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L’accettazione dell’eredità con beneficio di inventario fatta dal legale rappresentante del minore, senza la successiva redazione dell’inventario, consente al minore stesso di rinunciare all’eredità entro l’anno dal raggiungimento della maggiore età?

È questo il quesito posto all’attenzione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che con la sentenza n. 31310/2024 del 22 ottobre 2024, pubblicata il 6 dicembre 2024, hanno risolto un annoso contrasto giurisprudenziale e fornito chiarimenti importanti in punto di accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario per conto del minore da parte del genitore esercente la responsabilità genitoriale.

Nel caso di specie, due fratelli proposero dinanzi al Tribunale di Padova opposizione all’esecuzione intrapresa nei loro confronti da un istituto bancario per il pagamento delle rate di mutuo acceso dal loro padre, deceduto quando erano ancora minorenni, eccependo che, avendo rinunciato all’eredità paterna entro l’anno dal raggiungimento della maggiore età, ai sensi dell’art. 489 c.c., non potevano rispondere del debito.

Il Tribunale respinse l’opposizione, rappresentando che, quando gli attori erano ancora minorenni, la loro madre, aveva accettato, a loro nome e nel loro interesse, l’eredità con beneficio di inventario, sicché la rinuncia da loro fatta successivamente era inefficace.

La Corte di appello di Venezia confermò la decisione di primo grado, affermando che l’eredità devoluta al minore e accettata dal genitore con beneficio di inventario comporta, anche nel caso in cui l’ inventario non sia redatto, l’acquisto della qualità di erede da parte del minore. L’art. 489 c.c., infatti, attribuisce al minore, una volta raggiunta la maggiore età, solo la facoltà di redigere l’inventario nel termine di un anno, non anche di rinunciare all’eredità, come confermato dal fatto che la rinuncia non è sottoposta a forme di pubblicità.

Avverso la suddetta pronuncia è stato proposto ricorso per Cassazione. Con ordinanza interlocutoria n. 34852 del 13 dicembre 2023 la Seconda Sezione civile ha rimesso alle Sezioni unite la decisione del ricorso, per la presenza, con riguardo alla questione giuridica posta dal primo motivo, di soluzioni contrastanti nella giurisprudenza di questa Corte e reputando comunque la questione di particolare importanza (“il primo motivo di ricorso, nel denunciare la violazione degli artt. 471 e 484 cod. civ. in relazione all’art. 489 c.c., censura la sentenza impugnata rappresentando che il principio da essa affermato si pone in contrasto con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, espresso con le pronunce n. 9514 del 2017 e n. 4561 del 1988, secondo cui l’accettazione dell’eredità ex art. 484 cod. civ. da parte del legale rappresentante del minore, che non sia seguita dalla redazione dell’ inventario, non comporta nei confronti dello stesso l’acquisto della qualità di erede, con l’effetto che egli, entro l’anno dal conseguimento della maggiore età, può rinunziarvi. Tale conclusione si giustifica alla luce della configurazione dell’accettazione con beneficio di inventario in termini di fattispecie a formazione progressiva, i cui effetti si producono solo con il suo completamento e, quindi, con la redazione dell’inventario”).

In altre parole, le Sezioni Unite della Cassazione furono chiamate a chiarire se il minore acquisti la qualità di erede fin dal momento della dichiarazione formale di accettazione con beneficio di inventario resa dal suo legale rappresentante, quindi anche nel caso in cui questi non provveda a redigere l’ inventario, oppure conservi, in tale eventualità, la posizione di chiamato all’eredità, con conseguente facoltà di rinuncia.

Le Sezioni Unite, richiamando il principio del “semel heres semper heres”, secondo cui chi accetta l’eredità l’acquista in modo definitivo, non essendo la relativa dichiarazione revocabile, hanno risolto il quesito nel senso che la dichiarazione di accettazione di eredità con beneficio di inventario resa dal legale rappresentante del minore, anche se non seguita dalla redazione dell’ inventario, fa acquisire al minore la qualità di erede, rendendo priva di efficacia la rinuncia all’eredità manifestata dallo stesso una volta raggiunta la maggiore età, seguendo il seguente iter argomentativo:

  • il negozio di accettazione dell’eredità con beneficio di inventario è irretrattabile: deve, pertanto, escludersi che, ad accettazione dell’eredità avvenuta da parte del legale rappresentante del minore, nella forma beneficiata come richiesto dalla legge, il minore stesso possa essere considerato, fino ad un anno dopo il compimento della maggiore età, mero chiamato all’eredità e non erede, e che gli sia concessa la facoltà di rinuncia, come se la dichiarazione di accettazione beneficiata del suo legale rappresentante non fosse mai stata resa, in base ad una non consentita equiparazione tra la dichiarazione di accettazione beneficiata non seguita dall’ inventario e l’accettazione pura e semplice fatta dal legale rappresentante del minore;
  • invero, ai sensi dell’art. 459 c.c., l’eredità si acquista con l’accettazione;
  • tale ultimo principio non risulta derogato dall’art. 489 c.c., norma di carattere speciale, che consente al minore di eseguire l’inventario entro un anno dal raggiungimento della maggiore età (pena la decadenza dal beneficio di inventario), ma non anche la possibilità di rinunciare all’eredità già accettata, con la conseguenza che se entro tale termine non viene redatto l’inventario il minore divenuto maggiorenne sarà considerato erede puro e semplice;
  • il beneficio di inventario non costituisce una condizione sospensiva dell’efficacia dell’accettazione, né costituisce un requisito del negozio di accettazione.

 

Articolo a cura dell’avv. Gilda Pugliese

Con la recente sentenza n°1898/2025, comunicata il 27 gennaio 2025, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, hanno composto un annoso contrasto relativo alla portata da attribuirsi alla “dolosa preordinazione” richiesta dall’art. 2901, comma 1 c.c. per la revocatoria di un atto di disposizione avente data anteriore al sorgere del credito (nella specie un assegno circolare emesso pochi giorni prima dell’alienazione di 5 immobili).

Secondo una parte della giurisprudenza, la “dolosa preordinazione” richiederebbe unicamente che il debitore abbia posto in essere l’atto nella consapevolezza di pregiudicare le ragioni dei creditori, mentre, ad avviso di coloro che sostengono la tesi restrittiva, sarebbe necessario l’animus nocendi, ovvero la volontà di pregiudicare la soddisfazione del credito.

Gli Ermellini aderiscono a detta interpretazione restrittiva della norma:

  • in considerazione del significato letterale delle espressioni utilizzate nell’art. 2901, primo comma, cod. civ., già sufficiente “ad evidenziare l’intento del legislatore di subordinare l’accoglimento della revocatoria a presupposti soggettivi diversi, a seconda che la stessa abbia ad oggetto un atto posto in essere in epoca anteriore o successiva al sorgere del credito allegato a sostegno della domanda: mentre il verbo “conoscere” significa avere notizia o cognizione di una cosa o del suo modo di essere, per averne fatto direttamente o indirettamente esperienza o per averla appresa da altri, il sostantivo “preordinazione” fa riferimento alla predisposizione di un mezzo in funzione del raggiungimento di un risultato. La seconda espressione implica pertanto una finalizzazione teleologica della condotta del debitore, il cui disvalore trova una particolare sottolineatura nell’aggiunta dell’aggettivo “dolosa”, che allude al carattere fraudolento o quanto meno intenzionale dell’azione, indirizzata ad impedire od ostacolare l’azione esecutiva del creditore o comunque il soddisfacimento del credito; tale finalizzazione è del tutto assente nella prima espressione, che fa invece riferimento alla mera coscienza del pregiudizio che l’atto oggettivamente arreca o può arrecare alle ragioni dei creditori, per la riduzione della garanzia patrimoniale che ne consegue, indipendentemente dalle finalità concretamente perseguite dal debitore attraverso il compimento dello stesso”;
  • enunciando il seguente condivisibile principio di diritto: “In tema di azione revocatoria, quando l’atto di disposizione è anteriore al sorgere del credito, ad integrare la “dolosa preordinazione” richiesta dallo art. 2901, primo comma, cod. civ. non è sufficiente la mera consapevolezza, da parte del debitore, del pregiudizio che l’atto arreca alle ragioni dei creditori (c.d. dolo generico), ma è necessario che l’atto sia stato posto in essere dal debitore in funzione del sorgere dell’obbligazione, al fine d’impedire o rendere più difficile l’azione esecutiva o comunque di pregiudicare il soddisfacimento del credito, attraverso una modificazione della consistenza o della composizione del proprio patrimonio (c.d. dolo specifico), e che, trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse a conoscenza dell’intento specificamente perseguito dal debitore rispetto al debito futuro”.

