotecario è riservato a persone fisiche con età superiore a 60 anni compiuti.

Anche in questo caso l’opzione non è contraria al disposto di legge vigente, anche se,  abitualmente, che le banche assai raramente concedono mutui ipotecari a persone “anziane” temendo che l’età avanzata del mutuatario possa creare problemi per la restituzione.

Spesso le banche addirittura prevedono che il piano di ammortamento del mutuo debba necessariamente terminare prima del raggiungimento dei 75 anni di età.

 

Esonero dal processo di esecuzione

La grande novità della legge sul prestito vitalizio ipotecario è costituita dal fatto che la banca che ha concesso tale tipo di mutuo è esonerata dalla normale procedura esecutiva.

Si tratta quindi di un meccanismo finalizzato a garantire la banca per il soddisfacimento dei suoi crediti, e per essa tagliato su misura. Ed ecco perché la legge ammette al beneficio del prestito vitalizio ipotecario i soggetti con età superiore a 60 anni. L’assoluta garanzia di poter ottenere il soddisfacimento dei propri crediti, mediante la concessione di un mutuo di valore inferiore al valore dell’immobile ipotecato, mette la banca in una botte di ferro, eliminando tutti i rischi in precedenza connessi all’età del mutuatario.

Secondo la norma, dopo aver concesso dodici mesi agli eredi del mutuatario per il rimborso integrale di quanto dovuto, “il finanziatore vende l’immobile a un valore pari a quello di mercato” oltretutto determinato da un perito “indipendente” incaricato dallo stesso finanziatore.
La banca ha quindi la possibilità di vendere, semplicemente, in proprio, proprio come se fosse una sua proprietà privata personale, l’immobile trattenendo tutte le somme ricavate dalla vendita per il rimborso del capitale, gli interessi, anche moratori, le spese, ivi comprese ovviamente le spese per la vendita.

Sarà il finanziatore stesso che, successivamente alla vendita, riconoscerà “al soggetto finanziato o ai suoi aventi causa” la differenza eventualmente residuante tra il prezzo conseguito dalla vendita e la spettanza della banca.

Circostanza, quest’ultima, piuttosto teorica, perché ovviamente l’interesse della banca è quello di ricavare dalla vendita del bene quanto a lei spettante.[:]

[:it]Approvate nella riunione congiunta (tenutasi il giorno 10 maggio 2016) delle sezioni civili II, XII e XIII del Tribunale di Roma, le tabelle in questione riguardano la liquidazione di:

 

  1. danno biologico;
  2. danno da morte di congiunto;
  3. danno da inabilità temporanea.

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Ribadisce la II sezione della Corte di Cassazione, con sentenza 11 marzo 2016, n. 4825 che il contratto di rendita vitalizia ha natura aleatoria, postulando l’esistenza di una situazione di incertezza circa il vantaggio o lo svantaggio economico che potrà alternativamente realizzarsi nello svolgimento e nella durata del rapporto.

Be consegue che il difetto di alea è riscontrabile ogni qual volta in cui l’entità della prestazione assicurata sia inferiore o pari ai frutti o agli utili ricavabili dal cespite dovuto, ovvero quando il beneficiario della rendita sia da ritenere prossimo alla morte per malattia o età: in tali ipotesi, il contratto è nullo per difetto di causa.

Nel caso in esame, il Giudice di legittimità ha ritenuto il contratto di carattere aleatorio, pur avendo accertato che il vitalizio era di poco superiore alla rendita ricavabile dall’immobile, limitandosi a considerare, da un lato, la possibilità di sopravvivenza della ricorrente (76 anni) rapportandola alla durata media della vita delle donne (83 anni), e dall’altro, l’importo della rendita vitalizia senza compiere una verifica circa il valore dell’immobile trasferito e la eventuale sproporzione rispetto alla rendita erogata in rapporto alla sopravvivenza del vitaliziando.

Invece, occorreva valutare se, anche considerando il protrarsi della vita della vitalizianda oltre quella media, sarebbe stato possibile determinare preventivamente i vantaggi derivanti dal contratto ovvero verificare se, al momento della conclusione del contratto, il rischio per il vitaliziante ed il vitaliziato fosse identico: il che sarebbe stato da escludere ove la prestazione posta a carico del primo non fosse stata tale da potere intaccare il valore rappresentato dal cespite trasferito.

