É illegittimo e va disapplicato per eccesso di potere il decreto del Ministero dell’interno che, nel disciplinare le modalità di produzione, emissione e rilascio della carta di identità elettronica, non consente di indicare con la qualifica neutra di “genitore” la madre naturale e la madre adottiva di una minore, figlia di una coppia omosessuale. Lo stabilisce il Tribunale di Roma, con l’allegata ordinanza del 9 settembre 2022.
Il caso oggetto di questa interessante pronuncia del Tribunale capitolino – del quale hanno dato ampio conto le cronache nazionali delle ultima settimane – riguarda una minore figlia adottata in forza di sentenza resa ai sensi dell’art. 44, c. I , lett. d), L. n. 184/1983.
In data 28 maggio 2019, a seguito della trascrizione della sentenza di adozione, le due madri avevano congiuntamente richiesto agli uffici di Roma Capitale l’emissione di una carta d ‘identità elettronica, valida per l’espatrio, a nome della figlia minore, con l’indicazione dei propri nominativi con la qualifica di «madre» e «madre» o, in alternativa, con la dicitura “neutra” di «genitore» per entrambe.
Con comunicazione in pari data, tuttavia, gli uffici aditi avevano evidenziato l’impossibilità di accogliere la richiesta, in conformità a quanto disposto dal decreto del Ministro dell’interno del 31 gennaio 2019, il quale prevedeva esclusivamente la dicitura «padre» e «madre» per la compilazione dei campi contenenti i nominativi dei genitori.
Le ricorrenti hanno quindi impugnato il citato decreto ministeriale prima dinanzi al Tar del Lazio, dichiaratosi incompetenti, e poi innanzi al Tribunale Civile di Roma, il quale invece in accoglimento del ricorso, ha disapplicato il decreto e ordinato al Ministro dell’Interno, e per esso al Sindaco di Roma Capitale, quale ufficiale del Governo, di indicare sulla carta d’identità elettronica della minore la qualifica neutra di «genitore».
Ciò che rileva – osserva il Tribunale capitolino – «è che, nella fattispecie in oggetto, esiste una situazione giuridica e di fatto incontrovertibile, perché coperta dal giudicato e risultante dagli atti dello stato civile – consistente nel rapporto di filiazione (naturale e adottiva) della minore con due genitrici, entrambe di sesso e genere femminile e costitutiva di una famiglia».
Questo è, per il Tribunale di Roma, il punto di partenza per discutere dell’esistenza o meno di un diritto delle due donne giuridicamente riconosciute come genitrici della bambina a vedersi identificate nella carta d’identità della figlia in modo conforme alla loro identità sessuale e di genere o, comunque, in termini neutri e del diritto della minore stessa ad una corretta rappresentazione della situazione familiare come figlia (naturale e giuridica) di due donne, quindi di due madri o comunque di due genitori.
Sull’esistenza di tali diritti – afferma il Tribunale – non può nutrirsi alcun serio dubbio.
Per quanto riguarda la madre adottiva, l’indicazione, nel documento d’identità della figlia, con una qualifica «padre», difforme dalla sua identità sessuale e di genere, costituirebbe senz’altro un’ingerenza nel suo diritto al rispetto della vita privata e familiare garantito dall’art. 8 CEDU, priva dei connotati di necessità e proporzionalità che potrebbero giustificarla.
Identica violazione si riscontra anche nei confronti della minore, la quale ha un analogo diritto, ai sensi dell’art. 8 CEDU, a vedere correttamente rappresentata, sul documento di riconoscimento, la propria condizione di figlia di due madri.
Con riguardo alla minore, peraltro, il diritto alla corretta rappresentazione delle sue origini familiari trova conferma anche in altri strumenti internazionali ai quali l’Italia ha aderito, primo fra tutti la Convenzione di New York del 20 novembre 1989 sui diritti del fanciullo, ratificata e resa esecutiva con L. n. 176/ 1991, il cui art. 8, in particolare, impegna le Alte Parti Contraenti a «rispettare il diritto del fanciullo a preservare la propria identità», comprendente «le sue relazioni famigliari», ed il cui art. 3 prescrive che «tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente».
Quanto alla scelta alternativa proposta dalle ricorrenti tra l’indicazione della doppia dicitura ” madre” e ‘madre” ovvero della dicitura neutra “genitore”, il Tribunale ha opinato che questa seconda opzione sia la più idonea a soddisfare il legittimo interesse delle ricorrenti bilanciandolo con l’esigenza di rispettare i criteri di minimizzazione e di necessità del trattamento dei dati personali, imposti dal Regolamento UE n. 679/2016 sulla protezione dei dati personali.
La pronuncia in esame si segnala perché si pone nel solco di quell’orientamento giurisprudenziale favorevole a valorizzare le nuove forme di genitorialità – diverse da quella tradizionale basata sul fatto procreativo – che vanno emergendo nel nostro ordinamento.
Si tratta di un orientamento che ha trovato conferma anche in seno alla giurisprudenza di legittimità, ad esempio, nella sentenza Cass. 30 settembre 2016, n. 19599, secondo cui «è riconoscibile in Italia un atto di nascita straniero, validamente formato, dal quale risulti che il nato è figlio di due donne atteso che non esiste, a livello di principi costituzionali primari, come tali di ordine pubblico ed immodificabili dal legislatore ordinario, alcun divieto, per le coppie omosessuali, di accogliere e generare figli, venendo in rilievo la fondamentale e generale libertà delle persone di autodeterminarsi e di formare una famiglia a condizioni non discriminatorie rispetto a quelle consentite dalla legge alle coppie eterosessuali».
Avv. Claudia Romano

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 32914 del 8 novembre 2022 hanno risolto una delle questioni più controverse in materia di separazione e divorzio, ovvero se l’assegno di mantenimento  per il coniuge, originariamente ritenuto dovuto, sia recuperabile nel caso in cui l’originario provvedimento venga modificato, disconoscendosene l’obbligo.

