Il padre separato che quando il figlio compie diciott’anni comincia a versare l’assegno di mantenimento a lui direttamente senza la sentenza di un giudice che modifichi le condizioni stabilite in precedenza, rischia di dover ripetere il pagamento. E ciò benché siano d’accordo il figlio e, per ipotesi, anche la madre convivente e l’interessato spenda effettivamente quei soldi per mantenersi.

Lo ha sancito di recente la Suprema Corte, con la recente ordinanza 13 aprile 2021 n. 9700.

Il padre aveva lamentato la violazione degli artt. 155 quinquies e 337 septies c.c., sostenendo che l’obbligo di versamento dell’assegno di mantenimento del figlio, contenuto in una sentenza di separazione, potesse essere modificato per concorde volontà delle parti, senza bisogno di un provvedimento giurisdizionale e che il titolare del credito di mantenimento fosse il figlio, una volta divenuto maggiorenne.

Tale motivo è stato ritenuto infondato dalla Suprema Corte in quanto fondato su un duplice ed erroneo presupposto interpretativo, e cioè che:

  1. a) sia consentito al creditore ed al debitore dell’assegno di mantenimento modificare le statuizioni contenute nella sentenza di separazione;
  2. b) tale facoltà sia confermata dalle previsioni dell’art. 337 septies c.c., comma 1.

Ed infatti, secondo la Corte «la determinazione dell’assegno di mantenimento dei figli, da parte del coniuge separato, risponde ad un superiore interesse di quelli, interesse che non è disponibile dalle parti. Sicchè, una volta stabilito nel provvedimento giudiziale chi debba essere il debitore, e chi il creditore di quella obbligazione, tale provvedimento non è suscettibile di essere posto nel nulla per effetto di un successivo accordo tra i soggetti obbligati».

È vero, in astratto, ci potrebbe essere un’indicazione di pagamento, ma essa non muterebbe la persona del creditore (d’altro canto nel giudizio in esame aveva mai dedotto la violazione dell’art. 1188 c.c., né aveva mai allegato in punto di fatto che la propria ex moglie avesse indicato nel figlio il destinatario del pagamento ai sensi della norma da ultimo citata).

Quanto alla seconda allegazione del ricorrente, la Corte ha rilevato che l’art. 337 septies c.c., comma 1, a differenza di quanto sostenuto dal padre, stabilisce che “il giudice” può disporre il pagamento di un assegno ai figli maggiorenni non indipendenti economicamente, e che in tal caso (cioè quando il giudice lo abbia disposto) l’assegno è versato direttamente all’avente diritto.

La norma dunque non consente dubbi sul fatto che il pagamento dell’assegno di mantenimento direttamente al figlio maggiorenne, invece che al genitore convivente, non è una facoltà dell’obbligato, ma può essere solo il frutto di una decisione giudiziaria.

Sulla base di tali considerazioni la Cassazione ha dunque rigettato il ricorso del padre, e compensando però integramente le spese di lite tra le parti, in considerazione della novità della questione.

Avv. Claudia Romano

Il matrimonio religioso cattolico, teoricamente, dovrebbe durare per sempre.

A dirlo sono non solo i principi della Chiesa ma anche il Canone 105 del vigente Codex Juris Canonici, ove si legge che “Il patto matrimoniale con cui l’uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunione di tutta la vita, per sua natura ordinata al bene dei coniugi ed alla procreazione ed educazione della prole, è stato elevato da Cristo Signore alla dignità di sacramento tra i battezzati“.

Nonostante ciò far dichiarare nullo il matrimonio religioso celebrato secondo il rito cattolico è possibile, al ricorrere di specifici motivi. In particolare, le cause che possono giustificare un tale procedimento possono essere ricondotte a tre categorie: vizi del consenso, impedimenti e difetto di forma canonica.

Per poter far sì che il matrimonio sia dichiarato giuridicamente nullo dalla Chiesa, i coniugi devono rivolgersi alla Sacra Rota competente per territorio.

La sentenza di nullità matrimoniale emessa dai Tribunali della Chiesa non viene riconosciuta automaticamente dallo Stato Italiano ma, ottenuto il decreto di esecutività del Superiore organo ecclesiastico di controllo, su domanda di una o entrambe le parti se ne può richiedere il riconoscimento con un procedimento di delibazione presso la competente Corte d’Appello.

E’ pertanto possibile che, come nel caso in esame, che il procedimento volto alla dichiarazione di nullità del matrimonio da parte dei Tribunali della Chiesa e il procedimento civile di divorzio coesistano.

Rispetto a questa possibilità, le Sezioni Unite della Cassazione sono state chiamate a dirimere un contrasto sorto in giurisprudenza, stabilendo se la sentenza di divorzio possa considerarsi idonea a paralizzare gli effetti della nullità del matrimonio, dichiarata con sentenza ecclesiastica successivamente delibata dalla corte d’appello.

