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L’accettazione dell’eredità con beneficio di inventario fatta dal legale rappresentante del minore, senza la successiva redazione dell’inventario, consente al minore stesso di rinunciare all’eredità entro l’anno dal raggiungimento della maggiore età?

È questo il quesito posto all’attenzione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che con la sentenza n. 31310/2024 del 22 ottobre 2024, pubblicata il 6 dicembre 2024, hanno risolto un annoso contrasto giurisprudenziale e fornito chiarimenti importanti in punto di accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario per conto del minore da parte del genitore esercente la responsabilità genitoriale.

Nel caso di specie, due fratelli proposero dinanzi al Tribunale di Padova opposizione all’esecuzione intrapresa nei loro confronti da un istituto bancario per il pagamento delle rate di mutuo acceso dal loro padre, deceduto quando erano ancora minorenni, eccependo che, avendo rinunciato all’eredità paterna entro l’anno dal raggiungimento della maggiore età, ai sensi dell’art. 489 c.c., non potevano rispondere del debito.

Il Tribunale respinse l’opposizione, rappresentando che, quando gli attori erano ancora minorenni, la loro madre, aveva accettato, a loro nome e nel loro interesse, l’eredità con beneficio di inventario, sicché la rinuncia da loro fatta successivamente era inefficace.

La Corte di appello di Venezia confermò la decisione di primo grado, affermando che l’eredità devoluta al minore e accettata dal genitore con beneficio di inventario comporta, anche nel caso in cui l’ inventario non sia redatto, l’acquisto della qualità di erede da parte del minore. L’art. 489 c.c., infatti, attribuisce al minore, una volta raggiunta la maggiore età, solo la facoltà di redigere l’inventario nel termine di un anno, non anche di rinunciare all’eredità, come confermato dal fatto che la rinuncia non è sottoposta a forme di pubblicità.

Avverso la suddetta pronuncia è stato proposto ricorso per Cassazione. Con ordinanza interlocutoria n. 34852 del 13 dicembre 2023 la Seconda Sezione civile ha rimesso alle Sezioni unite la decisione del ricorso, per la presenza, con riguardo alla questione giuridica posta dal primo motivo, di soluzioni contrastanti nella giurisprudenza di questa Corte e reputando comunque la questione di particolare importanza (“il primo motivo di ricorso, nel denunciare la violazione degli artt. 471 e 484 cod. civ. in relazione all’art. 489 c.c., censura la sentenza impugnata rappresentando che il principio da essa affermato si pone in contrasto con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, espresso con le pronunce n. 9514 del 2017 e n. 4561 del 1988, secondo cui l’accettazione dell’eredità ex art. 484 cod. civ. da parte del legale rappresentante del minore, che non sia seguita dalla redazione dell’ inventario, non comporta nei confronti dello stesso l’acquisto della qualità di erede, con l’effetto che egli, entro l’anno dal conseguimento della maggiore età, può rinunziarvi. Tale conclusione si giustifica alla luce della configurazione dell’accettazione con beneficio di inventario in termini di fattispecie a formazione progressiva, i cui effetti si producono solo con il suo completamento e, quindi, con la redazione dell’inventario”).

In altre parole, le Sezioni Unite della Cassazione furono chiamate a chiarire se il minore acquisti la qualità di erede fin dal momento della dichiarazione formale di accettazione con beneficio di inventario resa dal suo legale rappresentante, quindi anche nel caso in cui questi non provveda a redigere l’ inventario, oppure conservi, in tale eventualità, la posizione di chiamato all’eredità, con conseguente facoltà di rinuncia.

Le Sezioni Unite, richiamando il principio del “semel heres semper heres”, secondo cui chi accetta l’eredità l’acquista in modo definitivo, non essendo la relativa dichiarazione revocabile, hanno risolto il quesito nel senso che la dichiarazione di accettazione di eredità con beneficio di inventario resa dal legale rappresentante del minore, anche se non seguita dalla redazione dell’ inventario, fa acquisire al minore la qualità di erede, rendendo priva di efficacia la rinuncia all’eredità manifestata dallo stesso una volta raggiunta la maggiore età, seguendo il seguente iter argomentativo:

  • il negozio di accettazione dell’eredità con beneficio di inventario è irretrattabile: deve, pertanto, escludersi che, ad accettazione dell’eredità avvenuta da parte del legale rappresentante del minore, nella forma beneficiata come richiesto dalla legge, il minore stesso possa essere considerato, fino ad un anno dopo il compimento della maggiore età, mero chiamato all’eredità e non erede, e che gli sia concessa la facoltà di rinuncia, come se la dichiarazione di accettazione beneficiata del suo legale rappresentante non fosse mai stata resa, in base ad una non consentita equiparazione tra la dichiarazione di accettazione beneficiata non seguita dall’ inventario e l’accettazione pura e semplice fatta dal legale rappresentante del minore;
  • invero, ai sensi dell’art. 459 c.c., l’eredità si acquista con l’accettazione;
  • tale ultimo principio non risulta derogato dall’art. 489 c.c., norma di carattere speciale, che consente al minore di eseguire l’inventario entro un anno dal raggiungimento della maggiore età (pena la decadenza dal beneficio di inventario), ma non anche la possibilità di rinunciare all’eredità già accettata, con la conseguenza che se entro tale termine non viene redatto l’inventario il minore divenuto maggiorenne sarà considerato erede puro e semplice;
  • il beneficio di inventario non costituisce una condizione sospensiva dell’efficacia dell’accettazione, né costituisce un requisito del negozio di accettazione.

 

Articolo a cura dell’avv. Gilda Pugliese

La Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza 21969/2024 del 24 aprile 2024, depositata in data 5 agosto 2024, ha fornito essenziali chiarimenti sulla portata della volontà del minore, qualora espressa con consapevolezza e maturità, capace di fondare essa sola l’interruzione dei rapporti con i suoi genitori, e ciò indipendentemente da una valutazione di un’eventuale responsabilità dei genitori e degli stessi motivi addotti dal figlio.

 

Il caso.

La vicenda in esame trae origine dall’impugnazione di una sentenza con cui la Corte d’Appello di Torino, in un giudizio di separazione vertente altresì sull’affidamento e mantenimento di una figlia adolescente, aveva prorogato l’affidamento temporaneo della minore agli zii paterni, attribuendo agli affidatari l’esercizio della responsabilità genitoriale sulla stessa, confermando altresì l’interruzione degli incontri della figlia con il padre e con la madre.

La decisione di interrompere le frequentazioni tra la figlia e i genitori veniva fondata dai giudici d’appello non solo sulle risultanze delle relazioni dei servizi sociali e sul rappresentato fallimento dei percorsi intrapresi dai genitori per il recupero della capacità genitoriale, ma soprattutto sulla volontà esternata dalla stessa minore di non aver più alcun rapporto con i genitori.

Avverso la predetta sentenza ricorreva per cassazione il padre, dolendosi inter alia:

  • dell’illegittima ingerenza dell’autorità statale su diritti consacrati agli articoli 29 e 30 Cost. nonché art. 8 CEDU e art. 24, par.3 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE;
  • dell’omessa audizione dei nonni paterni della minore, a cui lo stesso non avrebbe mai rinunciato.

 

La decisione della Suprema Corte.

Ad avviso degli Ermellini tutti i motivi di ricorso sono da ritenersi inammissibili, dando continuità ad un risalente orientamento, fondato sui principi consacrati nella Convenzione ONU del 1989 sui diritti del fanciullo, secondo cui “…la circostanza che un figlio minore, divenuto oramai adolescente e perfettamente consapevole dei propri sentimenti e delle loro motivazioni, provi nei confronti del genitore non affidatario sentimenti di avversione, o, addirittura, di ripulsa, – tal punto radicati da doversi escludere che possano essere rapidamente e facilmente rimossi, nonostante il supporto di strutture sociali e psicopedagogiche – costituisce fatto idoneo a giustificare anche la totale sospensione degli incontri tra il minore stesso e il coniuge non affidatario (cfr. cass. 317/1998)”.

 

In particolare, la Suprema Corte ha ritenuto:

  • correttamente e ampiamente motivato dal giudice del gravame la totale inidoneità paterna “…immaturo ed affetto da ossessioni patologiche, ad intrattenere rapporti sereni ed equilibrati con la figlia, nonostante i tentativi fatti per consentirgli un recupero della capacità genitoriale, falliti per il suo comportamento, a tratti perfino aggressivo”;
  • dirimente l’accertamento operato dalla Corte d’Appello “…sulla base della relazione della curatrice – che l’interruzione di ogni contatto con il padre corrisponde alle ‘accorate richieste (della minore)’, rimaste fino ad allora inascoltate”;
  • il grado di maturità e consapevolezza della minore, giudicata “…intellettivamente molto dotata, con una maturità superiore all’età, che ha sempre mostrato una piena autonomia di giudizio e una non comune lucidità di lettura degli avvenimenti in cui è stata coinvolta”.