In particolare è stato statuito il seguente principio di diritto: «In materia di famiglia e di condizioni economiche nel rapporto tra coniugi separati o ex coniugi, per le ipotesi di modifica nel corso del giudizio, con la sentenza definitiva di primo grado o di appello, delle condizioni economiche riguardanti i rapporti tra i coniugi, separati o divorziati, sulla base di una diversa valutazione, per il passato (e non quindi alla luce di fatti sopravvenuti, i cui effetti operano, di regola, dal momento in cui essi si verificano e viene avanzata domanda), dei fatti già posti a base dei provvedimenti presidenziali, confermati o modificati dal giudice istruttore, occorre distinguere: a) opera la «condictio indebiti» ovvero la regola generale civile della piena ripetibilità delle prestazioni economiche effettuate, in presenza di una rivalutazione della condizione «del richiedente o avente diritto», ove si accerti l’insussistenza «ab origine» dei presupposti per l’assegno di mantenimento o divorzile; b) non opera la «condictio indebiti» e quindi la prestazione è da ritenersi irripetibile, sia se si procede (sotto il profilo dell’an debeatur, al fine di escludere il diritto al contributo e la debenza dell’assegno) ad una rivalutazione, con effetto ex tunc, «delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto (o obbligato alla prestazione)», sia se viene effettuata (sotto il profilo del quantum) una semplice rimodulazione al ribasso, anche sulla base dei soli bisogni del richiedente, purché sempre in ambito di somme di denaro di entità modesta, alla luce del principio di solidarietà post-familiare e del principio, di esperienza pratica, secondo cui si deve presumere che dette somme di denaro siano state ragionevolmente consumate dal soggetto richiedente, in condizioni di sua accertata debolezza economica; c) al di fuori delle ipotesi sub b), in presenza di modifica, con effetto ex tunc, dei provvedimenti economici tra coniugi o ex coniugi opera la regola generale della ripetibilità».

Le Sezioni Unite della Cassazione, dunque, non offrono una soluzione unitaria al problema e distinguono due diverse ipotesi:

  • vanno restituite le somme versate a titolo di mantenimento quando il giudice escluda la sussistenza, sin dall’origine, del diritto a percepirle;
  • non possono invece essere restituite le somme versate a titolo di mantenimento quando il giudice sottopone a un diverso giudizio le condizioni economiche del soggetto obbligato o dei bisogni del beneficiario e, a seguito di ciò, rimodula al ribasso gli importi dovuti.

Il primo caso si verifica quando viene a mancare del tutto lo stato di bisogno del coniuge beneficiario (si pensi a due coniugi che abbiano la medesima retribuzione, che magari viene accertata a seguito delle indagini tributarie svolte nel corso del processo); oppure quando il giudice accerta la sussistenza dei presupposti per l’addebito (ossia l’imputazione di responsabilità per la fine del matrimonio), cosa che accade, ad esempio, quando viene accertato un tradimento o l’abbandono del tetto coniugale. Anche in questo secondo caso, infatti, difetta all’origine il diritto a percepire l’assegno di mantenimento; difatti chi subisce l’addebito perde il diritto a chiedere qualsiasi sostegno economico, anche in caso di difficoltà economiche.

Al contrario, il diritto a ripetere le somme versate a titolo di assegno di mantenimento (o di assegno divorzile) non sorge quando la rivalutazione riguarda le possibilità economiche del coniuge obbligato al mantenimento (si pensi al caso del marito che, nel corso della causa, riesca a dimostrare di dover sostenere numerose spese, come quelle per il mutuo, che non gli consentono di pagare un importo elevato a titolo di mantenimento) o quando tale importo viene rimodulato dal giudice in relazione ai più contenuti bisogni economici del coniuge beneficiario.

Per la Cassazione non esiste, nel nostro ordinamento, una norma che sancisca l’irripetibilità dell’assegno alimentare provvisoriamente disposto a favore dell’alimentando. Tuttavia occorre «operare un necessario bilanciamento tra l’esigenza – di legalità e prevedibilità delle decisioni e l’esigenza, di stampo solidaristico, di tutela del soggetto che sia stato riconosciuto parte debole nel rapporto». Nella peculiare comunità sociale rappresentata dalla famiglia – prosegue la Corte – è necessario dare il giusto rilievo alle esigenze equitative-solidaristiche, in un’ottica di temperamento della generale operatività della regola civilistica della ripetizione di indebito (art. 2033 c.c.), nel quadro di un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della stessa. Si deve infatti presumere, che le maggiori somme versate «siano state comunque (in atto o in potenza) consumate, proprio per fini di sostentamento, dal coniuge debole».

La Corte non arriva però fino a definire l’entità di questa somma, che è «necessariamente modesta», ma che non essendo stata fissata «in maniera rigida» dal Legislatore richiede «una valutazione personalizzata» da parte del giudice di merito, considerate tutte le variabili del caso concreto: «la situazione personale e sociale del coniuge debole, le ragionevoli aspettative di tenore di vita ingenerate dal rapporto matrimoniale ovvero di non autosufficienza economica».

Avv. Claudia Romano

 

Con l’ordinanza interlocutoria in commento, la prima sezione civile della Corte di Cassazione ha recentemente rimesso gli atti al Primo Presidente, affinché valuti la risoluzione, da parte delle Sezioni Unite, della seguente questione: se il periodo di convivenza prematrimoniale possa assumere un peso, in aggiunta al criterio durata del matrimonio, nella determinazione dell’assegno divorzile.

