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Afferma la Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, con ordinanza n. 1079, depositata il 21 gennaio 2021, che non è possibile ricorrere in Appello (e in Cassazione) contro la sentenza di divorzio, nei confronti del coniuge nel frattempo deceduto, ma è necessario individuare gli eredi e, se non ve ne fossero, citare il curatore dell’eredità giacente.

E ciò in quanto, pur avendo il giudizio di divorzio ad oggetto un diritto non trasmissibile agli eredi, la legittimazione a resistere spetta comunque a questi ultimi, in qualità di successori a titolo universale, ai sensi dell’articolo 110 del codice di procedura civile.

Né vale eccepire che la mancata proposizione del ricorso per cassazione nei confronti degli eredi risultava giustificata dalla difesa della ricorrente con la circostanza per cui l’unica erede aveva rinunciato all’eredità con conseguente difetto di legittimazione a resistere.

Secondo la Suprema Corte, la rinuncia all’eredità o la mancata accettazione della stessa non escludono la possibilità di individuare altri legittimati passivi, considerando che trova applicazione in tal caso la disciplina della giacenza dell’eredità, ai sensi della quale il curatore dell’eredità giacente risulta legittimato passivo nei riguardi di tutte le azioni proponibili nei confronti dell’erede, nonché la disposizione di cui all’articolo 586 del codice civile, secondo cui in caso di rinuncia di tutti chiamati e in assenza di altri soggetti successibili, l’eredità è dovuta di diritto senza peraltro necessità di accettazione, allo Stato, che non può rinunciarvi.

D’altro canto, nella fattispecie all’esame della Corte, non può essere presa in considerazione neppure la circostanza relativa al fatto che il decesso sia avvenuto in pendenza del termine per la proposizione dell’appello, dato che il procuratore dell’appellato non si era costituito e, quindi, non viene ad operare il principio dell’ultrattività del mandato, con l’ulteriore conseguenza che l’impugnazione avrebbe dovuto essere notificata agli eredi del coniuge defunto.

Conseguentemente l’avvenuta proposizione dell’impugnazione nei confronti di un soggetto inesistente, quale il de cuius, esclude la possibilità di sanare il vizio attraverso la rinnovazione della notificazione e rende il ricorso inammissibile.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza 21 gennaio 2021, n. 1079

                                                                                Rilevato

che C.I. ha proposto ricorso per cassazione, per un solo motivo, illustrato anche con memoria, avverso la sentenza dell’11 settembre 2018, con cui la Corte d’appello di Trieste ha dichiarato inammissibile, per difetto di soccombenza, il gravame da lei interposto avverso la sentenza emessa il 12 dicembre 2017, con cui il Tribunale di Trieste aveva pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto dalla ricorrente con ,,,,,,. , su ricorso congiunto dei coniugi;
che l’intimato non ha svolto attività difensiva.

                                                                                 Considerato

che con l’unico motivo d’impugnazione la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 149 c.c., comma 1, sostenendo che, nel dichiarare inammissibile il gravame, la Corte d’appello non ha tenuto conto dell’interesse di essa ricorrente ad ottenere la dichiarazione di nullità o inefficacia della pronunzia di divorzio e della cessazione della materia del contendere, per effetto del decesso del coniuge e del conseguente scioglimento del matrimonio, verificatisi prima del passaggio in giudicato della sentenza di primo grado;

che, secondo la ricorrente, detto interesse trovava giustificazione nell’intento di conservare lo status di coniuge superstite, ai fini del riconoscimento della pensione di reversibilità, che non avrebbe potuto esserle altrimenti accordata, non risultando essa ricorrente titolare dell’assegno divorzile;
che, inoltre, l’appello non avrebbe potuto essere proposto nei confronti dell’unica figlia nata dal matrimonio, avendo quest’ultima rinunciato all’eredità del padre, in pendenza del termine per l’impugnazione, e non potendo quindi trovare applicazione l’art. 110 c.p.c.;

che l’impugnazione è inammissibile, in quanto proposta nei confronti del coniuge deceduto, anziché degli eredi, e notificata nel domicilio eletto presso il procuratore costituito nel giudizio di primo grado, nonostante la mancata costituzione dello stesso nel giudizio di appello;

che, in tema di divorzio, e con riguardo all’ipotesi in cui una delle parti sia deceduta nel corso del giudizio, anche in pendenza del termine per l’impugnazione, questa Corte, nel riconoscere l’ammissibilità del gravame interposto dal coniuge superstite avverso la sentenza dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio, al fine di ottenere una pronuncia di cessazione della materia del contendere, ha infatti precisato che, pur avendo il giudizio ad oggetto un diritto non trasmissibile agli eredi della parte deceduta, la legittimazione a resistere spetta a questi ultimi, in qualità di successori a titolo universale, ai sensi dell’art. 110 c.p.c. (cfr. Cass., Sez. I, 17/07/2009, n. 16801; 18/08/1992, n. 9592);