 

La Corte di Cassazione spingendosi oltre il caso concreto, chiarisce altresì come la sospensione degli incontri genitore figlio possa essere disposta indipendentemente sia “dalle eventuali responsabilità di ciascuno dei genitori rispetto all’atteggiamento del figlio” che “dalla fondatezza delle motivazioni addotte da quest’ultimo per giustificare detti sentimenti”.

Ad avviso della Suprema Corte infatti, la valutazione demandata al giudicante verte sulla “profondità e intensità” dei predetti  sentimenti e su un giudizio prognostico sugli effetti che “…il prosieguo degli incontri con il genitore avversato potrebbe portare” ovvero se “ad un superamento senza gravi traumi psichici della sua animosità iniziale ovvero ad una dannosa radicalizzazione della stessa”.

La Suprema Corte di Cassazione, sez. III^, con sentenza n°5353 del 21 febbraio 2023, ha offerto preziosi chiarimenti circa la validità e i limiti, anche ratione temporis, delle c.d. “side letters”, ovvero le scritture private sottoscritte dai coniugi (o da genitori non sposati) integranti le condizioni dei provvedimenti in materia familiare.

Gli Ermellini, in particolare:

  • riconoscono, in virtù del principio di autonomia consacrato nell’art. 1322 c.c., l’astratta possibilità per le parti di sottoscrivere le c.d. “side letters”, “…con il limite del rispetto dei diritti indisponibili, non solo gli aspetti patrimoniali, ma anche quelli personali della vita familiare” (Cass. civ., Sez. I^, sent. 20 agosto 2014, n. 18066, Rv. 632256-01);
  • le predette scritture possono anche integrare il contenuto dei provvedimenti separatizi e/o divorzili, ad esempio mediante la modifica della “…disciplina della modalità di corresponsione dell’assegno di mantenimento, che preveda il versamento da parte del genitore obbligato direttamente al figlio di una quota del contributo complessivo di cui risulta beneficiario l’altro genitore” (Cass. Sez. 1, ord. 24 febbraio 2021, n. 5065, Rv. 660758-01).;
  • il contenuto delle predette può anche consistere nell’interpretazione extra-testuale di un titolo esecutivo purchè: a) “…che non sovrapponga la propria valutazione in diritto a quella del giudice del merito” (Cass. Sez. 3, sent. 5 giugno 2020, n. 10806, Rv. 658033-02)”; B), “…l’esito non sia tale da attribuire al titolo una portata contrastante con quanto risultante dalla lettura congiunta di dispositivo e motivazione“;
  • la validità temporale delle statuizioni ivi contenute, qualora concluse “a latere” del ricorso per separazione, può permanere anche successivamente al divorzio tra le parti.

La Suprema Corte di Cassazione, sez. I^ civ., con ordinanza del 24 febbraio 2023 n°5738, ha cassato la decisione con cui la Corte d’Appello di Venezia, confermando le statuizioni del giudice di primo grado, aveva disposto:

  • l’affidamento condiviso di una figlia minore nata fuori dal matrimonio con diritto di visita paritetico (c.d. collocamento alternato);
  • la revoca dell’assegno di mantenimento per la prole, alla luce dell’equa ripartizione dei periodi di frequentazione e dell’analoga condizione reddituale dei genitori;
  • la revoca dell’assegnazione della casa familiare, in precedenza disposto in favore della madre – la conservazione a soli fini anagrafici della residenza della figlia presso la casa familiare.

In particolare, gli Ermellini censurano l’operato dei giudici d’appello che, nel confermare la revoca dell’ex casa familiare, non hanno tenuto in debito conto il preminente interesse del minore alla conservazione dell’habitat domestico, affermando quanto segue:

  • Il provvedimento di revoca della casa familiare non può costituire, come nella specie, un effetto automatico dell’esercizio paritetico del diritto di visita o del cd. “collocamento paritetico”;
  • La valutazione che il giudice del merito deve svolgere non può limitarsi alla buona relazione del minore con entrambi i genitori ma deve avere ad oggetto una giustificazione puntuale, eziologicamente riconducibile esclusivamente alla realizzazione di un maggiore benessere del minore da ricondursi al mutamento del regime giuridico dell’assegnazione della casa “
  • Deve essere evidenziato come questo rilevante mutamento nella esperienza quotidiana di vita del minore, possa produrre, con giudizio prognostico da svolgersi con particolare rigore ove riferito ad un minore, che per la sua tenera età, non può essere ascoltato, un miglioramento concreto per lo stesso o sia finalizzato a scongiurare un pregiudizio per il suo sviluppo prodotto dal diverso regime di assegnazione ante atto. In questo quadro l’assegnazione della casa familiare ha, come affermato costantemente ed univocamente dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 33610 del 2021) l’esclusiva funzione di non modificare l’habitat domestico e il contesto relazionale e sociale all’interno del quale il minore ha vissuto prima dell’inasprirsi del conflitto familiare”;
  • non deve confondersi, al riguardo, il piano del rilievo economico per il genitore assegnatario, dell’assegnazione della casa familiare, dalla finalità del provvedimento, esclusivamente destinata a non compromettere lo sviluppo equilibrato del minore”.

La Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza n°3432 del 3 febbraio 2023, ha chiarito che le c.d. minicar non sono assimilabili a ciclomotori e, pertanto, non possono sostare negli spazi destinati alla sosta dei veicoli a due ruote.

La vicenda in esame trae origine dall’impugnazione di un verbale con cui era stata contestata la violazione dell’art. 7, commi 1 e 14, del C.d.S. a seguito della sosta di una minicar negli spazi riservati a cicli e motocicli.

La sanzione viene impugnata, senza successo sino in Cassazione dai proprietari del veicolo, “forti” di innumerevoli pronunce con cui il Giudice di Pace di Roma aveva accolto analoghe loro opposizioni, ritenendo le minicar equiparabili ai motocicli e, pertanto, legittimate a sostare negli spazi ad essi riservati.

Di diverso avviso gli Ermellini, che respingono il ricorso osservando che “…correttamente, la sentenza di appello ha sufficientemente motivato nel ritenere, conformemente alla decisione di primo grado, che, nella fattispecie, non poteva trovare applicazione – in relazione al tipo di veicolo in questione, un microcar a quattro ruote – la disciplina di cui all’art. 52 c.d.s., con la conseguente legittimità del verbale di accertamento opposto, con cui era stata rilevata la violazione del divieto di sosta in uno spazio riservato esclusivamente a cicli e motocicli (e non anche a motoveicoli, nei quali si ricomprende il citato microcar, per come evincibile dalla previsione di cui al successivo art. 53, lett. h, c.d.s. e dalla stessa annotazione della tipologia del mezzo risultante dalla carta di circolazione)”.

La Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione, con sentenza n°1202 del 21 gennaio 2020, chiarisce che la trascrizione dell’atto di trasferimento immobiliare eventualmente contenuto nell’accordo di separazione o divorzio – raggiunto in sede di negoziazione assistita ai sensi dell’art. 6 del D.L. n. 132 del 2014 convertito, con modificazioni, nella L. n. 162 del 2014 – presuppone l’autenticazione delle sottoscrizioni del processo verbale dell’accordo stesso ad opera del pubblico ufficiale a ciò autorizzato, non potendosi riconoscere analogo potere certificativo agli avvocati che assistono le parti.

Il caso

La vicenda trae origine dalla composizione di un conflitto coniugale raggiunta in sede di negoziazione assistita. L’accordo di separazione personale sottoscritto nelle prescritte forme di legge, quindi autenticato dai rispettivi difensori, oltre a regolamentare gli aspetti personali della separazione – quali l’affidamento condiviso del figlio minore e la determinazione della misura dell’assegno dovuto dal marito per il mantenimento del figlio – contemplava il trasferimento della proprietà di una quota dell’immobile adibito a casa coniugale; il notaio, si era limitato ad effettuare l’autenticazione delle sottoscrizioni, l’autentica c.d. “minore”, senza effettuare il controllo di legalità dell’atto e, quindi, senza iscrivere il verbale a repertorio, senza metterlo a raccolta, né provvedere alla celere trascrizione dello stesso e, successivamente, il conservatore dei registri immobiliari rifiutava la trascrizione dell’accordo raggiunto dai coniugi in sede di negoziazione assistita, informando dell’inadempimento il consiglio notarile.

Avviato il procedimento disciplinare nei confronti del notaio, la Commissione Regionale di Disciplina qualificava la condotta del professionista come colpevole inadempimento delle modalità con cui doveva essere effettuata, ai fini dell’art. 2657 c.c., l’autentica richiesta dal comma 3 dell’art. 5 della L. 162/2014.