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separazione-e-soldi_smallLa Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione, con ordinanza n°5603 del 29 novembre 2019, depositata in cancelleria il 28 febbraio 2020, ha statuito – alla luce dei principi già affermati in materia – che non può riconoscersi il diritto a percepire l’assegno di mantenimento all’ex moglie che svolge un lavoro in nero di cui non possa accertarsi l’effettivo guadagno che la stessa realizza.

Il caso

La vicenda trae origine da una causa di cessazione degli effetti civili del matrimonio nella quale il Tribunale di Rovigo, investito della questione, riconosceva all’ex moglie il diritto a percepire un assegno divorzile nella misura di euro 300,00. Dolendosi di tale decisione, l’ex marito ricorreva alla Corte di Appello di Venezia, che confermava la decisione del giudice di prime cure, rilevando come il marito godesse di una situazione economica migliore rispetto a quella della moglie, la quale, dopo la separazione, si era ritrovata a svolgere prestazioni di manicure in modo irregolare e non stabile.

A fronte del rigetto del suo gravame da parte della Corte d’Appello, il ricorrente, adiva la Suprema Corte deducendo come il Giudice di merito avesse fondato la conferma del suo obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento alla moglie esclusivamente sulla circostanza che la saltuaria occupazione dalla medesima svolta non fosse tale da assicurarle un tenore di vita tendenzialmente analogo a quello tenuto in costanza di matrimonio.

Il giudizio della Suprema Corte

Con la decisione in commento, la Suprema Corte, ha accolto il ricorso dell’ex marito alla stregua del consolidato principio di diritto sancito dalle Sezioni Unite, sentenza n. 18287 dell’11 luglio 2018 e ribadito dalla Corte di Cassazione, Sez. I, Ord. n. 1882 del 23 gennaio 2019, secondo cui all’assegno divorzile deve attribuirsi oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa. Detta natura discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate e senza che la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, venga finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma piuttosto al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi.

In conclusione

Gli Ermellini:

  • hanno rilevato che la Corte territoriale non si è attenuta a tali principi, applicando, di contro, l’ormai superato criterio del tenore di vita goduto dal coniuge richiedente in costanza di matrimonio;
  • non hanno accertato, in applicazione dei suddetti principi “…l’effettivo guadagno che la (omissis) realizza con l’attività svolta, che comunque – in quanto in concreto accertata – evidenzia una capacità lavorativa e reddituale della medesima”;
  • hanno conseguentemente cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Venezia, in diversa composizione, affinché proceda ad un nuovo esame del merito della questione alla luce dei principi giurisprudenziali sopra enunciati.

Articolo a cura della dott.ssa Michela Terella.[:]

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separazione-e-soldi_smallIl principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite con la recente sentenza n°18287 dell’11 luglio 2018

Come oramai noto a tutti, o quasi, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n°18287 del 11 luglio 2018, hanno chiarito la natura e i presupposti per il riconoscimento dell’assegno di divorzio enunciati dall’art. 5 della legge n°898 del 1° dicembre 1970, pronunciando il seguente condivisibile principio di diritto: Ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, dopo le modifiche introdotte con la L. n. 74 del 1987, il riconoscimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi o comunque dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto“.

In particolare, le Sezioni Unite – prendendo le distanze dalla rigida distinzione tra criterio attributivo e criteri determinativi dell’assegno divorzile, sostenuta pochi mesi prima dalla I^ sezione della Suprema Corte n°11504 del 10 maggio 2017 – hanno ritenuto che “…all’assegno di divorzio deve attribuirsi una funzione assistenziale e, in pari misura, compensativa e perequativa…” con conseguente necessità di utilizzare un criterio composito al fine di accertare la debenza dell’assegno divorzile e procedere a una sua quantificazione, che tenga in dovuta considerazione:

  1. l’esistenza di una disparità economico-patrimoniale determinata dal divorzio, mediante una valutazione comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali dei coniugi del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio;
  2. il contributo fornito dall’ex coniuge più debole alla formazione del patrimonio comune e personale;
  3. la durata del matrimonio;
  4. le potenzialità reddituali presenti e future e dell’età dell’avente diritto;
  5. l’adeguatezza dei mezzi del richiedente “…non solo in relazione alla loro mancanza o insufficienza oggettiva ma anche in relazione a quel che si è contribuito a realizzare in funzione della vita familiare e che, sciolto il vincolo, produrrebbe effetti vantaggiosi unilateralmente per una sola parte.

Ad avviso degli Ermellini, infatti, poiché “…alla pluralità di modelli familiari consegue una molteplicità di situazioni personali conseguenti allo scioglimento del vincolo…”, solamente l’utilizzo del criterio composito soprarichiamato “…ha l’elasticità necessaria per adeguarsi alle fattispecie concrete perché, a differenza di quelli che si sono in precedenza esaminati, non ha quelle caratteristiche di generalità ed astrattezza variamente criticate in dottrina”.

L’accertamento della debenza e la sua quantificazione nel giudizio di merito.

Ai fini della determinazione della debenza o meno dell’assegno di mantenimento, come riassunto in una recente sentenza dal T.C. di Nuoro sulla scorta di quanto affermato dalle Sezioni Unite, il giudice di merito dovrà, pertanto:

  • preliminarmente accertare l’esistenza di “…una rilevante disparità tra le rispettive situazioni economico-patrimoniali degli ex coniugi”;
  • successivamente dovrà accertare “…se questa disparità sia stata causata da scelte condivise in ordine alla gestione del ménage familiare e ai rispettivi ruoli all’interno della famiglia” (con relativo onere probatorio posto a carico del richiedente);
  • dovrà poi verificare “…se il coniuge economicamente più debole non abbia la effettiva e concreta possibilità di superare (o quanto meno ridurre) il divario esistente, sotto il profilo delle concrete, effettive ed attuali possibilità di trovare un lavoro o di ottenere una più remunerativa occupazione, in considerazione della sua età, delle pregresse esperienze professionali, delle condizioni del mercato del lavoro e così via”.

Ai fini della successiva determinazione dell’entità dell’assegno, questa “non dovrà essere liquidata in misura corrispondente alla somma di denaro necessaria a mantenere (sia pur in via solo tendenziale) il pregresso tenore di vita, bensì in misura adeguata a colmare il divario avendo riguardo “al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell’età del richiedente” .