Con la sentenza 9004 del 31 marzo 2021 le Sezioni Unite, nel risolvere la questione, hanno evidenziato che tra il giudizio di nullità del matrimonio e quello di cessazione degli effetti civili non sussiste alcun rapporto di pregiudizialità, tale da imporre la sospensione del secondo a causa della pendenza del primo, trattandosi di procedimenti autonomi, non solo destinati a sfociare in decisioni di diversa natura ma aventi anche finalità e presupposti differenti.

Ne consegue, hanno proseguito le sezioni unite, che è proprio questa riscontrata diversità tra la sentenza di nullità e quella di divorzio, a giustificare, oltre al riconoscimento della possibilità di una coesistenza tra le due pronunce, nel caso in cui la delibazione della sentenza ecclesiastica intervenga dopo il passaggio in giudicato di quella di divorzio, l’affermazione dell’inidoneità della prima a impedire, nel caso in cui lo scioglimento del vincolo abbia luogo disgiuntamente dalla determinazione delle conseguenze economiche, la prosecuzione del giudizio civile ai fini dell’accertamento della liquidazione dell’assegno divorzile.

Il fondamento dell’obbligo di corrispondere l’assegno, infatti, deve essere individuato nella constatazione dell’intervenuta dissoluzione della comunione materiale e spirituale tra i coniugi e dell’impossibilità di ricostituirla, nonché della necessità di un riequilibrio tra le condizioni economico-patrimoniali dei coniugi, da realizzarsi attraverso il riconoscimento di un contributo economico. E la pronuncia, una volta divenuta definitiva, non resta travolta dal successivo riconoscimento dell’efficacia della sentenza ecclesiastica che dichiara la nullità del matrimonio, la quale ha un oggetto diverso.

Pertanto, ha concluso la Cassazione, la questione deve essere risolta mediante l’enunciazione del principio di diritto secondo cui “in tema di divorzio, il riconoscimento dell’efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso, intervenuto dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili ma prima che sia divenuta definitiva la decisione in ordine alle relative conseguenze economiche, non comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio civile avente a oggetto lo scioglimento del vincolo coniugale, il quale può dunque proseguire ai fini dell’accertamento della spettanza e della liquidazione dell’assegno divorzile”.

Avv. Claudia Romano

Le Sezioni Unite sono state chiamata a stabilire se “instaurata la convivenza di fatto, definita all’esito di un accertamento pieno su stabilità e durata della nuova formazione sociale, il diritto dell’ex coniuge, sperequato nella posizione economica, all’assegno divorzile si estingua comunque per un meccanismo ispirato ad automatismo, nella parte in cui prescinde di vagliare le finalità proprie dell’assegno, o se siano invece praticabili altre scelte interpretative che, guidate dalla obiettiva valorizzazione del contributo dato all’avente diritto al patrimonio della famiglia e dell’altro coniuge, sostengano dell’assegno divorzile, negli effetti compensativi suoi propri, la perdurante affermazione, anche, se del caso, per una modulazione da individuarsi nel contesto sociale di riferimento”.

La Prima Sezione civile della Corte di Cassazione, con l’ordinanza interlocutoria n. 28995 del 17/12/2020, ha rinviato gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite Civili, sollecitandone l’intervento al fine di dipanare una questione di particolare importanza: stabilire se l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, faccia venire meno in maniera automatica il diritto all’assegno divorzile di cui all’art. 5 c. 6 L. 898/1970 a carico dell’altro coniuge, ovvero al contrario se ne possa affermare la perduranza, valorizzando il contributo dato dall’avente diritto al patrimonio della famiglia e dell’altro coniuge, nel diverso contesto sociale di riferimento.

La questione sollevata, a parere del remittente, rientra tra quelle di particolare importanza, poiché pone l’occasione di “rimeditare” sull’indirizzo recentemente formatosi nella giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 6855/15, Cass. n. 2466/16 e Cass. n. 22604/20), non totalmente condiviso dal Collegio che, al pari di quanto accade in caso di nuove nozze, ritiene che si determini l’estinzione automatica del diritto all’assegno di divorzio e senza alcuna valutazione discrezionale da parte del giudice, una volta accertata la costituzione di una nuova famiglia di fatto, ormai riconosciuta e tutelata al pari della famiglia matrimoniale tra le formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost.

Il ricorso alla Corte di Cassazione è stato proposto avverso una sentenza della Corte d’Appello di Venezia, che esprimendosi nel senso che “la semplice convivenza more uxorio con altra persona provochi, senza alcuna valutazione discrezionale del giudice, l’immediata soppressione dell’assegno divorzile“, aveva respinto la domanda dell’ex moglie di riconoscimento di detto assegno, avendo costei instaurato una stabile convivenza con un nuovo compagno, da cui aveva avuto una figlia.

Nel caso in esame ricorrente, nei nove anni di matrimonio, aveva rinunciato ad un’attività professionale o comunque lavorativa, per dedicarsi interamente ai figli; viceversa il marito aveva potuto realizzarsi ed era divenuto amministratore e proprietario di una prestigiosa impresa operante nel settore calzaturiero, con un fatturato all’estero pari a qualche milione di euro. Non più in età per poter reperire attività lavorativa, quest’ultima aveva vissuto e viveva con i figli dell’assegno divorzile e l’attuale compagno percepiva un reddito lavorativo di circa mille euro mensili.