Dolendosi delle accuse mosse nei suoi confronti, il notaio adiva la Corte d’Appello la quale, tuttavia, rigettava integralmente il reclamo proposto dal professionista rilevando, in particolare, che, contenendo l’accordo dei coniugi un atto di trasferimento immobiliare, si rendeva necessaria un’autentica ai sensi dell’art. 72 della legge notarile che impone al notaio il controllo di legalità, essendogli vietato di ricevere o autenticare atti espressamente proibiti dalla legge, manifestamente contrari al buon costume e all’ordine pubblico ai sensi dell’art. 28 legge notarile.

Il ricorso per cassazione

A fronte del rigetto del suo reclamo da parte della Corte territoriale, il notaio proponeva ricorso per cassazione sostenendo, tra le censure proposte, di essersi limitato ad effettuare una c.d. “autentica minore” non di un atto notarile, ma di un verbale di accordo comportante il trasferimento immobiliare sottoscritto dai coniugi nell’ambito della negoziazione assistita per la loro separazione consensuale e, dunque, di non essere obbligato:

  • ad eseguire il controllo di legalità del verbale di accordo comportante il trasferimento immobiliare sottoscritto dai coniugi nell’ambito della convenzione di negoziazione assistita per la loro separazione consensuale,
  • di iscrivere il verbale a repertorio, di metterlo a raccolta, né provvedere alla celere trascrizione dello stesso.

La decisione della Suprema Corte

Con la decisione in commento, la Suprema Corte, ha respinto le doglianze del professionista ricorrente sancendo il principio di diritto secondo cui “ogni qualvolta l’accordo stabilito tra i coniugi, al fine di giungere ad una soluzione consensuale di separazione personale, ricomprenda anche il trasferimento di uno o più diritti di proprietà su beni immobili, la disciplina di cui al D.L. n. 132 del 2014, art. 6, conv. in L. n. 162 del 2014, deve necessariamente integrarsi con quella di cui al medesimo D.L. n. 132 del 2014, art. 5, comma 3, con la conseguenza che per procedere alla trascrizione dell’accordo di separazione contenente anche un atto negoziale comportante un trasferimento immobiliare, è necessaria l’autenticazione del verbale di accordo da parte di un pubblico ufficiale a ciò autorizzato, ai sensi dell’art. 5, comma 3”.

In conclusione

Gli Ermellini, hanno ritenuto sussistente l’illecito disciplinare contestato, in quanto il notaio aveva l’obbligo di procedere nelle forme previste dall’art. 2703 c.c., con il conseguente obbligo di iscrizione dell’atto nel repertorio ex art. 62 l.n. e di conservazione e raccolta ex art. 72 l.n., nonché quello di effettuare la trascrizione nel più breve tempo possibile ex artt. 2643 e 2671 c.c..

Avv. Luigi Romano

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Con la recente ordinanza n°9226/2020, depositata lo scorso 20 maggio 2020, la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata sulla legittimità dell’esercizio del diritto di recesso del promissario acquirente dal contratto preliminare di compravendita a seguito dell’assenza del certificato di agibilità dell’immobile al momento della stipula del contratto definitivo.

La vicenda

La controversia origina dal ricorso ex art. 702 bis c.p.c. con cui i promittenti venditori di un immobile avevano convenuto in giudizio il promissario acquirente al fine di:

  • accertare il legittimo esercizio del loro diritto di recesso dal contratto preliminare sottoscritto;
  • accertare il conseguente diritto a trattenere la caparra versata venditori;
  • ottenere la cancellazione della trascrizione del predetto contratto preliminare.

A sostegno della loro pretesa i promittenti venditori rappresentavano che:

  • nel contratto preliminare era stato fatto espresso riferimento all’assenza del certificato di agibilità dell’immobile (anteriore al 1967) e al mancato completamento della pratica di condono edilizio;
  • prima della data della stipula del contratto definitivo il promissario acquirente aveva illegittimamente preteso il differimento della data del rogito nonché il dimezzamento del prezzo di vendita sulla base dell’assenza del predetto certificato di agibilità e il mancato completamento della pratica di condono edilizio;
  • il promissario acquirente non si era successivamente presentato per la stipula del contratto definitivo nel termine convenuto, così dimostrandosi inadempiente rispetto alle obbligazioni assunte con il contratto preliminare.

Il convenuto, costituitosi in giudizio chiedeva il rigetto della domanda nonché, in via riconvenzionale, l’accertamento della legittimità del suo recesso, esercitato a mezzo r.a.r, e la condanna dei ricorrenti al pagamento del doppio della caparra.