Nel caso sottoposto alla Corte di Cassazione, il giudice di appello aveva quantificato l’importo dell’assegno divorzile attendendosi pedissequamente ai criteri formali stabiliti dall’art. 5 L. 898/1970, che prevedono che la determinazione dell’assegno divorzile debba essere operata tenendo conto della durata del matrimonio, senza attribuire alcun espresso rilievo al periodo di convivenza prematrimoniale. E ciò nonostante le parti in causa avessero, prima del matrimonio, convissuto more uxorio per diversi anni, con reciproca e spontanea assunzione di obblighi di assistenza morale e materiale.

Tuttavia, come osservato dalla Corte di Cassazione, nell’ordinanza di rimessione al Primo Presidente, “la convivenza prematrimoniale è un fenomeno di costume che è sempre più radicato nei comportamenti della nostra società cui si affianca un accresciuto riconoscimento – nei dati statistici e nella percezione delle persone – dei legami di fatto intesi come formazioni familiari e sociali di tendenziale pari dignità rispetto a quelle matrimoniali. Da questo punto di vista il riconoscimento di una certa sostanziale identità, dal punto di vista della dignità sociale, tra i due fenomeni di aggregazione affettiva, sotto alcuni punti di vista (non certo per tutti) rende meno coerente il mantenimento di una distinzione fra la durata legale del matrimonio e quella della convivenza”.

Del resto, come osservato dalla Corte, la giurisprudenza di legittimità si è già confrontata con il fenomeno della convivenza di fatto, riconoscendo il suo radicamento nella attuale società e il suo conseguente valore, anche giuridico.

E così è avvenuto che le Sezioni Unite, con la nota sentenza n°32198/2021, ha confermato il diritto del coniuge, che abbia instaurato una nuova convivenza di fatto, a non vedersi automaticamente revocato l’assegno divorzile, per effetto di detta nuova convivenza, riconoscendo peculiare valore alla componente compensativa dell’assegno di divorzio.

Sulla base di tale importante precedente giurisprudenziale, la Corte ha ritenuto che “non del tutto dissimile è la possibilità di tener conto anche del periodo di convivenza prematrimoniale, cui sia seguito il vero e proprio matrimonio, successivamente naufragato, ai fini della determinazione dell’assegno divorzile”.

Cliccare di seguito per leggere l’ordinanza.

Respinta la richiesta del padre, finalizzata alla revoca dell’assegno di mantenimento – di € 600 – riconosciuto alla figlia maggiorenne, nata agli inizi degli anni ’90, non potendo addebitarsi alla ragazza alcuna colpa per non avere ancora raggiunto l’autosufficienza economica. «Non sono – infatti – emerse circostanze idonee a giustificare la modifica dell’assetto precedente delle condizioni di divorzio, con riguardo» nello specifico «al contributo di mantenimento disposto per la figlia».

La Corte ha ritenuto corretto considerare non dimostrata l’asserita indipendenza economica della ragazza da parte del padre, non essendo significativo il fatto che «ella abbia percepito sin dal 2013 un reddito lordo» di neanche 3.000,00 euro.

Al contrario, è evidente che la ragazza è priva di redditi, in quanto sta facendo gavetta nel campo del giornalismo, con la sola corresponsione di un rimborso spese, e senza contratto per la vendita di diritto d’autore per un documentario da lei realizzato recentemente.

 

Cass. civ., sez. VI – 1, ord., 22 dicembre 2021, n. 41300

Ragioni della decisione

  1. Il ricorrente C.S. propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, avverso il decreto della Corte d’appello di Roma n. 1779/2020 pubblicato il 9 giugno 2020, con cui è stato rigettato il reclamo proposto dall’odierno ricorrente e confermato il decreto del Tribunale di Roma con il quale, per quanto ancora di interesse, era stata rigettata la domanda proposta da C.S. nei confronti di B.S. diretta ad ottenere, in modifica delle condizioni di divorzio, la revoca dell’assegno di mantenimento per la figlia maggiorenne C. , nata nel luglio 1993, dell’importo di Euro 600, posto a suo carico, e la riduzione dell’assegno di mantenimento per l’altra figlia Ca., pure dell’importo di Euro 600. B.S. resiste con controricorso.
  2. Con i motivi primo e terzo il ricorrente denuncia, sub ipecie del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di fatti decisivi oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte di merito erroneamente ritenuto non dimostrata l’indipendenza economica della figlia Cl. , che assume essere stata raggiunta dalla stessa fin dal 2013 e comunque comprovata dall’accertamento condotto dall’Agenzia delle Entrate nei confronti del ricorrente, come da documenti che richiama (fasc.primo grado doc. 3-4-5), per avere i giudici di merito erroneamente valutato la sua situazione reddituale, in base ai documenti prodotti, raffrontando il reddito netto da egli percepito nel 2013 con quello lordo del 2017, nonché per avere la Corte d’appello ritenuto non provata la cessazione della sua convivenza con la nuova compagna, e ciò in base alla valutazione delle risultanze testimoniali che si assume errata. Con il secondo motivo denuncia, sub specie del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell’art. 337 ter c.c., comma 4, deduce che la Corte di merito ha considerato il fatto della nascita di due figli da altra compagna nella sola dimensione statica ed inoltre non ha considerato che il ricorrente, dopo la cessazione della relazione con la nuova compagna, aveva assunto, con accordo giudiziale, l’impegno di versare Euro 600 mensili per gli altri due figli e di condividere il costo delle scuole private da essi frequentate.
  3. I motivi, da esaminarsi congiuntamente per la loro connessione, sono inammissibili.

3.1. Tramite l’apparente denuncia di vizi di violazione di legge e di omesso esame di fatti decisivi, il ricorrente svolge, in realtà, un’impropria richiesta di riesame del merito e di rivalutazione, anche a fini selettivi, del quadro probatorio. La Corte d’appello ha esaminato i fatti allegati dal reclamante e odierno ricorrente e, con motivazione adeguata, ha ritenuto, nel condividere la decisione del Tribunale, che non fossero emerse circostanze sopravvenute idonee a giustificare la modifica dell’assetto precedente delle condizioni di divorzio, con riguardo al contributo di mantenimento disposto per le figlie.