Analisi delle prime pronunce dei Tribunali italiani

Nel corso dei mesi successivi al deposito della sentenza n°18287 del 11 luglio 2018, si sono registrate le prime pronunce con cui alcuni tribunali italiani hanno riconosciuto e/o negato ai richiedenti il diritto all’assegno divorzile sulla scorta del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite e dei criteri individuati dalla Suprema Corte, dando particolare rilevanza:

  • all’esistenza di un’effettiva disparità economica;
  • alla sua eventuale riconducibilità a scelte condivise in costanza di matrimonio;
  • alla stessa durata del matrimonio;
  • all’età e alle potenzialità lavorative del richiedente.

1) Tribunale civile di Verona, sentenza n°1764/2018, pubblicata il 20 luglio 2018.

Il Tribunale civile di Verona è stato tra i primi ad applicare a un procedimento di divorzio, pendente dal 2015, i principi elaborati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, negando l’assegno divorzile alla richiedente sulla scorta:

  • della breve durata dell’effettiva convivenza coniugale, essendosi i coniugi sposati nel 2004 e addivenuti a separazione personale nel 2008;
  • dell’indipendenza economica di ambedue i coniugi, come dagli stessi dichiarato in sede di separazione e confermato dalla documentazione reddituale depositati nel giudizio di divorzio;
  • della mancata incidenza del matrimonio sulla capacità reddituale della richiedente, rimasta inalterata;
  • del mancato contributo della moglie alla realizzazione professionale del marito, alla luce anche dell’età a cui le parti erano convolate a nozze (già ultra quarantenni) e della breve durata del matrimonio.

2) Tribunale civile di Roma, sentenza n°16394/2018, pubblicata l’8 agosto 2018.

Il Tribunale di Roma è stato tra i primi a negare il diritto all’assegno divorzile all’ex moglie richiedente in considerazione:

  1. della capacità ed abilità al lavoro della moglie, la quale:
    1. non era “…titolare di alcun assegno di mantenimento in forza delle condizioni della separazione consensuale sottoscritta dalle parti”;
  2. era “…titolare sia di trattamento pensionistico che di redditi da lavoro dipendente per complessivi euro 1900,00”;
  3. era proprietaria del 50% della casa familiare, a lei assegnata, per la quale non sosteneva “…alcun onere (rata di mutuo o canone locatizio)”;
  1. delle voci di spesa incidenti negativamente sulla maggiore capacità reddituale dell’ex marito, il quale, “…sebbene titolare di un reddito più elevato, oltre a non utilizzare l’immobile adibito a casa coniugale, è tenuto alla corresponsione di una rata mensile pari a circa euro 850,00 per il pagamento del mutuo contratto per la casa di abitazione”;
  2. della non riconducibilità eziologica della disparità economico-patrimonialea determinazioni e scelte comuni e condivise che hanno condotto la [omissis] ad esplicare il suo ruolo solo o prevalentemente nell’ambito familiare”, in quanto la richiedente non aveva dedotto né comprovato che la scelta, in costanza di matrimonio, di lavorare part-time “…le abbia pregiudicato gli sviluppi di carriera”.

3) Tribunale civile di Trieste, sentenza n°525/2018 pubblicata il 21 agosto 2018.

Il Tribunale di Trieste, pronunciandosi su una richiesta di assegno divorzile, chiarisce preliminarmente come:

  • …l’obiettivo dell’assegno divorzile non è già la conservazione tendenziale del tenore di vita pregresso (riferimento specifico in sede di separazione, vista l’immanenza del vincolo di solidarietà coniugale), bensì la necessità di assicurare l’autosufficienza ovvero l’autonomia economica del coniuge più debole…”.
  • in situazioni caratterizzate da una sensibile disparità tra le condizioni economico patrimoniali riferibili a ciascuno dei coniugi, ancorché non necessariamente tale da sfociare nella constatazione di una radicale mancanza di autosufficienza economica, occorre non solo in funzione assistenziale-alimentare ma anche in chiave perequativa, stabilire se tale dislivello reddituale abbia o no la sua radice causale nelle comuni determinazioni assunte dalle parti nella conduzione della vita familiare: insomma, l’eventuale incidenza della vita matrimoniale sulla situazione attuale”.

Alla luce dei chiarimenti sopra esposti e in applicazione del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, i giudici triestini negano all’ex moglie l’assegno divorzile in quanto:

  1. “…non sembra esserci un divario sensibile tra le condizioni economico patrimoniali riferibili a ciascuno degli ex coniugi”, poiché:
  • il maggiore reddito dell’ex marito era notevolmente ridotto dagli obblighi di pagamento delle rate di mutuo dell’ex casa familiare nonché dal mantenimento per il figlio;
  • l’ex moglie, oltre a godere di redditi di tutto rispetto, poteva senza dubbio aumentarli mettendo a frutto il suo maggiore tempo libero e le proprie esperienze professionali;
  1. b) manca alcun riferimento significativo “…ad una qualche scelta adottata dopo il matrimonio, che abbia potuto incidere negativamente su eventuali aspettative di progressione in carriera della [omissis]”, così come che “…abbia consumato un ruolo esclusivamente o prevalentemente all’interno della famiglia”.

 

4) Tribunale civile di Nuoro, sentenza del 23 ottobre 2018.

Da ultimo, il Tribunale civile di Nuoro, nella recente pronuncia in oggetto, riconosce invece il diritto all’assegno divorzile all’ex moglie in considerazione:

  • del chiaro divario economico esistente tra gli ex coniugi;
  • della prova offerta dalla richiedente “…di aver significativamente contribuito alla formazione del patrimonio personale del marito, si provvedendo al pagamento (quanto meno in parte) del mutuo contratto per la edificazione della casa familiare tramite le proprie risorse personali…”;
  • della durata ventennale del matrimonio sino alla separazione (e di 29 anni al momento della pronuncia della sentenza di divorzio);
  • della mancanza di mezzi adeguati della richiedente, alla luce del suo modesto reddito da lavoro (circa 997 euro al mese), della circostanza che non fosse proprietaria di beni immobili e, non da ultimo, della circostanza che, non essendo i figli oramai maggiorenni, economicamente sufficienti e non più conviventi con la madre, la stessa “perdendo la disponibilità della casa familiare sinora a lei assegnata ma di proprietà del marito, inoltre, essa sarà costretta a sostenere ulteriori oneri per reperire un immobile da condurre in locazione”.

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[:it]downloadCon una recente pronuncia, datata 28 settembre 2018, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, hanno ritenuto valida la notificazione eseguita all’indirizzo pec di un collega, risultante dall’Albo professionale di iscrizione, ancorché priva dell’inciso “notificazione ai sensi della legge n. 53 del 1994” nonché dell’indicazione del codice fiscale della parte nel cui interesse era stato notificato il provvedimento giudiziario.

La vicenda in esame

Un’Azienda Sanitaria Provinciale proponeva vittoriosamente opposizione avverso un decreto ingiuntivo con cui il Tribunale di Messina l’aveva condannata al pagamento di una cospicua somma di denaro per delle prestazioni di natura riabilitativa eseguite dalla creditrice, sulla scorta della dedotta operatività per tali prestazioni del sistema della c.d. regressione tariffaria. Detta decisione veniva tuttavia ribaltata in sede di Appello dal giudice di seconde cure, che riconoscendo l’esistenza del credito, confermava l’opposto decreto ingiuntivo. La sentenza della Corte d’Appello veniva notificata all’indirizzo pec del difensore in data 26 giugno 2015.

Il ricorso per Cassazione e l’eccezione di inammissibilità

Avverso detta pronuncia ricorreva per Cassazione l’Azienda Sanitaria Provinciale, “…con procedimento di notificazione del ricorso avviato il 14 marzo 2016”.