Il Tribunale di Roma, investito della questione, mutato il rito, “…rigettava la domanda principale ed accoglieva quella riconvenzionale, dichiarando, conseguentemente, la legittimità del recesso operato dal promissario acquirente in considerazione dell’interesse del medesimo ad acquistare l’immobile dotato del certificato di agibilità ed in regola con la normativa urbanistica, con la derivante condanna degli attori al pagamento del doppio della caparra”.

La sentenza veniva confermata anche in Appello sulla scorta della mancata prova da parte degli appellanti della “…rinuncia del promissario acquirente al requisito dell’agibilità dell’immobile oggetto del contratto preliminare e per il quale avrebbe dovuto essere stipulato quello definitivo sia confermando – nella valutazione complessiva dei reciproci inadempimenti per i quali erano stati esercitati i rispettivi recessi – la non scarsa importanza di quello imputabile ai promittenti venditori”.

Il ricorso per Cassazione

La Corte di Cassazione, con la pronuncia in oggetto, rigetta le doglianze dei promittenti venditori, alla luce dei seguenti condivisibili chiarimenti:

  • la mera previsione della formula ‘non c’è il certificato di abitabilità’ non è idonea – come accertato dalla Corte d’Appello, attraverso una sua valutazione di merito – a configurare una rinuncia da parte del promissario acquirente a subordinare la conclusione del contratto definitivo al preventivo rilascio del certificato di abitabilità;
  • come da tempo chiarito da un’univoca giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es., Cass. n. 15969/2000 e Cass. n. 10820/2009), “…il rifiuto del promissario acquirente di stipulare la compravendita definitiva di un immobile privo dei certificati di abitabilità o di agibilità e di conformità alla concessione edilizia (anche ove il mancato rilascio dipenda da inerzia del Comune, nei cui confronti è obbligato ad attivarsi il promittente venditore) è da ritenersi giustificato perché l’acquirente ha interesse ad ottenere la proprietà di un immobile idoneo ad assolvere la funzione economico-sociale e a soddisfare i bisogni che inducono all’acquisto, e cioè la fruibilità e la commerciabilità del bene, per cui i predetti certificati devono ritenersi essenziali” (v. anche Cass. n. 16216/2008, Cass. n. 30950/2017 e Cass. n. 23265/2019).
  • “…ai fini della legittimità del recesso di cui all’art. 1385 c.c., come in materia di risoluzione contrattuale, non è sufficiente l’inadempimento, ma occorre anche la verifica circa la non scarsa importanza prevista dall’art. 1455 c.c., dovendo il giudice tenere conto dell’effettiva incidenza dell’inadempimento sul sinallagma contrattuale e verificare se, in considerazione della mancata o ritardata esecuzione della prestazione, sia da escludere per la controparte l’utilità del contratto alla stregua dell’economia complessiva del medesimo” (cfr. Cass. n. 409/2012 e Cass. n. 21209/2019), verifica nel caso di specie effettuata e motivata dalla Corte di merito;
  • da ultimo, il termine indicato nel contratto preliminare per la stipula del definitivo non poteva considerarsi essenziale, in quanto, come chiarito dalla giurisprudenza “…in tema di contratto preliminare di compravendita, il termine stabilito per la stipulazione del contratto definitivo non costituisce normalmente un termine essenziale, il cui mancato rispetto legittima la dichiarazione di scioglimento del contratto, precisandosi, tuttavia, che tale termine può ritenersi essenziale, ai sensi dell’art. 1457 c.c., solo quando, all’esito di indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito, da condursi alla stregua delle espressioni adoperate dai contraenti e, soprattutto, della natura e dell’oggetto del contratto (e, quindi, insindacabile in sede di legittimità se logicamente ed adeguatamente motivata in relazione a siffatti criteri), risulti inequivocabilmente la volontà delle parti di considerare ormai perduta l’utilità economica del contratto con l’infruttuoso decorso del termine.”

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cdc-c4ibsscuwiu-unsplash-1Dal 1° aprile 2020 sono disponibili sul sito http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Rel028-2020.pdf, i chiarimenti offerti dalla Corte di Cassazione sul contenuto e la portata delle misure adottate dal Governo per il contrasto al diffondersi del corona virus, di cui al D.L. n°18/2020.