3.2. In particolare, la Corte di merito ha ritenuto non dimostrata l’asserita indipendenza economica della figlia Cl. sin dal 2013, non reputando significativo in tal senso il fatto che in allora avesse percepito il reddito lordo di Euro 2.800, ed ha accertato, in punto di fatto, che la ragazza era priva di redditi in quanto svolgeva, nel campo del giornalismo, attività di “gavetta” con sola corresponsione di rimborso spese e senza contratto per la vendita di diritto d’autore per un documentario da ella realizzato in tempi più recenti. Il ricorrente si limita a contrapporre la propria ricostruzione fattuale a quella effettuata dai giudici di merito, evocando inammissibilmente un riesame dei fatti storici (primo motivo). Difetta, inoltre, di autosufficienza il richiamo all’accertamento dell’Agenzia delle Entrate, in base al quale il ricorrente assume di essere stato sanzionato per avere operato detrazioni d’imposta per la figlia maggiorenne Cl. , perché nulla è specificato in dettaglio circa l’anno di riferimento e il preciso contenuto di quell’indagine, sicché non è consentito a questa Corte di valutare la decisività, e finanche la rilevanza, di quei documenti, non menzionati nella sentenza impugnata, nel senso prospettato in ricorso.

3.3. Ugualmente inammissibili sono le doglianze, espresse sub ipecie del vizio di violazione di legge e finalizzate anche ad ottenere la riduzione del contributo di mantenimento per l’altra figlia, riferite alla capacità economico-reddituale del ricorrente ed ai maggiori oneri per lo stesso derivanti dal fatto di dover sostenere il mantenimento dei figli nati da una relazione successiva (secondo motivo). La Corte d’appello ha esaminato le situazioni reddituali degli ex coniugi, peraltro rimarcando che, in sede di reclamo, il C. aveva omesso di depositare la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà e la documentazione bancaria (pag. 3 sentenza), e, all’esito del confronto tra le condizioni economiche delle parti, ha concluso, con motivazione adeguata, che non ricorressero circostanze nuove. Ha, infine, ritenuto che neppure avesse valenza di circostanza sopravvenuta la nascita di altri due figli, nel 2006 e 2009, perché essa era stata rappresentata già nel corso del procedimento di divorzio e se ne era dato conto in quella sede. A tale ultimo riguardo, il ricorrente deduce genericamente che ora i due figli nati dalla successiva relazione hanno più esigenze e che, a seguito della cessazione della convivenza con la nuova compagna, deve versare Euro 600 mensili e condividere il costo delle scuole private frequentate dai figli, senza specificare di avere allegato, con sufficienti dettagli, nei giudizi di merito, in che misura, anche in rapporto alle condizioni economiche dell’altro genitore, i relativi oneri siano divenuti più gravosi rispetto all’epoca del procedimento di divorzio, sì da integrare un mutamento peggiorativo di rilevanza rispetto al periodo precedente durante il quale, pure, quel mantenimento era a suo carico.

Le censure di cui trattasi, pertanto, per un verso difettano di autosufficienza nei termini precisati e, per altro, verso si risolvono in una critica a valutazioni meritali adeguatamente motivate e perciò non sindacabili in sede di legittimità; si deve, altresì, ribadire che sono riservate al giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta, tra le risultanze probatorie, di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonché la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del convincimento espresso (cfr. tra le tante Cass. 21187/2019). Per le medesime ragioni sono inammissibili anche le considerazioni svolte in ricorso circa la prova della fine della relazione con la nuova compagna, le risultanze testimoniali e le emergenze documentali sui redditi degli ex coniugi (terzo motivo).

  1. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile e le spese di lite del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza….

P.Q.M. La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 3.100,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali (15%) ed accessori come per legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto. Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.[:]

 

Con la sentenza n. 40282 del 22 settembre 2021  la Cassazione fa chiarezza su una questione su cui si dibatte da tempo: quale contratto devono avere i figli per divenire autonomi?

Anche il contratto a termine segna l’ingresso nel mondo del lavoro.

In altri termini: se la retribuzione è adeguata e l’orizzonte non troppo ristretto, il piede messo nel mondo produttivo da parte dei figli è sufficiente a interrompere l’obbligo da parte del genitore di erogare l’assegno di mantenimento. Questo in quanto un contratto equo e duraturo permette di considerare chi lo sottoscrive come un soggetto autonomo economicamente.

È questa, in  sintesi, la decisione presa dalla Corte di Cassazione attraverso la sentenza numero 40282 del 22 settembre 2021 che pone un nuovo limite alla possibilità dei figli di ricevere l’assegno di mantenimento da parte dai genitori accogliendo il ricorso di un padre contro la decisione della Corte d’Appello di confermare l’assegno di mantenimento in favore dei suoi tre figli, tutti maggiorenni, che contestava, in particolare, il versamento in favore dell’unico tra i ragazzi non più studente, ma vincitore di un concorso come volontario al ministero della Difesa con contratto a tempo determinato e rinnovi superiori ad un anno. Per i giudici di legittimità tanto bastava, a fronte di uno stipendio di circa 1000 euro al mese, per consentire al padre di non versare più l’assegno.

Ad avviso della Corte di Cassazione, i giudici territoriali hanno sbagliato a confermare il mantenimento, valorizzando solo il carattere temporaneo dell’attività lavorativa, ignorando anche la retribuzione.
Lo svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, anche se prestata nell’ambito di un contratto a tempo determinato, può costituire “un elemento rappresentativo della capacità dell’interessato di procurarsi una adeguata fonte di reddito in maniera indipendente. Ai fini che qui interessano conta, infatti, l’inserimento del figlio in questione nel mondo del lavoro”.

