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 L’assegno di mantenimento, spiega la Cassazione, con la sentenza 27 novembre 2015 n. 24324, ha lo scopo di riallineare le condizioni di reddito dei due ex coniugi, facendo sì che anche quello meno benestante possa godere, dopo la separazione, dello stesso tenore di vita che aveva durante il matrimonio. È chiaro che se in astratto il contributo da versare nei confronti dell’ex coniuge non è elevato (perché scarse sono le effettive possibilità del soggetto obbligato e non particolarmente agiato era il tenore di vita della coppia durante il matrimonio), anche la periodica percezione di somma di poche centinaia di euro, come un canone di locazione, potrebbe essere di per sé sufficiente a riequilibrare i due redditi e, quindi, ad escludere l’assegno di mantenimento.

Conseguentemente viene negato un assegno divorzile a una donna nella seguente situazione: lui ricava 35 mila in un anno, lei, invece, 36 mila dalla liquidazione della quota di comproprietà della casa coniugale, investiti nell’acquisto di un appartamento locato a 350 euro mensili. L’entrata periodica derivante dal canone di locazione, infatti, migliora le condizioni economiche della signora riportandole su un piano paritario rispetto a quelle dell’ex marito. Inoltre la donna aveva inoltre svolto due lavori in passato rimanendo disoccupata per non essersi presentata all’ufficio di collocamento di Forlì dopo essere stata chiamata per una nuova occupazione. Così la donna aveva preferito trasferitasi a Napoli a casa della madre.

È stato quindi comparato  il tenore di vita goduto dalla ricorrente durante il matrimonio e dopo: la conclusione è stata che il divario fra i suoi redditi e quelli percepiti dal marito, ancora in attività, non fosse imputabile ad “oggettive difficoltà di reperimento di un lavoro da parte della prima, ma solo a una sua pigrizia tendenziale, allora alcun mantenimento le è dovuto”.

Di qui la conferma della sentenza della Corte d’Appello che aveva annullato la sentenza di primo grado che prevedeva in favore della signora un assegno di 300 euro mensili.

 

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La Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, con ordinanza 16 novembre 2015 n. 23406, chiarisce che la permanenza, dopo il decesso del marito, nella abitazione familiare da parte della moglie  costituisce esercizio del diritto di abitazione e di uso dei mobili che la corredano, spettante al coniuge superstite quale legatario ex lege (art.540 cod.civ.).

Quanto sopra esposto vale anche nell’ipotesi di successione legittima, indipendentemente dalla ulteriore qualità di chiamato all’eredità del soggetto.

Deve pertanto escludersi che il mero fatto di continuare ad abitare, dopo l’apertura della successione, nella casa familiare e ad utilizzare i mobili che la corredano conferisca al coniuge la qualità di possessore di beni ereditari per gli effetti previsti dall’art.485 cod. civ.

La differenza non è di poco conto.

Per legge, entro dieci anni, si deve decidere se accettare l’eredità, accettarla con beneficio di inventario o rinunciarvi.

Invece coloro che, al momento del decesso, si trovano in possesso dei beni dell’eredità stessa devono necessariamente effettuare l’inventario entro tre mesi e, chiuso l’inventario, hanno quaranta giorni per decidere se accettare o meno l’eredità o accettarla con beneficio di inventario: un termine, insomma, molto più risicato che si giustifica proprio con l’esigenza di evitare confusione di beni.

In caso di mancato rispetto di uno di tali termini, l’eredità si considera accettata puramente e semplicemente,

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La Corte di Cassazione, con ordinanza 17 dicembre 2014 n. 26636, afferma che in tema di concessione o meno del mantenimento in sede di divorzio, il giudice di merito ha libera discrezionalità nell’istruzione della causa; tuttavia, non può condurre la fase probatoria in modo carente, ignorando in toto le allegazioni di una delle parti.

Conseguentemente il giudice della separazione deve disporre le indagini sui redditi del coniuge obbligato, posseduti all’estero, quando l’altro coniuge non abbia ottenuto dalle autorità straniere l’autorizzazione in tal senso.

Nel caso in esame, la ricorrente aveva avanzato alle Autorità del Principato di Monaco, di conoscere la specifica entità delle rendite finanziarie del marito provenienti dal Principato (documentando la relativa richiesta); le Autorità monegasche avevano risposto che le informazioni potevano essere fornite dall’Ente pensionistico, purchè l’istanza provenisse da una autorità giudiziaria.

Il ricorso della moglie veniva pertanto accolto e il provvedimento impugnato cassato con rinvio.