In particolare:

  • il rinvio d’ufficio delle udienze deve essere inteso come “un mero rinvio ex lege e non di una sospensione dei processi, sicché non si applica l’art. 298, primo comma, c.p.c., a tenore del quale ‘durante la sospensione non possono essere compiuti atti del procedimento’”;
  • la sospensione dei termini processuali deve essere inteso come operante tutti gli atti processuali, compresi quelli necessari per avviare un giudizio di cognizione o esecutivo (atto di citazione o ricorso, ovvero atto di precetto), come per quelli di impugnazione (appello o ricorso per cassazione)”;
  • con riferimento alla sospensione che riguardi termini a ritroso che ricadano in tutto o in parte nel periodo di sospensione, “…è differita l’udienza o l’attività da cui decorre il termine, in modo da consentirne il pieno rispetto” e non già la mera sottrazione dal relativo computo, come avveniva durante il periodo feriale;
  • ai sensi dell’art. 83, comma 10 del D.L. n°18/2020, per tutti i procedimenti in cui vi sia stato un rinvio d’udienza, non si terrà conto, ai fini dell’equa riparazione di cui all’art. 2, della l. 89/01 (legge Pinto) del periodo compreso tra il 08/03/2020 e il 30/06/2020;
  • ai sensi del comma 20 dell’art. 83 del D.L. n°18/2020, la sospensione dei procedimenti di mediazione, di negoziazione assistita e di risoluzione stragiudiziale delle controversie, riguarderà quelli promossi entro il 9 marzo 2020, senza alcuna espressa previsione per quanto riguarda quelli eventualmente promossi successivamente a tale data;
  • la sospensione, di cui all’art.83, comma 8, dei termini sostanziali “comportanti prescrizioni e decadenze da qualsiasi diritto” appare poter essere invocata da chi ne abbia interesse unicamente per il periodo dal 16 aprile al 30 giugno e subordinata alla presenza di due condizioni: “a) che siano stati adottati i provvedimenti organizzativi che spettano ai capi degli uffici (e solo durante il periodo di loro efficacia); b) che si tratti di diritti che possono essere esercitati esclusivamente mediante il compimento di attività processuali precluse;
  • la sospensione di tutti termini, siano essi processuali o sostanziali, non opera per quelle controversie che rientrano nell’elencazione di cui all’art. 83, comma 3, lett. a), del d.l. n. 18 del 2020.

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separazione-e-soldi_smallI fatti di cui è causa

In pendenza del giudizio di divorzio, la Corte d’Appello di Cagliari accoglieva il gravame proposto dalla moglie avverso la sentenza di separazione, aumentando il mantenimento per sé e per i figli sino al mese precedente all’adozione dell’ordinanza presidenziale da parte del giudice del divorzio; ciò in considerazione dell’aumento dei predetti assegni disposto dal giudice del divorzio in sede presidenziale.

Ricorreva avverso detto provvedimento il marito, sostenendo che la Corte d’Appello, quale giudice della separazione, “…avrebbe indebitamente sovrapposto la propria valutazione sulle statuizioni economiche conseguenti alla separazione a quella adottata dal giudice nel parallelo giudizio di divorzio”, non potendo rideterminare il predetto contributo essendo già stati adottati i provvedimenti presidenziali nel giudizio di divorzio.

La decisione della Suprema Corte

Gli Ermellini, tuttavia, reputano infondato il ricorso del marito richiamando, preliminarmente il noto principio secondo cui: “…il giudice della separazione è investito della potestas iudicandi sulla domanda di attribuzione o modifica del contributo di mantenimento per il coniuge e i figli anche quando sia pendente il giudizio di divorzio, a meno che il giudice del divorzio non abbia adottato provvedimenti temporanei e urgenti nella fase presidenziale o istruttoria (Cass. n. 27205 del 2019), i quali sono destinati a sovrapporsi a (e ad assorbire) quelli adottati in sede di separazione solo dal momento in cui sono adottati o ne è disposta la decorrenza” (in senso conforme (Cass. n. 27205/2019; Cass. n. 5510/2017; Cass. n. 17825/2013; Cass. n. 5062/2017; Cass. n. 1779/2012).

La Suprema Corte, ha ritenuto pertanto correttamente applicato il predetto principio dal giudice della separazione in quanto:

  • i provvedimenti economici adottati nel giudizio di separazione anteriormente iniziato sono destinati ad una perdurante vigenza fino all’introduzione di un nuovo regolamento patrimoniale per effetto delle statuizioni (definitive o provvisorie) rese in sede divorzile (Cass. n. 1779 del 2012)”.
  • la pronuncia di divorzio, operando ex nunc dal momento del passaggio in giudicato, non comporti la cessazione della materia del contendere nel giudizio di separazione personale (o di modifica delle condizioni di separazione) iniziato anteriormente e ancora pendente, ove esista l’interesse di una delle parti all’operatività della pronuncia e dei conseguenti provvedimenti patrimoniali (tra le tante Cass. n. 5510 e 5062 del 2017)”;
  • Nella specie, il giudice della separazione con la sentenza impugnata non è intervenuto impropriamente a modificare le statuizioni economiche rese in sede di divorzio (cfr. Cass. n. 17825 del 2013), ma ha fissato la decorrenza del contributo di mantenimento a carico del M. fino al mese di settembre 2015, senza dunque interferire con le statuizioni economiche emesse in sede divorzile a decorrere dal mese di (OMISSIS)”.