Quanto al rischio che il contratto a tempo determinato non venga rinnovato, si tratta di un pericolo non troppo diverso dalla perdita del lavoro per altre cause che, come si sa, non fa rivivere l’assegno di mantenimento versato dai genitori.
In tale prospettiva – chiariscono gli ermellini – “la possibile cessazione del rapporto lavorativo per la scadenza del termine e il mancato rinnovo del contratto non ha, a ben vedere, un significato diverso dalla perdita dell’occupazione generata da un contratto indeterminato o dal negativo andamento di un’attività intrapresa dal figlio stesso in proprio”. Evenienze che escludono la reviviscenza dell’obbligo del genitore al mantenimento.

Avv. Maria Martignetti

La Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell’uomo pronunciandosi su un caso relativo alla legittimità della decisione delle autorità della Repubblica Ceca che avevano, in un caso sanzionato con una multa il genitore di un minore e, negli altri, vietato alle famiglie l’accesso alla scuola d’infanzia (prescolare) per non aver sottoposto i figli minori alla vaccinazione obbligatoria, ha escluso che la previsione della vaccinazione infantile obbligatoria, imposta dalle autorità ceche, fosse contraria all’art. 8 della CEDU (diritto al rispetto della vita privata e familiare) nonché all’art. 9 Cedu (diritto alla libertà di pensiero di coscienza e di religione).

 

Il caso

La vicenda trae origine da un ricorso promosso da diversi cittadini di nazionalità ceca dinanzi alla Corte di Strasburgo, i quali denunciavano la violazione del rispetto alla vita privata e familiare (di cui all’art. 8 CEDU) e della loro libertà di opinione (art. 9 CEDU) conseguente all’obbligo imposto dalle autorità statali di vaccinare i propri figli minori contro nove malattie ben note alla scienza medica, tra le quali: difterite, il tetano, la pertosse, le infezioni da Haemophilus influenzae di tipo b, poliomielite, epatite B, morbillo, parotite, rosolia e – per i bambini con particolari indicazioni di salute – le infezioni da pneumococco.

Nel caso in esame, l’obbligo era previsto dalle disposizioni nazionali che non autorizzavano alcuna forma di coercizione fisica per l’adempimento vaccinale, ma l’inosservanza era sanzionata con una modesta sanzione economica, o con il divieto di accedere alla scuola dell’infanzia del minore per il quale non fosse stato adempiuto l’obbligo vaccinale senza valida ragione (ad esempio, il rischio clinico individuale al vaccino).

In particolare, i ricorrenti sostenevano che le predette conseguenze per loro del mancato rispetto dell’obbligo di vaccinazione erano incompatibili con il diritto al rispetto della loro vita privata ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione EDU[1] nonché con il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione di cui all’art. 9 della Convenzione EDU[2]. Con particolare riferimento alla richiesta da parte dei ricorrenti che venisse loro riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza secolare ai sensi dell’art. 9 CEDU, dai motivi addotti dagli stessi a supporto della loro richiesta, emergeva in maniera chiara che la loro contrarietà ai vaccini non era stata determinata dall’adesione a un particolare credo religioso, quanto piuttosto fosse il frutto di una convinzione personale interpretata come un imperativo della coscienza.

Nel decidere in merito a questa richiesta, la Corte Costituzionale ceca aveva affermato che in uno Stato laico la richiesta di un’obiezione di coscienza per motivi secolari deve essere valutata alla luce dei medesimi principi che regolano l’obiezione di coscienza per motivi religiosi. Trasferendo questo ragionamento alla materia delle vaccinazioni, la stessa giurisprudenza ha ammesso la possibilità che, in casi del tutto eccezionali, si prevedano eccezioni all’obbligo vaccinale a favore di persone che per motivi religiosi manifestino una contrarietà ad esso, e quindi pure a favore di coloro che, per convinzioni proprie, non intendano sottoporre se stessi o i propri figli alle vaccinazioni. Si tratterebbe, però, di casi assolutamente eccezionali, poiché non sarebbe possibile applicare l’esenzione a interi gruppi religiosi o a un numero indeterminato di persone che condividano tali convinzioni.

 

La decisione della CEDU

Con la decisione in commento, la Corte di Strasburgo richiamando la propria giurisprudenza in materia, che configura l’obbligo di subire un trattamento sanitario (quale è indubbiamente anche l’inoculazione di un vaccino) come una violazione dell’art. 8 Cedu, nonché con riguardo all’art. 9 Cedu come violazione della libera manifestazione del pensiero, coscienza e religione, ha tuttavia ritenuto che nel caso deciso non vi fossero la predette violazioni, sulla base del seguente argomentato e condivisibile ragionamento:

  • in primo luogo, lo Stato convenuto intendeva legittimamente garantire al contempo sia la salute dei vaccinati che dei non vaccinati attraverso il raggiungimento della c.d. “immunità di gregge” per contrastare le nove gravi malattie in questione. Nel caso in esame, inoltre, vi era la pressante esigenza sociale di rispondere alle preoccupazioni delle più alte autorità sanitarie per la diffusione delle suddette malattie, che con la vaccinazione si intendeva contrastare, così rispondendo alla diminuzione del tasso vaccinale tra i bambini;
  • in secondo luogo, la sanzione pecuniaria, prevista per la mancata vaccinazione senza valido motivo, fosse di modesta entità, e che lo sbarramento all’accesso della scuola dell’infanzia, seppur oggettivamente costituente un pregiudizio per il minore, era comunque di carattere transitorio tale da poter essere recuperato nei cicli successivi scolastici, risultando anch’esso quindi proporzionato all’esito del bilanciamento dei diritti coinvolti;
  • l’art. 9 Cedu non può essere interpretato come una garanzia assoluta del diritto di comportarsi nella sfera pubblica secondo le proprie convinzioni personali. In particolar modo, le leggi che prevedono l’obbligo vaccinale rispettano il criterio della neutralità, poiché le vaccinazioni obbligatorie sono tali per tutti, indipendentemente dalla fede religiosa professata o dalle convinzioni personali;