Il rimettente, valorizzando la funzione retributivo-compensativa dell’assegno, dubita della possibilità di fare applicazione del sopra citato consolidato orientamento che impone l’estinzione dell’assegno una volta accertata una sopravvenuta stabile convivenza di fatto, senza possibilità per il giudicante di ponderare i redditi dei coniugi al fine di stabilire, comunque, un eventuale assegno divorzile; l’indicato automatismo, risultando di contrasto con la lettera della norma, andrebbe riferito al solo e diverso caso delle nuove nozze.

Avv. Luigi Romano

L’art. 151, comma 2, del codice civile prevede l’addebito della separazione per colpa, cioè la possibilità che l’allontanamento dei coniugi sia addebitato a colui o colei che abbia tenuto un comportamento contrario ai doveri nascenti dal matrimonio. Tali doveri sono individuati nell’art. 143 del codice civile, in particolare: dovere di fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione nell’interesse della famiglia e coabitazione.
I presupposti per una pronuncia di separazione con addebito sono: la richiesta in tal senso di uno dei coniugi, la violazione di uno dei doveri matrimoniali indicati nell’art. 143 c.c. e il nesso di causalità tra una tale violazione e la crisi coniugale.
Nello specifico, infatti, per la declaratoria di addebito nel giudizio di separazione, il giudice conduce un’indagine sull’intollerabilità della convivenza effettuando una valutazione di carattere globale e comparando le condotte assunte da entrambi i coniugi. In altri termini, ogni opportuno riscontro o valutazione giudiziaria non potrà fondarsi esclusivamente sul comportamento adottato dal coniuge “trasgressore”, poiché soltanto dalla predetta complessiva valutazione potrà evincersi la rilevanza ed il peso reale che le rispettive condotte hanno avuto nella crisi coniugale.
Quindi, a titolo esemplificativo, non è automatico che l’addebito della separazione sia conseguenza necessaria nelle ipotesi di tradimento, come è invece accaduto nella vicenda recentemente decisa dalla Corte di Cassazione con la pronuncia in oggetto.
Con l’ordinanza n. 3879/2021 (sotto allegata) la Suprema Corte ha giudicato corretta e insindacabile, anche dal punto di vista della valutazione delle prove, la sentenza della Corte d’Appello che ha confermato la decisione di addebito della separazione in capo ad un marito, responsabile di aver intrattenuto incontri online a pagamento con altre donne.
Nello specifico, la moglie aveva documentato in giudizio una molteplicità di elementi che hanno convinto i giudici di merito, perché rappresentavano validi indizi dell’avvenuta infedeltà: si trattava di sms, di fotografie e, soprattutto, di ricevute di «pagamenti per siti di incontri online con donne».
Al riguardo, la versione sostenuta dal marito, che negava le sue presunte infedeltà e respingeva la richiesta di addebito della separazione, è stata ritenuta «inverosimile» tanto dai giudici di merito quanto dalla Suprema Corte con conseguente conferma dell’addebito della separazione a suo carico.
A questo punto è opportuno soffermarsi sulle conseguenze di una pronuncia di addebito, le quali coinvolgono in particolar modo l’ambito patrimoniale del coniuge tacciato di “colpevolezza”.
L’effetto primario dell’addebito infatti è certamente rinvenibile nella perdita, da parte del coniuge che lo subisce, del diritto all’assegno di mantenimento.
Ciononostante è importante chiarire che l’eventuale declaratoria di addebito in capo al coniuge trasgressore non impedirà a quest’ultimo, ricorrendone i presupposti di legge, di godere del diritto agli “alimenti” nei confronti dell’altro coniuge.
Giova infatti ricordare che, mentre l’assegno di mantenimento persegue lo scopo di garantire, al coniuge che ne beneficia, il godimento e la conservazione delle medesime condizioni economiche esistenti durante il corso del matrimonio, l’assegno alimentare viene riconosciuto invece al fine di consentire al coniuge economicamente più debole i mezzi necessari e sufficienti per far fronte alle esigenze economiche legate al soddisfacimento dei propri bisogni primari.
Di notevole rilevanza sono poi gli effetti della pronuncia di addebito della separazione in ambito successorio.
Il coniuge separato con addebito perde infatti i diritti di successione inerenti allo stato coniugale, conservando tuttavia soltanto il diritto ad un assegno vitalizio qualora, all’apertura della successione dell’altro coniuge, egli già godeva dell’assegno alimentare a carico di quest’ultimo.
Ulteriore effetto dell’addebito della separazione lo si rinviene in tema di prestazioni previdenziali riconosciute al coniuge defunto, quali ad esempio il diritto alla pensione di reversibilità ed altre indennità previste dalla legge.
Mentre infatti al coniuge separato “senza addebito” spetterà certamente il diritto a tali prestazioni previdenziali, il coniuge separato “con addebito” conserverà ugualmente il diritto a percepire dette corresponsioni soltanto sul presupposto dell’effettivo godimento, in vita dell’altro coniuge, dell’assegno alimentare.
Infine, preme sottolineare che l’eventuale pronuncia di addebito non condiziona in alcun modo l’adozione di provvedimenti da parte dell’autorità giudiziaria sull’affidamento dei figli. L’interesse morale e materiale di questi ultimi è infatti del tutto disancorato dall’accertamento sulla responsabilità in ordine alla separazione e alla consequenziale declaratoria di addebito.
Tuttavia qualora si dimostri che l’atteggiamento del coniuge colpevole possa esercitare una qualche influenza negativa sull’educazione e sulla morale dei figli, la pronuncia di addebito non sarebbe sgombra da interferenze rispetto ai provvedimenti di affidamento dei figli stessi.
Avv. Claudia Romano