Si noti bene

  • la valutazione sulla opportunità di indagini di Polizia Tributaria e più generalmente, la richiesta di informazioni sui redditi dell’obbligato, rientra nella discrezionalità del giudice di merito (“in tema di determinazione dell’assegno di mantenimento, l’esercizio del potere di disporre indagini patrimoniali avvalendosi della polizia tributaria, che costituisce una deroga alle regole generali sull’onere della prova, rientra nella discrezionalità del giudice di merito; l’eventuale omissione di motivazione sul diniego di esercizio del relativo potere, pertanto, non è censurabile in sede di legittimità, ove, sia pure per implicito, tale diniego sia logicamente correlabile ad una valutazione sulla superfluità dell’iniziativa per ritenuta sufficienza dei dati istruttori acquisiti”, Cass. 16 aprile 2014, n. 8875).
  • Raramente i Giudici dispongono dette indagini.
  • Conseguentemente, assai spesso, è veramente molto difficile per il difensore fornire piena prova delle reali capacità economiche del coniuge obbligato con conseguente palese violazione dei diritti patrimoniali del coniuge debole e dei figli a vedersi garantito il giusto mantenimento.
  • Sul punto l’art. 5, c. 9°, della legge sul divorzio dispone che, nell’ambito dei procedimenti di separazione e divorzio, “in caso di contestazione il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, avvalendosi, se del caso, anche della polizia tributaria”; in senso analogo l’art. 337-ter u.co. D.lgs 154/13, secondo cui “ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi“).

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Una donna invocava l’intervento degli Ermellini lamentando che la Corte di Appello aveva “completamente trascurato la stridente capacità reddituale” esistente tra lei e l’ex marito (€ 1.400,00 al mese la signora, € 2.600 euro al mese l’ex coniuge).

Tuttavia, per la sesta sezione civile – sentenza 4  novembre 2015 n. 22603 la differenza di reddito è azzerata dal peso delle rate del mutuo contratto per acquistare, proprio dalla donna, la metà della casa coniugale e permetterle così di acquistare, a sua volta, una casa di proprietà in cui abitare dopo la separazione.

Per cui i redditi dei due, anche se non identici, sostanzialmente si equivalgono consentendo “ad entrambi una vita dignitosa e non sostanzialmente dissimile da quella condotta in costanza di matrimonio”, circostanze che escludono il diritto della moglie a un assegno di mantenimento gravante a carico del C..

Di qui la condanna ricorrente anche al rimborso delle spese di lite.[:]

[:it]Interessante sentenza del Tribunale di Milano.

La definizione del disturbo di personalità procede dalla definizione di ‘tratti di personalità’ che dice di quei ‘modi costanti di percepire, rapportarsi e pensare nei confronti dell’ambiente e di se stessi, che si manifestano in un ampio spettro di contesti sociali personali rilevanti’ . Quando, e soltanto quando, ‘…i tratti di personalità sono rigidi e non adattivi e causano una compromissione funzionale adattiva o una sofferenza soggettiva, essi costituiscono Disturbi di Personalità.

La caratteristica essenziale di un disturbo di personalità è un modello costante di esperienza interiore e di comportamento che devi marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo e si manifesta in almeno due delle seguenti aree: cognitività, affettività, funzionamento interpersonale o controllo degli impulsi’.

Questo modello costante risulta inflessibile e pervasivo in un ampio spettro di contesti personali e sociali e determina un disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree impostati.

Il passaggio dai tratti di personalità al disturbo di personalità non avviene -sempre – con modalità traumatiche, non si assiste cioè al passaggio di una condizione ‘normale’ ad una condizione ‘disturbata’, ma, piuttosto, si osserva una personalità che a seguito di diversi fattori (ambientali, biologici, traumatici, ecc.) può assumere schemi e modelli disadattavi, passando così da uno ‘stile di personalità’ ad un ‘disturbo di personalità’.

A partire dalla sentenza delle SS.UU. 9163 del 25 gennaio-8 marzo 2005 – c.d. Sentenza Raso – i disturbi di personalità diventano giuridicamente rilevanti quando siano ‘…per consistenza, intensità rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla capacità di intendere e di volere’ del soggetto.

Ciò che è rilevante, tuttavia, è non tanto la natura e l’origine del disturbo di personalità, quanto gli effetti che il medesimo determina ‘…sulla capacità del soggetto di valutare il significato e le conseguenze della propria condotta nonchè sull’attitudine dello stesso ad autodeterminarsi in relazione ai molteplici impulsi che motivano l’azione‘ .