In sostanza, la Corte di Appello non aveva tenuto conto della eventuale sproporzione – obiettivamente valutabile al momento della stipulazione del contratto- fra il valore acquisito dal vitaliziante (il trasferimento della proprietà dell’immobile) rispetto all’importo della rendita da corrispondere per la probabile durata della vita del vitaliziato: tale sproporzione, traducendosi in un evidente vantaggio per il primo,avrebbe dovuto indurre ad escludere l’aleatorietà del contratto, che consiste nella obiettiva incertezza sui vantaggi e i sacrifici reciprocamente derivanti alle parti dalle prestazioni.

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[:it]Risultati immagini per immagine rubinetto acquaLa Prima sezione civile della Corte di Cassazione – sentenza 4 febbraio 2016 n. 2182 – affronta il  tema dei disservizi nell’erogazione dell’acqua potabile che tocca migliaia di cittadini che, in varie regioni, soprattutto in Sicilia, non possono contare quotidianamente su un flusso idrico costante e di buona qualità.

Afferma la Corte che il gestore dell’acquedotto, essendosi impegnato alla somministrazione dell’acqua nel contratto di servizio, è tenuto a ricorrere a fonti di approvvigionamento alternative rispetto a quelle usuali, dichiarate fuori legge, senza aspettare che chi ha inquinato appronti misure per affrontare l’emergenza. Conseguentemente il gestore deve risarcire ai cittadini che rimangono senz’acqua i danni da loro patiti nel caso di disservizi nell’erogazione dell’acqua potabile, anche se dovuti all’inquinamento prodotto da insediamenti industriali (nella specie dall’attività del polo petrolchimico di Gela).

Deve quindi ritenersi meritevole di conferma la sentenza di merito “per aver posto in evidenza, da un lato, l’estraneità della raffineria al contratto di somministrazione e, dall’altro, per aver correttamente richiamato il principio secondo cui, ai sensi dell’art. 1218 del codice civile, il debitore, in quanto tenuto a dimostrare di non aver potuto adempiere la prestazione dovuta per causa a lui non imputabile, non può limitarsi a eccepire la semplice difficoltà della prestazione dovuta o il fatto ostativo del terzo, ma deve provare di aver impiegato la necessaria diligenza per rimuovere gli ostacoli frapposti all’esatto adempimento“.

Inutile opporre che la raffineria avrebbe dovuto “captare l’acqua marina e procedere alla sua dissalazione“, mentre all’ente spettava il compito “di miscelare l’acqua, una volta dissalata, in modo da renderla potabile“. E ciò in quanto “non risulta che il contratto di somministrazione prevedesse esclusivamente la fornitura di acqua dissalata” ed inoltre il gestore aveva l’obbligo di “superare le difficoltà, così come non è stata neppure dedotta l’oggettiva impossibilità di ricorrere ad approvvigionamenti alternativi per eseguire le prestazioni dovute“.

Per le suesposte ragioni, la Cassazione ha confermato la condanna a carico della Eas, ‘Ente acquedotti siciliani in liquidazione’, ex gestore della reta idrica di Gela, a pagare 853 euro di risarcimento danni in favore del presidente della Confcommercio di Gela Rocco Pardo  per i disservizi patiti nel suo ristorante “nel periodo in cui il Comune di Gela aveva ordinato ai cittadini di astenersi dall’uso potabile dell’acqua in quanto i parametri chimici e i caratteri organolettici erano difformi da quelli previsti dalla legge“.

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[:it]Nel nostro ordinamento giuridico non è ammissibile l’autonoma categoria del “danno esistenziale”, inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona.

A ribadirlo è la terza sezione della Corte di cassazione con la sentenza 13 gennaio 2016, n. 336.

Nel caso in esame, gli eredi avevano lamentavano l’esclusione del danno esistenziale da parte del corte del merito che aveva sconfessato il risarcimento riconosciuto invece dal giudice di prime cure. Di diverso avviso la Corte di legittimità, secondo cui il danno esistenziale non poteva essere liquidato come voce autonoma, essendo stato già liquidato agli attori il risarcimento del danno non patrimoniale, comprensivo sia della sofferenza soggettiva che del danno costituito dalla lesione del rapporto parentale e dal conseguente sconvolgimento dell’esistenza.

E ciò in quanto: – nel caso in cui in tale categoria di danno si intendesse ricomprendere i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, essi risultano già risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c.c. interpretato in modo conforme a Costituzione, con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria; – nel caso in cui, al contrario, nel “danno esistenziale” si volessero includere i pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi sono irrisarcibili, in virtù del divieto di cui all’art. 2059 c.c.

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