Gli embrioni creati e crioconservati da una coppia che nel frattempo si è separata potranno essere impiantati nella donna anche contro la volontà dell’ex partner.

Lo ha stabilito il Tribunale di Santa Maria Capua a Vetere con l’ordinanza del ordinanza del 27 gennaio 2021 che, per la prima volta in Italia, riconosce il diritto assoluto della donna di utilizzare gli embrioni creati con il coniuge e poi congelati.

La soluzione adottata dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere valorizza il consenso al trattamento procreativo prestato dal marito, consenso che diventa irrevocabile dopo che l’embrione si è formato (art. 6, comma 3 l. n. 40/2004).

Per giungere a questa conclusione, i giudici hanno chiamato in causa l’articolo 6, comma 3, della legge 40 del 2004, per cui “la volontà [di diventare genitori attraverso la procreazione medicalmente assistita, ndr] può essere revocata da ciascuno dei soggetti […] fino al momento della fecondazione dell’ovulo”. Dopo non più.

Il problema, sotto il profilo oggettivo, ha iniziato a esistere con la sentenza 151/2009 della Corte Costituzionale, che – modificando la legge 40 – ha iniziato a permettere il congelamento degli embrioni. Fino a quel momento, infatti, la norma prevedeva che si potessero fecondare fino a un massimo di tre ovociti, i quali avrebbero dovuto essere simultaneamente impiantati nell’utero della donna. Era infatti questo il principio vigente prima della decisione della Consulta: una volta ottenuto, ogni embrione avrebbe dovuto essere messo nelle condizioni di nascere.

La scelta interpretativa si fonda sulla rilevanza che assume la discendenza biologica, della quale il ricorrente ha specificamente fornito ampia prova, avendo comunque espresso un consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita ed autorizzando l’utilizzazione del proprio seme precedentemente prelevato e crioconservato, ed il nato.  Ciò premesso, il Tribunale ha ordinato il trasferimento intrauterino degli embrioni crioconservati.

Poco più di 20 anni fa, con una pronuncia del 9 maggio 2000, il Tribunale di Bologna aveva deciso un caso simile a quello campano in modo diametralmente opposto. Alla base del ragionamento seguito dai giudizi emiliani c’erano due presupposti: il fatto che “gli ovuli umani fecondati ma non impiantati” sarebbero […] entità ben diversa dagli embrioni già allocati nell’utero materno”, e quello per cui essi non godrebbero in ogni caso “della stessa tutela legale […] della persona nata viva”. Così, sulla scorta di ciò, “considerato […] che il diritto di procreare o di non procreare è costituzionalmente garantito, specie qualora non vi sia in atto una gravidanza, sarebbe in netto contrasto con il diritto di non procreare riconosciuto anche al genitore di sesso maschile la concessione alla sola donna di decidere se procedere nell’impianto in utero degli embrioni”.

Avv. Claudia Romano

 

Il cognome è il nome che indica a quale famiglia appartiene una persona e, insieme al prenome, o “nome proprio di persona”, forma l’antroponimo.

Ma nel nostro ordinamento esiste l’obbligo del cognome paterno?

La legge in Italia preferisce il cognome del padre a quello della madre, anche quando al figlio vengono dati entrambi i cognomi, quello del padre viene prima di quello della madre.

Il motivo dovrebbe essere ricercato nella volontà di attribuire un riconoscimento formale alla paternità, visto che la maternità è sempre sicura.

Tuttavia non si può affermare che esista una vera e propria regola che imponga di dare ai figli il cognome del padre.

L’articolo 6 del codice civile, che disciplina il diritto al nome, dispone infatti soltanto che «ogni persona ha diritto al nome che le è per legge attribuito. Nel nome si comprendono il prenome e il cognome».

A tale conclusione era giunta anche la Cassazione con l’ordinanza n. 13298/2004 con la quale aveva evidenziato che non esiste nel nostro ordinamento una disposizione diretta ad attribuire ai figli legittimi il cognome paterno.