La controricorrente costituendosi, eccepiva l’inammissibilità del predetto ricorso, in quanto depositato – in palese violazione del termine di 60 giorni indicato nell’art. 352, co. 2, c.p.c. – a distanza di diversi mesi dalla notificazione della sentenza al procuratore costituito.

I difensori del ricorrente, al fine di impedire la decorrenza del termine “breve” di cui all’art. 352. co. II^ c.p.c., deducevano a loro volta la nullità della predetta notificazione in quanto:

  • l’indicazione dell’elenco da cui era stato tratto l’indirizzo di posta elettronica certificata del procuratore della parte, vale a dire l’Albo degli Avvocati del Foro di Messina, non corrisponderebbe ai “pubblici elenchi” previsti dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221, art. 4 e art. 16, comma 12, di conversione del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179”;
  • la notifica sarebbe viziata dall’omessa indicazione del codice fiscale della parte nonché dall’omessa indicazione della dizione “notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994“.

La validità della notificazione eseguita all’indirizzo di posta elettronica certificata comunicata dall’avvocato al proprio albo di appartenenza.

Di diverso avviso, tuttavia, sono le Sezioni Unite, ritenendo pienamente valida ed efficace la notificazione eseguita all’indirizzo pec risultante dall’albo professionale, sulla stregua della seguente condivisibile motivazione:

  • il D.L. n. 179 del 2012, all’art. 16 sexies, introdotto dal D.L. 24 giugno 2014, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, e rubricato “Domicilio digitale“, espressamente prevede che: “Salvo quanto previsto dall’art. 366 c.p.c., quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui al D.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis, nonché dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal ministero della giustizia”.
  • da un’interpretazione letterale della sopracitata norma, emerge con chiarezza che la stessa “…imponendo alle parti la notificazione dei propri atti presso l’indirizzo p.e.c. risultante dagli elenchi INI PEC di cui al D.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis, ovvero presso il ReGIndE, di cui al D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, gestito dal Ministero della giustizia, certamente implica un riferimento all’indirizzo di posta elettronica risultante dagli albi professionali, atteso che, in virtù della prescrizione contenuta nel citato D.lgs. n. 82 del 2005, art. 6 bis, commi 2 bis e 5, al difensore fa capo l’obbligo di comunicare il proprio indirizzo all’ordine di appartenenza e a quest’ultimo è tenuto a inserirlo sia nel registro INI PEC, che nel ReGIndE”;
  • detta interpretazione risulta corroborata da quanto espressamente previsto dall’art. 5 della L. n°53/1994: “… l’atto deve essere trasmesso a mezzo posta elettronica certificata all’indirizzo di posta elettronica certificata che il destinatario ha comunicato al proprio ordine, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici”.

L’irrilevanza dei vizi di natura procedimentale qualora non comportino un pregiudizio per la decisione

 

Ad avviso della Suprema Corte non meritano parimenti apprezzamento le ulteriori censure operate dalla ricorrente, relative all’omessa indicazione del codice fiscale e della dizione “notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994”.

Richiamando un proprio recente orientamento (Cass., Sez. U, 18 aprile 2016, n. 7665) gli Ermellini hanno chiarito, infatti, come in tema di notificazione in via telematica, vada privilegiato il raggiungimento dello “scopo della notifica, vale a dire la produzione del risultato della conoscenza dell’atto notificato a mezzo di posta elettronica certificata”, con conseguente l’irrilevanza dei vizi di mera natura procedimentale che non comportino “…una lesione del diritto di difesa, oppure altro pregiudizio per la decisione”.

E tali debbono considerarsi:

  • sia “la mancata indicazione nell’oggetto del messaggio di p.e.c. della dizione “notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994” costituente una “mera irregolarità, essendo comunque raggiunto lo scopo della notificazione, avendola il destinatario ricevuta ed avendo mostrato di averne ben compreso il contenuto” (sul punto vedasi anche Cass., 4 ottobre 2016, n. 19814);

sia “…l’omessa indicazione del codice fiscale (…) dovendosi per altro osservare che il principio desumibile dall’art. 156 c.p.c., comma 3, risulta recepito nella stessa L. n. 53 del 1994, che all’art. 11 prevede che la nullità delle notificazioni telematiche incorre qualora siano violate le relative norme (contenute negli articoli precedenti) “e, comunque, se vi è incertezza sulla persona cui è stata consegnata la copia dell’atto o sulla data della n[:]

[:it]downloadLa Suprema Corte di Cassazione, SS.UU., con ordinanza 5 giugno 2017, n. 13912, si è pronunciata sul ricorso ex art. 41 c.p.c. presentato dalla resistente in un ricorso per la modifica della condizioni di separazione.

In particolare, l’ex moglie, costituitasi in giudizio aveva eccepito il difetto di giurisdizione del giudice italiano, essendosi la stessa trasferita negli USA da oltre due anni unitamente alla figlia.

Con decreto del 28 ottobre 2015, tuttavia, il presidente del Tribunale adito non aveva condiviso l’eccezione della resistente “perché il provvedimento di modifica delle condizioni della separazione aveva natura “integrativa” di quello di separazione, in relazione al quale la signora (OMISSIS) aveva accettato la giurisdizione del giudice italiano” disponendo pertanto la comparizione personale delle parti.

Di qui la presentazione da parte dell’ex moglie di un ricorso ex art 41 c.p.c. alla Suprema Corte:

  1. deducendo la violazione dell’art. 12 del regolamento UE n°2201/2003 (c.d. Regolamento “Bruxelles II bis, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000), in quanto “l’accettazione della giurisdizione del giudice italiano nel procedimento di separazione sarebbe stato erroneamente riferito – nel corso dello stesso – anche al successivo procedimento di revisione, laddove la norma teste’ richiamata, al n. 2, lettera b), prevede che “la competenza esercitata ai sensi del paragrafo 1 (domande di divorzio, separazione personale dei coniugi o annullamento del matrimonio”), cessa non appena la decisione che accoglie o respinge la domanda di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio sia passata in giudicato”;
  2. deducendo l’omesso esame del trasferimento de facto della residenza abituale del marito nel luogo in cui lo stesso esercitava la propria attività commerciale;
  3. censurando l’interpretazione e la legittimità dell’ 37 della l. n°218/1995, attributiva della competenza giurisdizionale italiana “…anche quando uno dei genitori o il figlio è cittadino italiano o risiede in Italia”, nella parte in cui non riconosce primazia alla residenza abituale del minore, criterio consacrato nei regolamenti internazionalprivatistici dell’Unione europea e in varie convenzioni internazionali.

La Corte, investita della questione, preliminarmente afferma:

  • la ricevibilità del ricorso ex art. 41 c.p.c. in quanto “ … la mera delibazione, in via incidentale, in ordine al tema della giurisdizione, contenuta in un provvedimento che, come chiaramente si desume anche dalla parte dispositiva, ha carattere meramente istruttorio ed è quindi privo di natura decisoria – essendo per altro nella specie ogni pronuncia riservata al collegio e non al presidente del tribunale – non può ritenersi preclusiva della proposizione del ricorso per regolamento di giurisdizione”(sul punto Cass., Sez. U, 20 febbraio 2013, n. 4218; Cass., Sez. U., 27 novembre 2011, n. 22382).
  • l’irrilevanza dei provvedimenti assunti nel giudizio a quo successivamente alla proposizione dell’istanza di regolamento preventivo di giurisdizione, da ritenersi condizionati alla conferma del potere giurisdizionale dell’autorità che li ha pronunciati.