Un comportamento contrario ai doveri nascenti dal matrimonio, per essere irrilevante ai fini della delcratoria di addebito, deve essere, allora, una condotta-sintomo che riveli il disturbo di personalità e nel contempo ne sia la cifra comportamentale, con esso ponendosi in connessione diretta e di esso manifestandosi quale inequivoco segnale rivelatore ( c.d. ‘valore di malattia’ del
comportamento tenuto).

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Per i giudici della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione – sentenza del 2 novembre 2015, n°22353 – è da escludere la particolare gravità del comportamento del lavoratore che abbia fatto un uso indebito degli strumenti aziendali.

È pertanto eccessivo il licenziamento come sanzione disciplinare in danno del dipendente che abbia approfittato degli strumenti messi a sua disposizione dall’azienda per svolgere attività che nulla hanno a che fare con la prestazione lavorativa; nonostante l’abuso di chi utilizzi il personal computer in dotazione, la linea internet e la casella di posta elettronica aziendale per scopi personali, il datore di lavoro deve pur sempre rispettare la proporzione tra sanzione e illecito disciplinare.

Del tutto irrilevanti, a sostegno della tesi del datore di lavoro, i numerosi preavvisi inviati ai dipendenti con cui l’azienda aveva chiesto un uso più attento della strumentazione aziendale.

Condizione per conservare il posto di lavoro – precisa la Corte – è che l’utilizzazione personale della posta elettronica e della navigazione in internet non abbiano determinato una significativa sottrazione di tempo all’attività di lavoro, né il blocco del lavoro, con grave danno per l’attività produttiva.

Il punto nodale per stabilire se vi sia o meno possibilità di licenziamento resta quindi sempre la dimostrazione di un effettivo e rilevante “danno” per l’azienda.

Da ultimo, sottolinea la Corte, il carattere ingiurioso del licenziamento che, in quanto lesivo della dignità e dell’onore del lavoratore, dà luogo al risarcimento del danno ulteriore rispetto alle conseguenze previste dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori) non si identifica con la mancanza di giustificatezza dello stesso, bensì con le particolari forme o modalità offensive del recesso del datore di lavoro. Tali circostanze, tuttavia, devono essere rigorosamente provate da chi le adduce, unitamente al lamentato pregiudizio.

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[:it]Perchè ??????Il caso.

L’autorità giudiziaria italiana ordina la separazione di una madre dai suoi tre figli a causa di asserite difficoltà familiari ed un suo momento di depressione personale. I bambini vengono portati prima in Comunità e poi separatamente adottati, non ostante la grossa tristezza e sofferenza patita per l’allontanamento sia dalla madre che dagli altri fratelli, accertato anche tramite c.t.u.

La madre decide di ricorrere ai giudici di Strasburgo chiedendo che venga accertata la violazione del diritto al rispetto della vita familiare propria e dei suoi figli. In particolare, ad avviso della ricorrente, i giudici italiani avrebbero sbagliato ignorando il parere reso sia dai servizi sociali che dal consulente tecnico, non accorgendosi che i bambini non erano in uno stato di abbandono ma che, anzi, quella che si trovava a vivere la famiglia era una situazione contingente, che i piccoli erano stati non solo tolti alla mamma, ma anche separati tra loro, affidati e poi dati in adozione a famiglie diverse.

La Corte accoglie il ricorso e condanna l’Italia, anche in via pecuniaria, evidenziando: – che l’ingiustizia della decisione ha inciso profondamente nella vita di queste persone: ha spezzato i legami familiari, non solo con i genitori ma anche tra fratelli; – che prima dell’adottabilità avrebbero dovuto essere fatti tutti i tentativi necessari per evitarla; prima di allontanare i bambini dai propri genitori devono essere prestate – ai bambini e ai genitori – tutte le forme possibili di aiuto; – che, conseguentemente, nel caso in esame, sussiste la violazione dell’art. 8 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, in materia di Tutela della Vita Privata e Familiare.

Alla luce di questa sentenza sarà possibile cercare di mettere in discussione le decisioni del Giudice Italiano, passate in giudicato, anche nell’ambito del processo civile, trasponendo il medesimo principio e  chiedendo che i figli vengano restituiti ai loro genitori.

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Risultati immagini per immagine casaUn uomo, dopo il divorzio, occupava, insieme alla nuova famiglia, l’ex casa coniugale: l’ex moglie ne chiedeva il rilascio, oltre al pagamento di un’indennità di occupazione.