Tanto che la Corte Costituzionale sulla questione del cognome dei figli, si è espressa con la storica sentenza n. 286/2016, con la quale ha dichiarato incostituzionali le norme che disciplinano il cognome, nella parte nella quale, quando nasce un figlio, non consentono ai genitori di comune accordo, di attribuire allo stesso anche il cognome materno.

La previsione della Corte Costituzione si riferisce sia alle coppie sposate che a quelle di conviventi, nonché ai figli avuti in adozione.

Ma cosa accade se il riconoscimento dei figli naturali non è contemporaneo?

L’art. 262, I co, c.c. stabilisce che il figlio nato fuori dal matrimonio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto, senza alcun accenno alla maternità o alla paternità, ma richiamando un criterio temporale. Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio naturale assume il cognome del padre.

Sulla scorta di queste considerazioni, il 14 gennaio scorso, attraverso un comunicato, la Corte Costituzionale ha informato che è stata sollevata davanti alla stessa, dal Tribunale di Bolzano, una questione di costituzionalità in relazione formulazione del predetto articolo 262 comma 1 del codice civile «là dove non prevede, in caso di accordo tra i genitori, la possibilità di trasmettere al figlio il cognome materno invece di quello paterno».

La Consulta, con l’ordinanza 18/2021, relatore Giuliano Amato, però è andata oltre, rimettendo a se stessa la questione di legittimità dell’articolo 262, nella parte in cui, in mancanza di accordo dei genitori, impone l’acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori.

A sostegno della decisione di auto rimessione della questione di legittimità (pregiudiziale rispetto a quella sollevata dal Tribunale di Bolzano), la Corte ha osservato che, qualora venisse accolta la prospettazione del Tribunale di Bolzano, in tutti i casi in cui manchi l’accordo dovrebbe essere ribadita la regola che impone l’acquisizione del solo cognome paterno. E poiché si tratta dei casi verosimilmente più frequenti, verrebbe ad essere così riconfermata la prevalenza del patronimico, la cui incompatibilità con il valore fondamentale dell’uguaglianza è stata riconosciuta, ormai da tempo, dalla stessa Corte, che ha più volte invitato il legislatore a intervenire.

Si è ancora in attesa della pronuncia di costituzionalità da parte della Corte, la cui rilevanza è evidente, in un momento storico nel quale si sta facendo molto per contrastare qualsiasi forma di discriminazione di genere.

Avv. Claudia Romano

Depressione da tradimento, si può essere risarciti?

A chiarire la questione è intervenuta la Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 26383, 19 novembre 2020, che, riportandosi ad un orientamento ormai consolidato, ha affermato come la violazione del dovere di fedeltà derivante dal matrimonio non debba essere sanzionata soltanto con l’addebito della separazione, ma possa dar luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali – anche in assenza di pronuncia di addebito – «sempre che la condizione di afflizione indotta nel coniuge superi la soglia della tollerabilità e si traduca, per le sue modalità o per la gravità dello sconvolgimento che provoca, nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto, quale, in ipotesi, quello alla salute o all’onore o alla dignità personale».

Alcune riflessioni.

Scoprire l’infedeltà del coniuge, o del compagno legato in un’unione stabile, è una sempre un trauma che può comportare molta sofferenza ed anche serie conseguenze a livello psichico.

Talvolta che è stato tradito cade in depressione: diventa triste, si isola, interrompe le sue frequentazioni, può perdere il lavoro. Così le conseguenze che patisce si allargano ben oltre l’evento e il momento specifico della conclamata infedeltà.

Pesa in modo insopportabile l’amara sensazione di aver gettato al vento una consistente parte della propria vita, con tutti i sentimenti dedicati a chi non li ha meritati. L’ombra del tradimento ricevuto può protrarsi molto a lungo e durare anche dopo la cessazione del rapporto matrimoniale a seguito della separazione dei coniugi. Il trauma, se non viene metabolizzato, può addirittura impedire di rifarsi una vita e di instaurare nuove relazioni sentimentali; pregiudica molto chi lo subisce anche nella normale vita di relazione; dunque gli effetti sono estesi ben al di là delle conseguenze sulla reputazione dell’interessato, quando il tradimento è conclamato.

In questi casi l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, rappresenta una violazione talmente grave da giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile (Cass. 16691/20).

Ma indipendentemente da questo, la violazione di detto obbligo di fedeltà può comportare anche il risarcimento del c.d. danno endofamiliare, dimostrando la lesione di un diritto fondamentale della persona, costituzionalmente protetti, senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia preclusiva dell’azione di risarcimento.

A tal fine non è sufficiente disporre di una certificazione medica che attesti la depressione dopo il tradimento constatato per ottenere il risarcimento. La depressione clinicamente diagnosticata senza dubbio lede il diritto alla salute, ma non basta esserne affetti dopo la scoperta, inaspettata, dell’infedeltà del coniuge. Nè rileva assolutamente se il fallimento del matrimonio sia o meno imputabile all’altro coniuge e in caso affermativo in quale misura o percentuale: non è da ciò che deriva la possibilità di risarcimento del danno, che non ha la funzione di “punire” il responsabile della fine dell’unione.