Entrando nel merito, poi, gli Ermellini:

  • ribadiscono l’autonomia esistente tra il giudizio di separazione e il giudizio volto alla modifica delle condizioni ivi determinate;
  • negano conseguentemente che l’accettazione della giurisdizione italiana da parte della ricorrente nel giudizio di separazione personale possa riverberare “…la sua efficacia anche nel giudizio di revisione”;
  • affermano che “…il criterio di attribuzione della giurisdizione fondato sulla c.d. vicinanza, dettato nell’interesse superiore del minore (Corte giustizia, 5 ottobre 2010, in causa 296/10), assume una pregnanza tale da comportare anche l’esclusione della validità del consenso del genitore alla proroga della giurisdizione” (Cass., Sez. U, 30 dicembre 2011, n. 30646);
  • affermano che, poiché la richiesta di revisione da parte dell’ex marito verteva unicamente sull’affidamento allo stesso della minore, avente doppia cittadinanza italiana e statunitense, detta doppia cittadinanza rende applicabile il principio, già affermato dalle SS.UU. con sentenza del 9 gennaio 2001, n°1, secondo cui “…ai fini del riparto della giurisdizione e della individuazione della legge applicabile, i provvedimenti in materia di minori devono essere valutati in relazione alla funzione svolta; pertanto quelli che, pur incidendo sulla potestà dei genitori, perseguono una finalità di protezione del minore, rientrano nel campo di applicazione della L. 31 maggio 1995, n. 218, articolo 42, il quale rinvia alla Convenzione de L’Aja del 5 ottobre 1961. Invero nel caso di minore con doppia cittadinanza non può applicarsi l’articolo 4 della Convenzione, che stabilisce la prevalenza delle misure adottate dal giudice dello Stato di cui il minore è cittadino su quelle adottate nel luogo di residenza abituale”.

Alla luce dei suddetti principi, la Corte conclude affermando il difetto di giurisdizione del giudice italiano in favore del giudice della residenza abituale della minore in quanto:

  • “…sotto il profilo oggettivo, del richiamo della citata L. n. 218 del 1995, articolo 42 all’articolo 1 della richiamata Convenzione dell’Aja, anche con riferimento alle misure relative ai figli minori che vengono adottate in sede di separazione personale o di divorzio dei genitori, trova giustificazione nella circostanza che l’Italia non si è avvalsa della facoltà, prevista dall’articolo 15 della Convenzione stessa, di creare una competenza speciale per le misure attinenti ai minori”.
  • “…il parametro della residenza abituale, posto a salvaguardia della continuità affettivo relazionale del minore, non è in contrasto ma, al contrario, valorizza la preminenza dell’interesse del minore” (Cass. SS.UU, 19 gennaio 2017, n°1310 e Cass., 22 luglio 2014, n°16648).

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[:it]downloadLa Suprema Corte è recentemente tornata sull’annosa questione dell’ammissibilità di un ricorso introduttivo notificato tramite un servizio di posta privato.

La vicenda trae origine dal ricorso per cassazione presentato da un avvocato avverso la pronuncia con cui la Commissione Tributaria Regionale della Campania aveva confermato la pronuncia con cui il CTP di Napoli aveva dichiarato inammissibile il suo ricorso in quanto notificato non a mezzo Poste Italiane bensì a mezzo di un suo competitor privato.

La Suprema Corte, tuttavia, conferma la pronuncia resa in primo grado e confermata dalla CTR Campania sulla scorta delle seguenti condivisibili argomentazioni:

  • antecedentemente all’entrata in vigore della legge 4 agosto 2017 n°124, il D.lgs. n°261/99, pur liberalizzando il settore dei servizi postali, ha stabilito che “…per esigenze di ordine pubblico, sono affidati in via esclusiva al fornitore del servizio universale, (cioè Poste Italiane S.p.A.) i servizi inerenti le notificazioni a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con le notificazioni di atti giudiziari di cui alla L. 20.11.1982 n. 890 e successive modificazioni”… tra cui rientrano anche le notificazioni a mezzo posta degli atti tributari sostanziali e processuali;
  • la legge 4 agosto 2017 n°124, all’art. 1, comma 57, lett. b), disponendo l’abrogazione della citata norma, ha soppresso l’attribuzione in esclusiva alle Poste Italiane di tali servizi ma esclusivamente a decorrere dal 10 settembre 2017;
  • a ciò consegue l’inesistenza della notificazione del ricorso di primo grado eseguita anteriormente a tale data a mezzo posta privata, con conseguente insanabilità dello stesso mediante la costituzione in giudizio delle controparti (come chiarito dalle SS.UU. con le sentenze nn°13452 e 13453 del 29 maggio 2017).

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[:it]downloadLe Sezioni Unite – con sentenza n°22253 del 25 settembre 2017, pubblicata il 1° novembre 2017 – sono tornate in questi giorni a pronunciarsi sui limiti entro i quali la testimonianza dell’avvocato avverso il proprio cliente debba considerarsi pienamente legittima e conforme ai doveri deontologici del difensore.

La vicenda vede come protagonista un collega meneghino il quale, dopo aver difeso in un procedimento per possesso di stupefacenti una cliente, sig.ra C.B., instaura con quest’ultima un rapporto di amicizia. Conclusosi il mandato, tuttavia, l’ex cliente maturando una forte gelosia nei confronti della nuova collega di studio di quest’ultimo, avv. A.S., iniziava ad ossessionarla mediante continue telefonate. L’avv. A.S. decideva pertanto di querelare la sig.ra B. citando come testimone il collega, il quale riferiva che la sig.ra C.B. “…era affetta da ‘una sorta di compulsività maniacale’ e da ‘mania di persecuzione’, che aveva in passato oltraggiato un agente di custodia e che, infine, aveva gravemente e reiteratamente insultato il predetto avvocato A.S.”.

Il Consiglio dell’Ordine di appartenenza, con deliberazione del 1° luglio 2013, decideva di sospendere il collega dall’esercizio della professione per mesi due, addebitandogli di “Essere venuto meno ai doveri di lealtà per avere reso testimonianza, su fatti appresi nell’esecuzione del mandato, contro la ex cliente sig.ra C.B., in un procedimento penale…”. Detta decisione veniva confermata dal Consiglio Nazionale Forense con sentenza del 31 dicembre 2016.

Di diverso avviso si sono rivelate tuttavia le Sezioni Unite della Suprema Corte che, in accoglimento del ricorso dell’avvocato meneghino, cassa la sentenza in quanto affetta dal vizio di falsa applicazione della norme,  annullando la sanzione inflitta dal C.O.A. di Milano, sulla scorta delle seguenti condivisibili argomentazioni:

  • l’art. 58 del Codice Deontologico vigente ratione temporis statuisce che: “Per quanto possibile, l’avvocato deve astenersi dal deporre come testimone su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e inerenti al mandato ricevuto. L’avvocato non deve mai impegnare di fronte al giudice la propria parola sulla verità dei fatti esposti in giudizio. Qualora l’avvocato intenda presentarsi come testimone dovrà rinunciare al mandato e non potrà riassumerlo”;
  • detta norma deve essere letta alla luce delle disposizioni del codice di procedure penale in punto di testimonianza, ed in particolare dell’art. 200 c.p.p., ai sensi del quale è coperto dal segreto professionale esclusivamente quanto appreso dall’avvocato “…nell’esercizio della propria attività professionale e inerenti al mandato ricevuto”;
  • nel caso di specie, invece, la Suprema Corte ha ritenuto che la testimonianza resa dal collega non abbia integrato la violazione dell’art. 58 C.D.F. in quanto: a) esulante da fatti e circostanze apprese nel corso del mandato difensivo; b) si è trattato non di fatti o circostanze empiriche bensì di “…opinioni ed apprezzamenti circa la personalità dell’imputata, per nulla collegati al rapporto di mandato difensivo intercorso tra i due”; c) la sentenza del C.N.F., da ultimo, non ha escluso che detti apprezzamenti siano stati maturati, dopo la cessazione del mandato difensivo, nel successivo rapporto di amicizia e frequentazione instauratosi tra i due.