 

In conclusione

La Grande Camera, con la decisione in commento nel caso Vavricka ed altri c. Repubblica Ceca, ha quindi ritenuto:

  • che le misure contestate potevano essere considerate “necessarie in una società democratica”, riconoscendo, così, un ampio margine di apprezzamento agli Stati parte della Convezione, non sussistendo conseguentemente una violazione dell’articolo 8 della Convenzione;
  • che“le opinioni personali contrarie alle vaccinazioni non sono tali da costituire una convinzione o una credenza che abbia sufficiente forza, serietà, coesione e importanza tale da attrarre le garanzie previste dall’articolo 9”, confermando, dunque la legittimità delle legislazioni nazionali che impongano l’obbligo vaccinale come misura necessaria per la tutela della salute pubblica.

 

[1] Art. 8 Diritto al rispetto della vita privata e familiare: 1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.

[2] Art. 9 Libertà di pensiero di coscienza e di religione: 1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo e la libertà di manifestare la propria religione o credo individualmente o collettivamente, sia in pubblico che in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. 2. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo può essere oggetto di quelle sole restrizioni che, stabilite per legge, costituiscono misure necessarie in una società democratica, per la protezione dell’ordine pubblico, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui.

 Articolo a cura della dott.ssa Michela Terella

[:it](Corte di Cassazione, ordinanza n. 20062 del 14 luglio 2021)

Quando una convivenza termina, la domanda più frequente è a quale dei due partner va la casa acquistata in comproprietà.

Se i conviventi non hanno figli (o se essi sono già adulti e non vivono più con i genitori) e dunque non si pone un problema di assegnazione dell’immobile, la casa in comproprietà dovrà essere divisa.

Se non si riesce a raggiungere un’intesa, l’unica strada percorribile è quella della divisione giudiziale dell’immobile. La domanda va proposta al giudice del tribunale del luogo in cui si trova l’immobile, senza limiti di tempo e anche da uno solo dei comproprietari.

Ebbene nell’ambito di un giudizio di divisione immobiliare, la Cassazione ha recentemente enunciato un principio innovativo con riferimento alla questione del rimborso delle rate di mutuo versate in eccedenza da un convivente rispetto all’altro.

La Suprema Corte, ribaltando la decisione del giudice di prime cure, ha infatti stabilito che se uno dei due ex conviventi aveva pagato con le sue risorse finanziarie alla banca le rate del mutuo per la casa in comproprietà di entrambi, ha diritto di recuperare la differenza versata in più rispetto al compagno, che deve partecipare in misura uguale all’estinzione del mutuo e, dunque, lo deve rimborsare per l’eccedenza.

Gli Ermellini hanno applicato il principio di «solidarietà passiva» nell’adempimento delle obbligazioni, in base al quale il debito «si divide nei rapporti interni tra condebitori in parti eguali; pertanto, il coobbligato che abbia pagato l’intero, è titolare, salvo prova contraria a carico dell’altro condebitore, del diritto di ripetere da quest’ultimo la metà di quanto pagato al comune creditore».

In contrasto con tale necessità – il tribunale di primo grado aveva ritenuto la convivenza, per se stessa quale elemento idoneo a giustificare il maggiore apporto per spirito di liberalità.

Secondo la Suprema Corte invece, in questo caso, non si può parlare di liberalità, o di donazione, perché il versamento è stato eseguito alla banca, cioè ad un soggetto estraneo, sia pure per ripagare un debito assunto in comune, come quello dell’acquisto della casa in cui convivere.

Infatti, ad avviso del Collegio di legittimità, si può ammettere che la prova possa essere data per presunzioni, ma deve trattarsi di presunzioni serie, in base a un rigoroso esame di tutte le circostanze del singolo caso.

È da segnalare che questa soluzione della Corte di Cassazione è molto diversa da quella normalmente adottata per il rimborso delle spese per la casa, che rimangono addossate a chi le aveva sostenute anche quando si tratta di ristrutturazione dell’immobile.

Avv. Claudia Romano

"home sweet home" painting[:]

(Corte di Cassazione, ordinanza n. 11012 del 26 aprile 2021)

E’ un fatto noto che nel mondo, e in particolare negli Stati Uniti ed in Inghilterra, sempre più spesso i futuri sposi regolano convenzionalmente in via preventiva i loro rapporti patrimoniali e personali, in vista di un’eventuale crisi coniugale. Un modo difficile per dire una cosa semplice: se ci si mette d’accordo prima, si evita di litigare dopo.

E in Italia?

Dopo l’arresto del 2017, la Corte Suprema di Cassazione, è tornata nuovamente a occuparsi della dibattuta questione della liceità degli accordi prematrimoniali con la recente ordinanza n. 11012 del 26 aprile 2021 (in allegato).

Il giudizio traeva origine dalla proposizione del ricorso per cassazione avverso la sentenza n. 218/2016, con la quale il giudice del gravame aveva confermato la misura dell’assegno divorzile stabilito dal giudice di prime cure, sulla scorta dell’accordo intervenuto fra i coniugi in sede di separazione consensuale, teso alla disciplina dei rapporti economici del futuro divorzio.

Il ricorrente eccepiva, in particolare, la nullità per illeceità della causa dell’accordo concluso con la coniuge in sede di separazione consensuale, atteso che il diritto all’assegno divorzile, per la sua natura assistenziale, non è posizione soggettiva disponibile, di talché resta sottratto dal perimetro operativo riservato all’autonomia privata. Oltre a ciò, il ricorrente assumeva l’insussistenza del presupposto richiesto dall’art. 5 L. n. 898/1970 per la concessione dell’assegno divorzile, ovvero l’inadeguatezza dei mezzi in capo al coniuge beneficiario rispetto al tenore di vita tenuto in costanza di matrimonio.