Occorre qualcosa di più del fatto storico del tradimento. Bisogna dimostrare che c’è stata la lesione di un diritto. E la prova da fornire non è semplice.

E’ necessario che i comportamenti illeciti abbiano leso in modo significativo i diritti fondamentali della persona, come quello alla dignità ed alla reputazione oppure quello della salute, intesa in senso non solo fisico ma anche psichico.

Si tratta evidentemente di danni sia patrimoniali (quali, ad esempio, le spese vive che le cure comportano non patrimoniali) che non patrimoniali, vasta categoria che comprende quelli morali, esistenziali o di lesione dell’immagine, accomunati dal fatto che non nascono come pregiudizio direttamente economico (come nel caso di una somma di denaro non pagata dal creditore) ma solo successivamente al loro insorgere nella sfera del soggetto vengono quantificati e “tradotti” in un ammontare ritenuto corrispondente alla loro entità ed al pregiudizio arrecato nello stato d’animo e nell’integrità psico-fisica di chi li ha subiti.

Pertanto, riconosciuta la natura extracontrattuale ex art. 2043 c.c. dell’illecito endofamiliare, spetterà al coniuge danneggiato dimostrare non solo il nesso causale tra violazione dei doveri coniugali e lesione di diritti costituzionalmente garantiti, ma lo stesso coniuge sarà tenuto a dimostrare, altresì, il comportamento doloso del danneggiante.

Al riguardo, ai fini dell’imputazione della condotta al danneggiante non è richiesto un dolo specifico, ma un semplice dolo generico, inteso come consapevolezza di porre in essere un comportamento dannoso nei confronti dell’altro coniuge.

Le domande possono essere svolte all’interno della causa di separazione, nonostante la diversità dei riti cui sono sottoposte – speciale per la separazione, ordinario per il risarcimento – essendovi connessione in forza dell’art. 40 c.p.c in relazione all’art. 31 c.p.c., innestandosi la domanda risarcitoria sulla causa del danno che può risiedere nella violazione dell’obbligo ridetto, legittimando il simultaneus processus (App. Roma 10 maggio 2010). Secondo un diverso orientamento, la domanda risarcitoria può in ogni modo essere formulata anche separatamente, attraverso un procedimento ordinario. La prassi giurisprudenziale tende tuttavia ad escludere che la domanda risarcitoria possa essere formulata successivamente alla separazione per condotte note in precedenza al coniuge leso, soprattutto quando la separazione abbia determinato condizioni economiche o patrimoniali favorevoli a quest’ultimo. In questo caso, infatti, la previsione di accordi patrimoniali ovvero obblighi di mantenimento a favore del coniuge leso potrebbero essere interpretate come componenti economiche di natura risarcitoria, con la conseguente preclusione di ulteriori decisioni in merito in virtù del principio del ne bis in idem.

Avv. Claudia Romano

Addio all’assegno divorzile per una donna di 46 anni, in buone condizioni di salute ma con poca voglia di attivarsi per trovare un lavoro.

Vittoria definitiva, quindi, per l’ex marito, liberatosi dall’obbligo di versare alla ex moglie 200 euro ogni mese.

Inutilmente il legale della donna ha rappresentato ai Giudici che la sua cliente era ormai “fuori mercato” non avendo mai lavorato durante gli anni del matrimonio; «il tenore di vita goduto dalla famiglia in costanza di matrimonio»; «l’aumento dell’età della donna» con conseguente «difficoltà di reinserimento nel mondo del lavoro, da cui si è allontanata circa venti anni prima». Inutilmente il difensore ha contestato l’astratta valutazione di «idoneità all’attività lavorativa» della sua cliente, sostenendo che, comunque, «anche ove ella avesse ripreso a svolgere attività lavorativa, ciò non le avrebbe potuto assicurare l’indipendenza economica».

I Giudici della Cassazione, con ordinanza 2 dicembre 2020 – 4 febbraio 2021, n. 2653, condividono la linea tracciata dalla Corte di Appello, che ha «tenuto conto dell’età, non particolarmente avanzata, della donna (46 anni), dell’assenza di patologie o condizioni di salute ostative all’attività lavorativa – addetta alle pulizie – già svolta occasionalmente, nonché della situazione economica complessiva» e, infine, «di un atteggiamento rinunciatario della signora a trovare un’occupazione».

Decisiva, per la Corte, soprattutto la valutazione dell’atteggiamento rinunciatario della donna nel cercare un’occupazione.

Per gli ermellini “non esistono impedimenti” alla ricerca di un impiego. “Ha soli 46 anni – scrivono nella sentenza –quindi non è di età particolarmente avanzata“. Per ottenere l’assegno l’ex coniuge deve “dimostrare di essersi impegnata nella ricerca di un’occupazione“. Senza contare che la donna “quando era sposata, non viveva nel lusso“.  Non solo, ma poteva tornare “a lavorare come addetta alle pulizie” come era già accaduto, in modo saltuario, in passato.