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[:it]downloadLe Sezioni Unite ritornano sull’annosa questione della (in)validità del contratto di locazione immobiliare di cui sia stata omessa la registrazione.

Il primo grado di giudizio

La vicenda trae origine dall’intimazione di sfratto per morosità, con contestuale citazione per la convalida, notificato dalla proprietaria di due immobili concessi in locazione ad uso commerciale ad una società con contratto del 20 ottobre 2008, registrato in data 4 novembre 2008, nel quale le parti avevano convenuto la sua efficacia retroattiva al 1° maggio dello stesso anno. La locatrice lamentava altresì il ritardato pagamento di due canoni nonché il mancato pagamento del maggior prezzo convenuto inter partes con un c.d. “atto integrativo” del contratto di locazione, registrato in data 22 gennaio 2009, in cui venivano indicati due diversi canoni, entrambi superiori a quelli risultanti nel contratto registrato:

  • un primo, pari ad € 5.500,00, definito “reale ed effettivo”, “…che avrebbe dovuto trovare applicazione nel caso che una o entrambe le parti avessero proceduto alla registrazione dell’accordo integrativo”;
  • il secondo, ridotto rispetto al primo ma maggiorato rispetto al prezzo indicato nel contratto registrato, “…sarebbe stato corrisposto dal conduttore nell’ipotesi di omessa registrazione del medesimo accordo…”.

Si costituiva in giudizio la conduttrice contestando la validità dell’accordo integrativo per violazione dell’art. 79, L. n°392/1978, oltre che tardivamente registrato.

Il giudice di primo grado, rigettata l’istanza ex art. 655 c.p.c., dopo aver disposto il mutamento del rito, statuiva che:

  • era esclusa l’inefficacia del contratto per intempestiva registrazione;
  • era da considerarsi nulla la pattuizione aggiuntiva “…in quanto contenente la illegittima previsione di un aumento automatico del canone…”;
  • a seguito dell ritardo del pagamento di due canoni, espressamente previsto contrattualmente quale causa di risoluzione, dichiarava risolto il contratto di locazione

Il giudizio dinnanzi alla Corte d’Appello

La conduttrice, impugnava detta sentenza:

  • rilevando che il ritardo nei pagamenti dei due canoni era ascrivibile all’istituto bancario, in quanto la stessa avrebbe tempestivamente disposto i bonifici, i quali, tuttavia, sarebbero stati accreditati dall’istituto oltre il termine contrattualmente previsto, invocando pertanto l’operatività dei principi di correttezza e buona fede;
  • chiedendo la riforma dell’impugnata sentenza, “…previa conferma della validità del (solo) contratto di locazione stipulato il 20 ottobre 2008”.

La Corte d’appello, investita della questione:

  • riteneva, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante e dal Tribunale, che “…la previsione contrattuale aggiuntiva di cui all’art. 2 del patto integrativo – registrato prima dell’introduzione del giudizio e ritenuto efficace dal primo Giudice con motivazione espressa e non censurata – valeva a configurarsi alla stregua di controdichiarazione attestante la simulazione relativa del prezzo, posta in essere per intuibili scopi di elusione fiscale”;
  • osservava che non era configurabile un illecito aumento dei canoni, nullo ex art. 79 L. n°392/78, “…in quanto il complesso regolamento delle rispettive posizioni patrimoniali operato dalle parti conduce(va) a ritenere di essere dinanzi ad un canone di locazione fissato sin da subito in € 5500 mensili: ne fa(ceva) fede il fatto che il contratto sottoscritto il 20 ottobre 2008 facesse retroagire i suoi effetti al primo maggio dello stesso anno, con la previsione di uno sconto in ragione della mancata registrazione dell’effettivo importo contrattuale”;
  • affermava essersi in presenza di “…un contratto sottoposto a condizione sospensiva – pienamente lecita ed anzi imposta – afferente alla misura del canone e legata alla registrazione del contratto reale”;
  • confermava pertanto la risoluzione per inadempimento del contratto di locazione;
  • condannava la società al pagamento delle differenze dovute tra canone corrisposto e quello effettivamente dovuto, pari ad € 5.500,00, in forza della scrittura integrativa.

Il ricorso per cassazione

La conduttrice, non si rassegnava, ricorrendo fino in cassazione. Depositava altresì controricorso la locatrice.

La Corte, investita della questione, si sofferma in particolare sugli effetti di un tardivo adempimento all’obbligo di registrazione del contratto di locazione, alla luce dei recenti interventi normativi.

Le riforme legislative e le interpretazioni giurisprudenziali con riferimento alle locazioni ad uso abitativo

In particolare, la Corte ripercorre nel dettaglio le numerose riforme legislative susseguitesi negli anni soffermandosi preliminarmente su quelle che hanno avuto ad oggetto le locazioni ad uso abitativo:

  • l’art. 13, co. 1, L. 431/98, ai sensi del quale “…è nulla ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione di immobili urbani superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato”;
  • l’art. 1, co. 346, L. 311/2004, ai sensi del quale “…i contratti di locazione, o che comunque costituiscono diritti relativi di godimento, di unità immobiliari ovvero di loro porzioni, comunque stipulati, sono nulli se, ricorrendone i presupposti, essi non sono registrati”;
  • l’art. 3, commi 8 e 9 del d.lgs. 23/2011, il quale, ancorché non più vigente in quanto dichiarato incostituzionale per eccesso di delega, prevedeva “…un particolare regime in caso di omessa o tardiva registrazione del contratto di locazione, nonché in caso di registrazione di un contratto di comodato fittizio e di una locazione recante un canone inferiore rispetto a quello realmente pattuito: la durata del rapporto avrebbe dovuto essere legalmente rideterminata in quattro anni rinnovabili decorrenti dal momento della registrazione tardiva e il canone annuale veniva predeterminato nella misura del triplo della rendita catastale dell’immobile, ove inferiore a quella pattuita…”;
  • l’art. 1, comma 59, L. 208 del 28 dicembre 2015, il quale, recependo il contenuto del d.lgs. 23/2011, ha novellato l’art. 13 della l. 431/98, introducendo le seguenti significative modifiche: – al comma 5, “…il meccanismo di sanzione della mancata registrazione del contratto di locazione mediante la determinazione autoritativa del canone imposto, di cui all’art. 3, comma 8, d.lgs. 23 del 2011…”, nonché la previsione del “…l’obbligo unilaterale in capo al locatore di provvedere alla registrazione del contratto di locazione entro il ‘termine perentorio di trenta giorni’ (comma 1, secondo periodo) stabilendo che, in caso di inottemperanza a tale obbligo, il conduttore possa chiedere al giudice di accertare la esistenza del contratto e rideterminarne il canone in misura non superiore al valore minimo di cui al precedente art. 2”.

Una volta chiarita l’esistenza della “sanzione testuale della nullità conseguente alla omessa registrazione…”, la Corte si interroga sulla sanabilità (o meno) del negozio attraverso la tardiva registrazione, alla luce dell’art. 1423 c.c., che dispone che “…il contratto nullo non può essere convalidato, se la legge non dispone diversamente”.