In ordine a tali fatti, la Corte di Cassazione – tenuto conto delle attribuzioni patrimoniali intervenute in sede di separazione e del conseguente decremento reddituale del ricorrente, nonché dei precedenti arresti giurisprudenziali – accoglieva il ricorso, ritenendo l’accordo intervenuto in sede di separazione nullo per illeceità della causa, in quanto stipulato in violazione del principio fondamentale di indisponibilità dei diritti derivanti dal matrimonio di cui all’art. 160 c.c.

Con la pronuncia in scrutinio, dunque, i giudici di legittimità (ri)affermano, dunque, la radicale nullità degli accordi “in contemplation of divorce” per illeceità della causa, perché in contrasto con i principi di indisponibilità dello status di coniuge e dell’assegno di divorzio.

E’ una decisione che stupisce perché nel 2012 e nel 2014 la Corte aveva invece mostrato di volere aprire la strada alla validità dei patti in vista del divorzio, evidenziando come essi sono molto diffusi all’estero ove svolgono una «proficua funzione di deflazione delle controversie familiari e divorzili».

La Cassazione aveva allora riconosciuto che il proprio orientamento restrittivo viene criticato per non essere adeguato all’evoluzione della società e della stessa legge, ormai orientate «a riconoscere sempre più ampi spazi di autonomia ai coniugi nel determinare i propri rapporti economici, anche successivi alla crisi coniugale».

Detto ciò, è sicuramente auspicabile un intervento legislativo in materia di accordi prematrimoniali che – sulla base dell’esperienza degli ordinamenti più evoluti – possa fornire una disciplina coerente con le aspirazioni nutrite da quella parte della dottrina che attende un definitivo superamento della visione – tutt’ora dominante – dell’invalidità degli accordi “di tipo preventivo fra i coniugi sui rapporti patrimoniali successivi al divorzio”. Del resto, non può negarsi che l’iniziativa economica privata è libera (art. 41 Cost.), ma la legge svolge un ruolo fondamentale di supporto integrativo all’estrinsecazione dell’autonomia negoziale.

Avv. Claudia Romano

 

Come noto vi sono decisioni che i genitori, pur separati, devono continuare ad assumere insieme nell’interesse dei figli e che possono essere raggruppate nelle macro categorie della salute, dell’educazione scolastica e religiosa, della crescita personale e sociale.

Può succedere, tuttavia, che con riguardo a scelte importanti delle vita dei propri figli, la posizione dei genitori rimanga su piani distanti e diversi.

Questo può dipendere da molti fattori, quali la diversa educazione ricevuta, la soggettiva interpretazione delle inclinazioni e delle aspirazioni dei figli, la difficoltà di accettare il punto di vista dell’altro e, non ultimo, una certa ostilità di fondo che sovente anima le coppie separate.

In questo caso, le decisioni si paralizzano e ai genitori non rimane che rivolgersi al Giudice.

Sotto il profilo strettamente procedurale, se il contrasto sia insorto tra genitori formalmente separati o divorziati, la domanda va ricondotta nell’ambito delle diposizioni riguardanti la “Soluzione delle controversie in caso di inadempienze o violazioni” dei provvedimenti del giudice (art. 709 ter c.p.c.)

Se, invece, il nucleo familiare (sposato o convivente) non sia ancora disgregato, va applicata la disciplina relativa ai “contrasti insorti nell’esercizio della responsabilità genitoriale” poiché si tratta di una norma che ha la espressa finalità di conservare l’unità familiare (art. 316 c.c.).

In altre parole, la formale separazione tra i genitori preclude l’applicazione della disciplina in tema di responsabilità genitoriale (applicabile nella fase non patologica del rapporto di coppia) e cede il passo ai provvedimenti previsti nel caso di inadempienze e violazioni da parte di coppie separate.

Quanto ai criteri che guidano la scelta del giudice, in linea di principio la giurisprudenza si orienta in favore della scuola pubblica sulla base dei canoni riconosciuti dall’ordinamento come idonei allo sviluppo culturale di qualsiasi soggetto minore residente sul territorio.

Le istituzione scolastiche pubbliche, infatti, sono espressione primaria e diretta del sistema nazionale di istruzione e del diritto alla istruzione riconosciuto dalla Costituzione.

In alcuni casi, da considerare eccezionali, e sempre nell’ottica di favorire l’interesse del figlio minore, i giudici autorizzano l’iscrizione alla scuola privata. Le ragioni – che devono essere valutate nel caso concreto – possono spaziare dalla necessità di preservare il valore della continuità scolastica al bisogno di far seguire il minore da insegnanti specializzati o in grado di rispondere meglio alle sue fragilità o difficoltà.

Sulla scia di questa giurisprudenza maggioritaria si pone un recente provvedimento del Tribunale Civile di Roma (decreto n. 33 del 4 gennaio 2021 pres. Ienzi, rel. Cambi) che ha evidenziato come “nell’ipotesi di contrasto tra i genitori in merito all’iscrizione a scuola del figlio minore, deve essere privilegiata l’istruzione pubblica”.

La scelta dell’istituto scolastico – prosegue il Collegio – è da considerare scelta di maggiore rilevanza per il figlio e, dunque, qualora i genitori non riescano a dirimere il conflitto in merito alla scelta tra la scuola pubblica e la scuola privata, il Tribunale può indicare solo la scuola pubblica, dovendosi ritenere l’istruzione pubblica quella cui i minori devono accedere anche obbligatoriamente fino al sedicesimo anno di età. Tale conclusione si desume dalla struttura dell’ordinamento scolastico gratuito e universale solo con riferimento alla scuola pubblica, atteso che la scuola privata impone il pagamento di rette e soprattutto l’adesione a specifici orientamenti non solo didattici ma anche di impostazione religiosa ovvero educativa che possono non essere condivisi dai genitori e rispetto ai quali il Tribunale investito della scelta non può esprimere preferenze attenendo tali opzioni a scelte personalissime rimesse al solo consenso dei genitori”.