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downloadLa Suprema Corte di Cassazione, a distanza di quasi quattro anni dalla sentenza n°24843 del 21 novembre 2014, è tornata a pronunciarsi sulla validità dei contratti di locazione ad uso non abitativo in caso di nullità della clausola di durata, a seguito della previsione da parte dei contraenti di un termine inferiore al sessennio.

Il fatto di cui è causa

Con ricorso ex art. 615 c.p.c., co. 2, i conduttori di un immobile commerciale proponevano opposizione all’esecuzione intrapresa in loro danno per il rilascio dello stesso, deducendo l’improcedibilità della predetta ex art. 34 della legge n°392/78 e chiedendo, pertanto, l’accertamento del loro diritto a ricevere un’indennità di avviamento.

I locatori, costituitisi, chiedevano il rigetto delle opposte doglianze eccependo, in particolare, la presenza di clausole contrattuali con cui:

  • le parti avevano espressamente convenuto la non applicabilità degli articoli 36, 30-40 della legge n°392/78 al contratto inter partes;
  • le parti avevano determinato in 2 anni, tacitamente rinnovabili, la durata del contratto locatizio;
  • i conduttori avevano rinunciato, alla scadenza contrattuale, a qualsiasi indennità a titolo di perdita di avviamento;
  • le parti avevano convenuto che la nullità delle predette clausole, ai sensi dell’art. 1419, co. 1 c.c., avrebbe comportato la nullità dell’intero contratto.

Il Tribunale di Taranto, investito della questione, dichiarava cessata la materia del contendere alla luce dell’avvenuto rilascio, medio tempore, del locale, rigettando la domanda degli opponenti in punto di indennità di avviamento. La decisione veniva confermata anche in sede di appello.

Gli opponenti decidevano tuttavia di ricorrere per cassazione eccependo l’erronea applicazione dell’art. 1419 c.c.

La decisione della Suprema Corte

Gli ermellini, investiti della questione, ritengono fondato detto motivo, cassando con rinvio alla Corte d’appello di Lecce, alla luce della seguente condivisibile argomentazione:

  • il I^ comma dell’art. 1419 c.c. “…prevede che la nullità parziale o della singola clausola non comporti la nullità totale del contratto cui accede, salvo che non risulti che i contraenti non avrebbero concluso il regolamento negoziale senza quella parte colpita da nullità…”;
  • l’essenzialità della clausola, ai sensi del comma I^ deve essere valutata in senso oggettivo;
  • il II^ comma dell’art. 1419 c.c., disciplinante il fenomeno della conservazione del contratto tramite l’inserzione ex lege delle clausole nulle, costituisce “un’eccezione al campo di operatività del primo, limitato, appunto, dalla presenza di clausole contrattuali imposte ex lege e non derogabili nemmeno sotto l’habitus dell’essenzialità”, determinando un’automatica eterointegrazione del contratto, giustificante la limitazione dell’autonomia contrattuale alla luce “…di un’esigenza sociale ritenuta meritevole di tutela preferenziale”;
  • una giurisprudenza costante ha chiarito da tempo che il predetto comma 2 dell’art. 1419 c.c. si riferisce “…all’ipotesi in cui specifiche disposizioni, oltre a comminare la nullità di determinate clausole contrattuali, ne impongano anche la sostituzione con una normativa legale, mentre tale disposizione non si applica qualora il legislatore, nello statuire la nullità di una clausola o di una pattuizione, non ne abbia espressamente prevista la sostituzione con una specifica norma imperativa”;
  • a ciò consegue la piena operatività del comma 2 nel caso di specie atteso che a norma della L. n. 392 del 1978, art. 27, comma 4, ove in una locazione non abitativa sia convenuta una durata inferiore a quella legale, ‘la locazione si intende pattuita per la durata rispettivamente prevista nei commi precedenti’”.
  • Cass. civ. Sez. III, ordinanza n. 20974 del 23 agosto 2018

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