Il Tribunale prima e, successivamente, la Corte d’appello ordinavano il rilascio del bene nella libera disponibilità di entrambi i partecipanti alla comunione e condannavano l’ex marito al pagamento dell’importo complessivo di € 16.000,00 (pari al 50% del valore locativo dell’immobile dal passaggio in giudicato della sentenza di divorzio alla data della pronuncia).

Contro detta decisione l’uomo ricorreva invano al Giudice di legittimità.

Anche la Corte di Cassazione, con sentenza 30 settembre 2015, n°19488, riteneva che l’ex coniuge avesse abusato dell’alloggio comune, destinandolo a propria abitazione, esclusiva ed abituale, propria e del suo nuovo nucleo familiare, così superando i limiti di cui all’art. 1102 c.c., per aver impedito all’altra comproprietaria di far parimenti uso del bene.

In altri termini «nel caso di concessione di un bene in locazione ad uno dei comproprietari, venuto a conclusione il rapporto locatizio per scadenza del termine o per la pronuncia della sua risoluzione per inadempimento del conduttore, il predetto bene deve essere restituito alla comunione per consentire alla stessa di disporne e, attraverso la sua maggioranza, di esercitare la facoltà di goderne direttamente o indirettamente».

Di qui gli estremi per condannare l’occupante al rilascio del bene in favore della comunione e al pagamento di un risarcimento dovuto all’abusiva detenzione del bene, commisurato al valore locativo dell’immobile.

Si noti bene:

  • Il già vigente art. 155-quater c.c., in tema di separazione, l’art. 6, L. n. 898 del 1970, in tema di divorzio, ed ancora il vigente art. 337-sexies c.c., subordinano l’adottabilità del provvedimento di assegnazione della medesima casa familiare alla presenza di figli conviventi con i genitori. In difetto, la casa familiare (sia in comproprietà fra i coniugi sia appartenente in via esclusiva ad un solo coniuge) non può essere oggetto di provvedimento di assegnazione, rimanendo sottratta all’incidenza della sentenza di separazione o divorzio.
  • La casa familiare in comproprietà, se non può essere oggetto di assegnazione ad uno dei coniugi, resta soggetta alle norme sulla comunione, al cui regime dovrà farsi riferimento per l’uso e la divisione (Cass., 24 luglio 2007, n. 16398). I rapporti di godimento dell’alloggio tra gli ex coniugi vengono quindi regolamentati nell’art. 1102 c.c.: nessuno dei due ex coniugi comproprietari il diritto di impedire all’altro di partecipare all’uso dell’immobile, trattenendone le chiavi, o rifiutandone la consegna di una copia.
  • Si verifica la violazione dei criteri stabiliti dall’art. 1102 c.c. in ipotesi di occupazione dell’intera casa familiare ad opera dell’ex coniuge comproprietario e non (più) assegnatario della stessa, con sua destinazione ad utilizzazione personale esclusiva, tale da impedire all’altro comproprietario il godimento dei frutti civili ritraibili dal bene, con conseguente diritto ad una corrispondente indennità (Cass., 30 marzo 2012, n. 5156).
  • Proprio l’applicabilità, nelle relazioni tra i coniugi comproprietari dell’immobile non oggetto di assegnazione, del principio dell’uso della cosa comune di cui all’art. 1102 c.c. – che vieta al singolo partecipante di attrarre la cosa comune o una sua parte nell’orbita della propria disponibilità esclusiva e di sottrarla in tal modo alla possibilità di godimento degli altri contitolari, estendendosi il diritto di ciascuno nei limiti della quota su tutta la cosa – lascia salva l’ammissibilità di un accordo, anche tacito, tra le parti, accordo che stabilisca l’utilizzazione dell’appartamento comune da parte di uno dei coniugi (Cass., 13 febbraio 2006, n. 3030); potendo valere l’assegnazione consensuale dell’abitazione comune al coniuge non affidatario come modalità di soddisfacimento dell’obbligo di mantenimento (Cass., 24 giugno 1989, n. 3100).
  • Soltanto all’esito dello scioglimento della comunione legale, ciascun coniuge può domandare la divisione del patrimonio comune, da effettuarsi secondo i criteri stabiliti agli artt. 192 e 194 c.c., e colui che sia rimasto nel possesso esclusivo dei beni fruttiferi già appartenenti alla comunione legale è tenuto (ex art. 820, comma 3, c.c.), al pagamento, in favore dell’altro coniuge, del corrispettivo “pro quota” di tale godimento, quali frutti spettanti “ex lege”, a prescindere da comportamenti leciti o illeciti altrui.
  • Da ultimo. A decorrere dal 26 maggio 2015 (art. 191 c.c., II^ comma, inserito dall’art. 2, 1° co., L. 6.5.2015, n. 55 “Nel caso di separazione personale, la comunione tra i coniugi si scioglie nel momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero alla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purché omologato. L’ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati è comunicata all’ufficiale dello stato civile ai fini dell’annotazione dello scioglimento della comunione”.