La Corte, dopo aver ripercorso la giurisprudenza costituzionale e di legittimità, confermando l’orientamento di cui alla sentenza n°18213/2015 delle stesse SS.UU. in punto di locazioni ad uso abitativo, affermano:

  • che “…la nullità prevista dall’art. 13, comma 1, della l. n. 431 del 1998 sanziona esclusivamente il patto occulto di maggiorazione del canone, oggetto di un procedimento simulatorio, mentre resta valido il contratto registrato e dovuto il canone apparente”;
  • tale patto occulto “…in quanto nullo, non è sanato dalla registrazione tardiva, vicenda extranegoziale inidonea ad influire sulla testuale (in)validità civilistica…”;
  • non la mancata registrazione dell’atto recante il prezzo reale …, ma la illegittima sostituzione di un prezzo con un altro, espressamente sanzionata di nullità, è colpita dalla previsione legislativa, secondo un meccanismo del tutto speculare a quello previsto per l’inserzione automatica di clausole in sostituzione di quelle nulle: nel caso di specie, l’effetto diacronico della sostituzione è impedito dalla disposizione normativa, sì che sarà proprio la clausola successivamente inserita in via interpretativa attraverso la controdichiarazione ad essere affetta da nullità ex lege, con conseguente, perdurante validità di quella sostituenda (il canone apparente) e dell’intero contratto”;
  • Detta invalidità negoziale assume i connotati della nullità virtuale “…attesa che la causa concreta del patto occulto, ricostruita alla luce del precedente procedimento simulatorio, illecita perché caratterizzata dalla vietata finalità di elusione fiscale e, quindi, insuscettibile di sanatoria…”.

L’applicabilità dei suddetti principi anche alle locazioni non abitative

La Suprema Corte afferma la piena applicabilità dei suddetti principi anche alle locazioni non abitative, e ciò nonostante manchi per le locazioni non abitative “…una norma espressa che sancisca la nullità testuale del patto di maggiorazione del canone, come invece espressamente previsto dall’art. 13 della legge 492/1998”:

  • alla luce della chiara lettera della disposizione normativa, che “…non solo ha reiterato la qualificazione del vizio in quegli stessi termini di nullità già utilizzati dall’art. 13 L. n. 431 del 1998 con riferimento alle sole locazioni ad uso abitativo, ma ne ha anche ampliato l’incidenza, estendendola a tutti i contratti di locazione, e altresì riferendola all’intero contratto e non soltanto al patto occulto di maggiorazione del canone”;
  • alla luce del dictum della Corte costituzionale, a mente del quale “…a mente del quale l’art. 1, comma 346 eleva la norma tributaria al rango di norma imperativa, la violazione della quale determina la nullità del negozio ai sensi dell’art. 1418 c.c.

Ad avviso della Suprema Corte:

  1. si è in presenza di una nullità riguardante “…l’intero contratto(e non per il solo patto controdichiarativo), in conseguenza non già di un vizio endonegoziale, ma (della mancanza) di un requisito extraformale costituito dall’omissione della registrazione del contratto…”;
  2. il contratto di locazione ad uso non abitativo (non diversamente, peraltro, da quello abitativo), contenente ab origine la previsione di un canone realmente convenuto e realmente corrisposto (e dunque, in assenza di qualsivoglia fenomeno simulatorio), ove non registrato nei termini di legge, è nullo ai sensi dell’art. 1, comma 346, I. n. 311 del 2004, ma, in caso di sua tardiva registrazione, da ritenersi consentita in base alle norme tributarie, sanabile, volta che il riconoscimento di una sanatoria “per adempimento” appare coerente con l’introduzione nell’ordinamento di una nullità (funzionale) “per inadempimento” (entrambi i termini da intendersi, come ovvio, in senso diverso da quello tradizionalmente riservato al momento esecutivo del rapporto negoziale);
  3. detto effetto sanante “…è destinato a retroagire alla data della conclusione del contratto”.

La Corte, da ultimo, si interroga sull’applicabilità dei suddetti principi al caso di specie, “…e cioè all’ipotesi in cui la fattispecie concreta sia costituita da un accordo simulatorio cui consegua non già la tardiva registrazione dell’intero contratto che preveda, ab origine, la corresponsione del canone reale, ma quella del solo patto dissimulato (raccordo integrativo” del caso di specie) volto ad occultare un canone maggiore, dopo che il contratto contenente il canone simulato sia stato a sua volta e previamente registrato, sulla premessa per cui la sanatoria da tardiva registrazione elimina soltanto la nullità (testuale) sopravvenuta, lasciando impregiudicata la sorte del contratto qual era fino alla violazione dell’obbligo di registrazione (inidonea a spiegare efficacia sanante su di una eventuale nullità da vizio genetico)”.

Ad avviso della giudici transtiberini, infatti, si devono distinguere due ipotesi:

  • quella della “totale omissione della registrazione del contratto contenente ab origine l’indicazione del canone realmente dovuto (in assenza, pertanto, di qualsivoglia procedimento simulatorio)…”;
  • quella “…di simulazione del canone con registrazione del solo contratto simulato recante un canone inferiore, cui acceda il cd. “accordo integrativo” con canone maggiorato (ipotesi alla quale potrebbe ancora aggiungersi quella della mancata registrazione dello stesso contratto contenente il canone simulato, oltre che del detto accordo integrativo)”.

A ciò consegue che nell’ipotesi sub 1), di contratto in toto non registrato, è lo stesso legislatore a ricollegare la sanzione dell’invalidità al comportamento illecito del locatore, consistente nella mancata registrazione del contratto;

L’ipotesi sub 2), “…di un contratto debitamente registrato, contenente un’indicazione simulata di prezzo, cui acceda una pattuizione a latere (di regola denominata “accordo integrativo”, come nel caso di specie), non registrata e destinata a sostituire la previsione negoziale del canone simulato con quella di un canone maggiore rispetto a quello formalmente risultante dal contratto registrato…”, invece:

  • dovrà invece essere ricondotta all’istituto della simulazione, conformemente a quanto affermato dalle SS.UU. del 2015 con riferimento alle locazioni ad uso abitativo;
  • “…lafattispecie della simulazione (relativa) del canone locatizio risulta affetta da un vizio genetico, attinente alla sua causa concreta, inequivocabilmente volta a perseguire lo scopo pratico di eludere (seppure parzialmente) la norma tributaria sull’obbligo di registrazione dei contratti di locazione”;
  • a seguito dell’elevazione della norma tributaria a norma imperativa, pertanto, la convenzione negoziale deve essere ritenuta “…intrinsecamente nulla, oltre che per essere stato violato parzialmente nel quantum l’obbligo di (integrale) registrazione, anche perché ab origine caratterizzata da una causa illecita per contrarietà a norma imperativa (ex art. 1418, comma 1, c.c.), tale essendo costantemente ritenuto lo stesso articolo 53 Cost. – la cui natura di norma imperativa (come tale, direttamente precettiva) è stata, già in tempi ormai risalenti, riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 5 del 1985; Cass. ss. uu. n. 6445 del 1985)…”;
  • essendo detta nullità qualificabile come nullità virtuale a ciò consegue la sua insanabilità in quanto derivante “…non dalla mancata registrazione (situazione suscettibile di essere sanata con il tardivo adempimento), ma, a monte, dall’illiceità della causa concreta del negozio, che una tardiva registrazione non appare idonea a sanare”.