A convincere i giudici circa l’annullamento dell’assegno è stata anche l’innegabile evidenza del fatto che la donna aveva da tempo una nuova relazione stabile, tenuta nascosta e che lei alla fine aveva ammesso giustificandola però come una “relazione amicale“.

La sentenza della Cassazione 4 febbraio n. 2653 è destinata a segnare una svolta nell’eterno conflitto tra ex coniugi circa le questioni riguardanti l’aspetto meramente economico dei “postumi matrimoniali” di una coppia divorziata del Torinese.

Avv. Maria Martignetti

La Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione, con sentenza n°1202 del 21 gennaio 2020, chiarisce che la trascrizione dell’atto di trasferimento immobiliare eventualmente contenuto nell’accordo di separazione o divorzio – raggiunto in sede di negoziazione assistita ai sensi dell’art. 6 del D.L. n. 132 del 2014 convertito, con modificazioni, nella L. n. 162 del 2014 – presuppone l’autenticazione delle sottoscrizioni del processo verbale dell’accordo stesso ad opera del pubblico ufficiale a ciò autorizzato, non potendosi riconoscere analogo potere certificativo agli avvocati che assistono le parti.

Il caso

La vicenda trae origine dalla composizione di un conflitto coniugale raggiunta in sede di negoziazione assistita. L’accordo di separazione personale sottoscritto nelle prescritte forme di legge, quindi autenticato dai rispettivi difensori, oltre a regolamentare gli aspetti personali della separazione – quali l’affidamento condiviso del figlio minore e la determinazione della misura dell’assegno dovuto dal marito per il mantenimento del figlio – contemplava il trasferimento della proprietà di una quota dell’immobile adibito a casa coniugale; il notaio, si era limitato ad effettuare l’autenticazione delle sottoscrizioni, l’autentica c.d. “minore”, senza effettuare il controllo di legalità dell’atto e, quindi, senza iscrivere il verbale a repertorio, senza metterlo a raccolta, né provvedere alla celere trascrizione dello stesso e, successivamente, il conservatore dei registri immobiliari rifiutava la trascrizione dell’accordo raggiunto dai coniugi in sede di negoziazione assistita, informando dell’inadempimento il consiglio notarile.

Avviato il procedimento disciplinare nei confronti del notaio, la Commissione Regionale di Disciplina qualificava la condotta del professionista come colpevole inadempimento delle modalità con cui doveva essere effettuata, ai fini dell’art. 2657 c.c., l’autentica richiesta dal comma 3 dell’art. 5 della L. 162/2014.

Dolendosi delle accuse mosse nei suoi confronti, il notaio adiva la Corte d’Appello la quale, tuttavia, rigettava integralmente il reclamo proposto dal professionista rilevando, in particolare, che, contenendo l’accordo dei coniugi un atto di trasferimento immobiliare, si rendeva necessaria un’autentica ai sensi dell’art. 72 della legge notarile che impone al notaio il controllo di legalità, essendogli vietato di ricevere o autenticare atti espressamente proibiti dalla legge, manifestamente contrari al buon costume e all’ordine pubblico ai sensi dell’art. 28 legge notarile.

Il ricorso per cassazione

A fronte del rigetto del suo reclamo da parte della Corte territoriale, il notaio proponeva ricorso per cassazione sostenendo, tra le censure proposte, di essersi limitato ad effettuare una c.d. “autentica minore” non di un atto notarile, ma di un verbale di accordo comportante il trasferimento immobiliare sottoscritto dai coniugi nell’ambito della negoziazione assistita per la loro separazione consensuale e, dunque, di non essere obbligato:

  • ad eseguire il controllo di legalità del verbale di accordo comportante il trasferimento immobiliare sottoscritto dai coniugi nell’ambito della convenzione di negoziazione assistita per la loro separazione consensuale,
  • di iscrivere il verbale a repertorio, di metterlo a raccolta, né provvedere alla celere trascrizione dello stesso.

La decisione della Suprema Corte

Con la decisione in commento, la Suprema Corte, ha respinto le doglianze del professionista ricorrente sancendo il principio di diritto secondo cui “ogni qualvolta l’accordo stabilito tra i coniugi, al fine di giungere ad una soluzione consensuale di separazione personale, ricomprenda anche il trasferimento di uno o più diritti di proprietà su beni immobili, la disciplina di cui al D.L. n. 132 del 2014, art. 6, conv. in L. n. 162 del 2014, deve necessariamente integrarsi con quella di cui al medesimo D.L. n. 132 del 2014, art. 5, comma 3, con la conseguenza che per procedere alla trascrizione dell’accordo di separazione contenente anche un atto negoziale comportante un trasferimento immobiliare, è necessaria l’autenticazione del verbale di accordo da parte di un pubblico ufficiale a ciò autorizzato, ai sensi dell’art. 5, comma 3”.