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Risultati immagini per immagine discotecaLa terza sezione civile della Cassazione, con la sentenza n. 20927 del 16 ottobre 2015, ha stabilito che il locale che in orari serali e notturni mantiene la musica ad alto volume e provoca schiamazzi che disturbano la tranquillità dei residenti che abitano nelle vicinanze deve risarcire anche se non provoca danni alla loro salute.
Si tratta – precisa la Corte – d’immissioni che superano la soglia di tollerabilità «pur quando non risulti integrato un danno biologico, la lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria casa di abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane sono pregiudizi apprezzabili in termini di danno non patrimoniale». L’accertata esposizione ad immissioni sonore intollerabili può infatti determinare una lesione del diritto al riposo notturno e alla vivibilità della propria abitazione, la cui prova può essere fornita dal danneggiato anche mediante presunzioni sulla base delle nozioni di comune esperienza.
Conclude il Giudice di legittimità sottolineando che il diritto al rispetto della propria vita privata e familiare è uno dei diritti protetti dalla Convenzione europea dei diritti umani. In particolare, la Corte di Strasburgo ha fatto più volte applicazione di tale principio anche a fondamento della tutela alla vivibilità dell’abitazione e alla qualità della vita all’interno di essa, riconoscendo alle parti assoggettate ad immissioni intollerabili un consistente risarcimento del danno morale e tanto pur non sussistendo alcuno stato di malattia. E, in questo caso il Giudice nazionale ha il dovere di conformarsi anche ai criteri elaborati in seno al sistema giuridico della Convenzione.

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Risultati immagini per immagine bambina infeliceAlcuni addetti comunali ai servizi sociali, basandosi esclusivamente sulle dichiarazione di una maestra d’asilo, che aveva ritenuto di ravvisare il sospetto di molestie sessuali parte del padre sulla figlia minore ottengono dal Sindaco un provvedimento di allontanamento della bambina dalla casa familiare e di affidamento al Comune, provvedimento successivamente revocato dal Tribunale dei Minori per insussistenza dei fatti ascritti al padre.

I genitori, in proprio e quali esercenti la potestà genitoriale sui due figli (la minore coinvolta e il fratello) convenivano in giudizio il Comune per ottenerne la sua condanna al risarcimento dei danni ex art. 2049 c.c., in relazione al grave comportamento degli addetti ai servizi sociali.

Dopo la condanna del Comune al risarcimento dei danni sia in primo che in secondo grado, il Comune ha proposto ricorso per cassazione.

Chiarisce la Corte di Cassazione, terza sezione, con sentenza 16 ottobre 2015 2015, n. 20928, che non rileva l’adozione del provvedimento, quanto l’imperizia e negligenza del personale del Comune. E’ il carattere gravemente colposo delle condotte commissive ed omissive degli assistenti sociali, determinanti l’allontanamento del minore dal proprio nucleo familiare in assenza di ragioni tali da giustificare un tale provvedimento, a configurare la responsabilità dell’Amministrazione comunale per fatto dei propri dipendenti e l’obbligo della stessa di risarcire i genitori del minore che abbiano subito la lesione della integrità e della serenità del loro nucleo familiare.

In ipotesi siffatte, dunque, il Comune è chiamato a rispondere ex art. 2049 c.c. sulla base di una fattispecie di responsabilità che gli è addebitabile oggettivamente, per effetto della condotta colposa dei suoi dipendenti, nell’esercizio delle loro specifiche funzioni e non anche ex art. 2043 c.c. per la illiceità del provvedimento di allontanamento di cui all’art. 403 c.c..

Precisa altresì la Corte che ai fini dell’accoglimento della domanda risarcitoria non assume rilievo l’omessa prova degli elementi costitutivi dell’illecito ex art. 2043 c.c., né la circostanza che il provvedimento non sia stato fatto oggetto di annullamento, come nel caso in esame.

Nel caso in esame il danno biologico da patologia psichica, valutato equitativamente dal giudice di merito, rappresenta un equilibrato e ragionevole compromesso fra l’esigenza di assicurare un ristoro effettivo della sofferenza cagionata ai bambini da un trauma affettivo che potrebbe segnare l’intera loro vita e la necessità di evitare che l’azione risarcitoria possa essere strumentalizzata allo scopo di trame un ingiustificato profitto.

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