La sorte del contratto di locazione regolarmente registrato e contenente l’indicazione del canone simulato

Ciò chiarito, la Corte si interroga sulla sorte del contratto di locazione regolarmente registrato e contenente l’indicazione del canone simulato.

A riguardo la Corte preliminarmente richiama la soluzione offerta dalle SS.UU. del 2015 con riferimento ai contratti ad uso abitativo, ad avviso del quale, la sanzione della nullità prevista dall’art. 13, comma I, della legge n°431/1998 “…colpisse non la mancata registrazione dell’atto recante il prezzo reale (attesane la precipua funzione di controdichiarazione), ma la illegittima sostituzione di un prezzo con un altro, sicché “sarà proprio la clausola successivamente inserita in via interpretativa attraverso la controdichiarazione ad essere affetta da nullità ex lege, con conseguente, perdurante validità di quella sostituenda (il canone apparente) e dell’intero contratto”.

La Corte, successivamente, interpretando l’art. 79 della legge 392/1978 quale speculare all’art. 13 della legge n°431/1998, afferma che “se in caso di omessa registrazione del contratto contenente la previsione di un canone non simulato ci si trova di fronte ad una nullità testuale ex art. 1, comma 346, I. n. 311/2004, sanabile con effetti ex tunc a seguito del tardivo adempimento all’obbligo di registrazione, nel caso di simulazione relativa del canone di locazione, e di registrazione del contratto contenente la previsione di un canone inferiore per finalità di elusione fiscale, si é in presenza, quanto al cd. “accordo integrativo”, di una nullità virtuale insanabile, ma non idonea a travolgere l’intero rapporto – compreso, quindi, il contratto reso ostensibile dalle parti a seguito della sua registrazione”;

Conseguentemente, “il patto di maggiorazione del canone è nullo anche se la sua previsione attiene al momento genetico, e non soltanto funzionale, del rapporto”.

Le conclusioni della Corte

Ad avviso della Corte una tale conclusione:

  • ha l’effet util di ricondurre ad unità la disciplina della nullità e della (eventuale) sanatoria di tutti i contratti di locazione, abitativi e non;
  • giustifica una sanzione più grave (nullità insanabile) rispetto a quella prevista per l’omessa registrazione dell’intero contratto (sanabile), congrua rispetto al comportamento posto in essere nelle due ipotesi (“…vizio genetico e voluto da entrambe le parti nel primo caso, un inadempimento successivo alla stipula di un contratto geneticamente valido, nel secondo caso”).

«(A) La mancata registrazione del contratto di locazione di immobili è causa di nullità dello stesso;

 (B) Il contatto di locazione di immobili, quando sia nullo per (la sola) omessa registrazione, può comunque produrre i suoi effetti con decorrenza ex tunc, nel caso in cui la registrazione sia effettuata tardivamente;

(C) E’ nullo il patto col quale le parti di un contratto di locazione di immobili ad uso non abitativo concordino occultamente un canone superiore a quello dichiarato; tale nullità vitiatur sed non vitiat, con la conseguenza che il solo patto di maggiorazione del canone risulterà insanabilmente nullo, a prescindere dall’avvenuta registrazione[:]

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downloadCon sentenza n°22574 del 2016, la II^ sezione della Suprema Corte di Cassazione ritorna sull’annosa questione della c.d. “parcellizzazione del credito” derivante da un unico rapporto obbligatorio, distinguendo i casi in cui la stessa integri o meno un illegittimo abuso del processo.

La vicenda de quo trae origine da due ricorsi, l’uno sommario e l’altro ordinario, con cui degli avvocati avevano convenuto in giudizio la Regione Calabria al fine di ottenere il pagamento non solo del compenso fisso, convenuto con apposita convenzione del 2002, ma, altresì, dell’ulteriore compenso premiale pattuito oltre ad un compenso aggiuntivo, pari alla differenza tra quello convenuto e quello determinato dalle tariffe professionali. I ricorrenti, una volta ottenuto decreto ingiuntivo di pagamento per il solo compenso pattuito, inutilmente opposto dalla Regione Calabria, presentavano separato ricorso ordinario per gli ulteriori compensi, adducendo in particolare l’illegittimità del compenso fisso pattuito in quanto inferiore ai minimi previsti dalle tariffe professionali illo tempore vigenti.

Il Tribunale di Catanzaro, prima, e la Corte d’Appello, poi, dichiaravano improponibile, tuttavia, la suddetta domanda “…sul presupposto dell’infrazionabilità in sede processuale del credito derivante dal medesimo titolo”.

I colleghi tenacemente presentavano ricorso per cassazione eccependo la correttezza, legittimità e doverosità della scelta operata avendo gli stessi richiesto l’emissione di decreto ingiuntivo per quel compenso caratterizzato dai requisiti della certezza, liquidità ed esigibilità, ricorrendo, di contro, al rito ordinario sia per l’ulteriore compenso variabile, privo dei predetti caratteri, che per la declaratoria di nullità del compenso fisso pattuito in misura inferiore ai minimi tariffari.

La Suprema Corte, investita della questione, ripercorre preliminarmente la propria giurisprudenza, partendo da due pronunce delle Sezioni Unite, con cui le stesse avevano statuito che:

  • “…non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto della obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento, sia con il principio costituzionale del “giusto processo”, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale” (SS.UU., sentenza n°23726 del 15-11-2007).
  • in materia di obbligazioni pecuniarie nascenti da un unico rapporto di lavoro, costituisce principio generale la regola secondo la quale la singola obbligazione va adempiuta nella sua interezza e in un’unica soluzione, dovendosi escludere che la stessa possa, anche nell’eventuale fase giudiziaria, essere frazionata dal debitore o dal creditore” (SS.UU., sentenza n°26961 del 22-12-2009).

La Corte, pertanto, dà atto del generale divieto di parcellizzazione processuale del credito derivante da un’unica obbligazione, quale espressione della regola di correttezza e buona fede e del “giusto processo”, con particolare riguardo alla sua “ragionevole durata”, ritenendo, tuttavia chiarire come lo stesso non sia assoluto “…dovendo escludersi il divieto di parcellizzazione della domanda giudiziale allorquando solo per una parte dell’unico credito vi siano le condizioni richieste dalla legge per agire con lo strumento giudiziario più spedito azionato per primo”, richiamando sul punto un precedente analogo al caso di specie, in cui la stessa aveva reputato legittimo il comportamento processuale tenuto da un attore “…che, a tutela di un unico credito dovuto in forza di un unico rapporto obbligatorio, agisca con ricorso monitorio per la somma provata documentalmente e con il procedimento sommario di cognizione per la parte residua” (Cass. civ., sez. II^, sentenza n°10177 del 18-05-2015).

Sulla scorta di tale motivazione, i giudici di Piazza Cavour, cassano pertanto la sentenza impugnata, cristallizzando i seguenti principi di diritto:

1) “Si ha abuso del processo quando la parte pone in essere un atto processuale non per perseguire lo scopo proprio dell’atto, ma – sviando l’atto dalla sua causa tipica – per perseguire uno scopo diverso da quello per cui l’atto è funzionalmente previsto dalla legge, dando luogo – per questo ad una violazione dei doveri di correttezza e di buona fede, che è tenuta ad osservare”.

2) “Non incorre in abuso del processo l’attore che, a tutela di un credito dovuto in forza di un unico rapporto obbligatorio, agisca prima con ricorso monitorio per la somma provata documentalmente e poi con il procedimento ordinario di cognizione per la parte residua, dovendosi riconoscere il diritto del creditore ad una tutela accelerata mediante decreto ingiuntivo per la parte di credito liquida che sia provata con documentazione sottoscritta dal debitore”.

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