In conclusione

Gli Ermellini, hanno ritenuto sussistente l’illecito disciplinare contestato, in quanto il notaio aveva l’obbligo di procedere nelle forme previste dall’art. 2703 c.c., con il conseguente obbligo di iscrizione dell’atto nel repertorio ex art. 62 l.n. e di conservazione e raccolta ex art. 72 l.n., nonché quello di effettuare la trascrizione nel più breve tempo possibile ex artt. 2643 e 2671 c.c..

Avv. Luigi Romano

Il nostro ordinamento riconosce il diritto  del minore – che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore se capace di discernimento –  ad essere ascoltato nei giudizi in cui si devono adottare provvedimenti che lo riguardano (cfr. artt. 315 bis336 bis e 337 octies, cod. civ., introdotti dalla L. 219/2012 e dal D. Lgs. 154/2013).

La consapevolezza dell’importanza dell’ascolto, prima ancora che dal nostro ordinamento, è stata riconosciuta in numerose convenzioni internazionali. L’audizione dei minori, già prevista nell’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta infatti un adempimento necessario, nelle procedure giudiziarie che li riguardino, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996.

Costituisce, pertanto violazione del principio del contraddittorio e dei principi del giusto processo il mancato ascolto che non sia sorretto da espressa motivazione sull’assenza di discernimento che ne può giustificare l’omissione, in quanto il minore è portatore d’interessi contrapposti e diversi da quelli del genitore, in sede di affidamento e diritto di visita e, per tale profilo, è qualificabile come parte in senso sostanziale.

Al riguardo occorre chiarire che la capacità di discernimento non va confusa con quella di intendere e di volere, meglio nota in ambito penale (dove il minore di 14 anni non è imputabile e si presume incapace di comprendere il significato delle leggi penali e le conseguenze di legge di una determinata condotta) ma rappresenta una categoria psico- giuridica che fa riferimento alla capacità del minore di elaborare autonomamente idee e concetti, di avere opinioni proprie e di comprendere gli eventi. Il giudice potrà valutare la sussistenza o meno di tale capacità anche disponendo, prima di ascoltare il minore, una osservazione (attraverso un colloquio clinico-valutativo) da parte di un perito. Di solito comunque, tale capacità viene ritenuta sussistente quando il bambino abbia raggiunto l’età scolare.

E’ rimessa al Giudice l’individuazione delle concrete modalità con le quali va effettuato, ovvero direttamente piuttosto che per il tramite del consulente d’ufficio o dei Servizi sociali (così, tra le altre Cass. 22178/18; Cass.19327/15).

La Corte di Cassazione, con la recente ordinanza 1474 del 25 gennaio 2021 è intervenuta sul tema dell’audizione del minore, accogliendo il ricorso di un padre che chiedeva l’ascolto della figlia undicenne collocata presso la madre, e ha statuito che «l’audizione del minore infradodicenne, capace di discernimento, costituisce adempimento previsto a pena di nullità, in relazione al quale incombe sul giudice un obbligo di specifica e circostanziata motivazione, tanto più necessaria quanto più l’età del minore si approssima a quella dei dodici anni, oltre la quale subentra l’obbligo legale dell’ascolto».

Esistono, in ogni caso, delle situazioni nelle quali il giudice può rinunciare all’audizione del figlio.

Una di queste, come anticipato, è quella in cui il minore, avendo meno di 12 anni, non sia ritenuto capace di discernimento. Altra ipotesi di esclusione è prevista quando l’ascolto contrasti con l’interesse del minore: ne è un esempio tipico il caso in cui il figlio sia già stato sentito in altre occasioni su questioni per lui molto dolorose e in grado di porlo in uno stato d’ansia (come violenze fisiche o psicologiche subite o anche assistite). Ancora, il giudice può evitare l’ascolto del minore quando questo sia manifestamente superfluo; tale situazione viene di norma individuata in tutti quei casi in cui i genitori abbiano raggiunto un accordo sulle questioni di vita dei figli; in tali casi, infatti, si presume che sussista (al pari di quanto avviene nella vita quotidiana di una coppia non separata) la capacità dei genitori di trovare le soluzioni che maggiormente tutelino la prole.

Tuttavia, come chiarito dalla Suprema Corte nel caso in esame, se il giudice «ritenga il minore infradodicenne incapace di discernimento ovvero l’esame manifestamente superfluo o in contrasto con l’interesse del minore» il giudice può optare, «in luogo dell’ascolto diretto, per un ascolto effettuato nel corso di indagini peritali o demandato ad un esperto al di fuori di detto incarico. L’ascolto diretto del giudice dà, per vero, spazio alla partecipazione attiva del minore al procedimento che lo riguarda, mentre la consulenza è indagine che prende in considerazione una serie di fattori quali, in primo luogo, la personalità, la capacità di accudimento e di educazione dei genitori, la relazione in essere con il figlio».

Un ultimo caso in cui l’obbligo dell’ascolto viene meno si ha quando sia proprio il figlio a rifiutare l’audizione. Quello del figlio ad essere ascoltato, infatti, è innanzitutto un suo diritto e ad esso corrisponde anche la facoltà del minore di non avvalersene.

Avv. Claudia Romano

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