In questo quadro che valenza ha la volontà del figlio?

La giurisprudenza, infatti, è unanime nel ritenere che la volontà dei figli minori di età, seppure sia importante, non è determinante, poiché tale scelta è da rimettere esclusivamente ai genitori.

Vanno segnalati però sempre più casi in cui, a parità di piano formativo, al centro della decisione del Giudice viene posta la preferenza del figlio minore, ancorché infradodicenne

Con una recentissima pronuncia il Tribunale di Verona (decreto del 6 aprile 2021) ha ad esempio preferito la scuola pubblica alla privata proprio per il rilievo attribuito ad alcuni elementi concreti acquisiti attraverso l’audizione di un minore infradodicenne.

Questi, ascoltato dal giudice delegato senza la presenza dei genitori, aveva infatti saputo esprimere con naturalezza la propria preferenza quest’ultima tipologia di istituto, rispetto a quella privata scelta dalla madre, avuto riguardo alla possibilità per lo stesso di mantenere rapporti continuativi con una parte dei propri compagni di scuola primaria, con i quali ha mostrato una buona sintonia. Il minore aveva inoltre evidenziato l’opportunità di poter andare a scuola da solo segno di naturale e comprensibile desiderio di progressiva autonomia che il collegio ha ritenuto di accogliere e promuovere.

Avv. Claudia Romano

Il matrimonio si fonda sul principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi con i limiti che la legge stabilisce per garantire l’unità familiare. Il marito e la moglie, a differenza che in passato, hanno, infatti, gli stessi diritti, che dovrebbero esercitare congiuntamente e di comune accordo, e gli stessi reciproci doveri sanciti dall’art. 143 del nostro codice civile: alla fedeltà, all’assistenza, alla collaborazione e alla coabitazione.

Come visto, la legge parla di doveri dei coniugi e non già di doveri della moglie verso il marito o di doveri del marito verso la moglie. I doveri, così come i diritti, sono quindi senza senso, anche laddove le convenzioni sociali e i retaggi culturali hanno radicato alcuni usi in capo all’uno o all’altro coniuge. Non ci si può neanche richiamare alle consuetudini per imporre a un coniuge determinati comportamenti.

I doveri sono intercambiabili, anche laddove uno dei due si sia sempre occupato di determinati aspetti del matrimonio.

In particolare, il dovere reciproco alla collaborazione rappresenta il dovere di contribuire al cosiddetto ménage familiare, a tutto quello che serve per lo svolgimento organizzativo della vita della famiglia e nell’interesse della stessa. Con esso si tende a sottolineare, da un lato, che la gestione della famiglia deve essere il frutto di consultazione e dialogo continuo tra i coniugi; dall’altro, che questi devono essere pronti a sacrificare i propri interessi individuali per quelli della famiglia.

Entrambi i coniugi vi sono tenuti tenendo in considerazione le loro sostanze e la loro capacità di lavoro professionale e casalingo.

In questo quadro giuridico si inserisce una recentissima sentenza della Prima Sezione del Tribunale Civile di Foggia (sentenza numero 40282 del 22 settembre 2021) il quale ha rigettato le richieste di addebito presentate da entrambi i coniugi.

In particolare il marito, a fondamento della sua pretesa, aveva dedotto che la moglie aveva mostrato «un contegno di disinteresse e indifferenza per il partner teso a violare gli obblighi coniugali della collaborazione e della contribuzione nell’interesse della famiglia, nonché l’assistenza materiale e morale. Tali comportamenti manifestati nel rifiuto di predisporre piatti caldi, piuttosto che lavare gli indumenti personali…».

Sul punto, le prove sono consistite in dichiarazioni dei testi che hanno assunto che l’uomo provvedeva a fare la spesa e andava a consumare la colazione a casa della madre presso la quale indossava gli abiti da lavoro che la stessa provvedeva poi a lavare.

Secondo il Tribunale invece le circostanze acquisite in giudizio dovevano ritenersi del tutto «generiche» e non consentivano di attribuire alla donna una «trasgressione degli elementari doveri di collaborazione tale da giudicarla colpevole di un sostanziale abbandono del nucleo famigliare, atteso che ciò che è emerso, al più, è che talora il marito faceva la spesa o che il ricorrente soleva far lavare gli abiti da lavoro dalla madre, circostanza questa giustificata dalla moglie con l’esigenza di non contaminare gli indumenti del figlio minore».

Insomma, secondo il Tribunale, il dovere di collaborazione esiste a prescindere dal fatto che uno dei coniugi non lavori e abbia teoricamente più tempo da dedicare alla gestione della casa e dei figli.

E ciò in quanto «a seguito della riforma del diritto di famiglia (operata con la legge 19 maggio 1975, n. 151) a seguito del matrimonio i coniugi assumono gli stessi diritti e gli stessi doveri, sono tenuti all’obbligo reciproco di fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia ed alla coabitazione, insomma sono posti su un piano del tutto paritario. Non è quindi previsto che su un coniuge siano addossati tutti i compiti di cura della casa e della prole, poiché entrambi sono tenuti a svolgere le stesse mansioni, e ciò anche nell’ipotesi in cui uno solo di essi lavori, poiché non sarebbe ammissibile una situazione di sottomissione dell’altro a svolgere lavori di mera cura dell’ordine domestico, al quale sono peraltro tenuti anche i figli, nell’ottica di una educazione responsabile».

Avv. Claudia Romano

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