che, nella specie, la mancata proposizione del ricorso per cassazione nei confronti degli eredi del Cr. è stata giustificata dalla difesa della ricorrente con la considerazione che l’unica figlia nata dal matrimonio ….. , era priva della legittimazione a resistere, non essendo in possesso della qualità di erede, per aver rinunciato all’eredità con atto del 18 febbraio 2018;

che la rinuncia all’eredità o la mancata accettazione della stessa da parte di uno o più chiamati non esclude peraltro la possibilità d’individuare altri legittimati, trovando applicazione la disciplina della giacenza dell’eredità, dettata dagli artt. 528 e ss. c.c., ai sensi della quale il curatore dell’eredità giacente risulta passivamente legittimato nei riguardi di tutte le azioni proponibili nei confronti dell’erede, e la disposizione di cui all’art. 586 c.c., a norma del quale, in caso di rinuncia di tutti i chiamati ed in assenza di altri successibili, l’eredita è devoluta di diritto, senza bisogno di accettazione, allo Stato, il quale non può rinunciarvi (cfr. Cass., Sez. II, 8/06/1968, n. 1754);

che l’applicabilità delle predette disposizioni non può essere esclusa, nella specie, in virtù dell’avvenuta verificazione del decesso in pendenza del termine per la proposizione dell’appello e della mancata dichiarazione dello evento interruttivo nel corso del giudizio di secondo grado, non essendosi costituito il procuratore dell’appellato, e non potendo dunque operare, ai fini della notificazione del ricorso per cassazione, il principio dell’ultrattività del mandato, con la conseguenza che, avuto riguardo anche al tempo trascorso dalla morte del …. , l’atto d’impugnazione avrebbe dovuto essere notificato agli eredi dello stesso, presso il loro domicilio effettivo (cfr. Cass., Sez. II, 6/08/2015, n. 16555);

che l’avvenuta proposizione dell’impugnazione nei confronti di un soggetto inesistente ed in un luogo non avente alcun collegamento con i soggetti legittimati esclude la possibilità di sanare il vizio attraverso la rinnovazione della notificazione ai sensi dell’art. 291 c.p.c.;
che la mancata costituzione dell’intimato esclude la necessità di provvedere al regolamento delle spese processuali.

                                                                                                                       P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso.

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Colpevole di aver offeso la reputazione della moglie del suo amante, denigrandola per problemi di salute che aveva attraversato, raccontando particolari intimi della sua vita coniugale, che l’uomo, come egli stesso ha ammesso durante il processo, le ha confidato durante la loro relazione.

La diffamazione è avvenuta sulla pagina Facebook che portava il suo nome nonostante poi durante il giudizio avesse dichiarato che non era stata lei. Ma nessuna denuncia aveva mai presentato alle autorità competenti per dimostrare che era a conoscenza del fatto che le avessero “rubato” l’account.

Si chiude così un vero e propio incubo per una donna che si è ritrovata in tribunale per dieci anni, in tre gradi di giudizio, dove è stata riconosciuta per tre volte “vittima” di un’altra donna che, rendendola riconoscibile, ha raccontato dettagli intimi della sua vita privata e matrimoniale su Facebook.

Colpevole del reato di diffamazione, perseguito penalmente, è una quarantenne, della medesima cittadina, che dovrà affrontare anche un altro processo, quello civile, che prevede anche il risarcimento del danno.

A quanto pare il risentimento della donna nei confronti della sua “vittima” era dettato dal fatto che ella avesse chiesto “in giro” informazioni sulla donna che aveva una relazione con il marito.

La 40enne, la cui colpevolezza è stata ora dichiarata dalla Corte di Cassazione, ha scritto su Facebook particolari che hanno offeso, denigrato e diffamato un’altra donna, raccontando addirittura di un aborto che aveva subito, così come le aveva raccontato il suo amante, oltre che facendo insinuazioni sulla condotta di vita, sul fatto che come “madre di famiglia” si ubriacasse e mostrasse “le mutande in pubblico”.

Ora la Suprema Corte di Cassazione ha confermato la condanna alla pena di quattro mesi di reclusione, a carico della dipendente di banca di Avezzano, difesa in giudizio dall’avvocato Giuseppe Montanara, del Foro di Roma, per il reato di diffamazione aggravata, commesso ai danni di un’avezzanese sostenuta in tribunale dall’avvocato Crescenzo Presutti.

La 40enne, a partire dal mese di agosto del 2011, aveva pubblicato sul profilo personale della propria pagina Facebook una sorta di una lettera “aperta”, intitolando la pubblicazione con la seguente espressione:

“Informazioni di base –Informazioni su (…)”. Il testo, nel corso dei mesi successivi, era stato ripreso e integrato a più riprese, rimosso e poi ripubblicato a partire dal 19 novembre 2011, con un nuovo titolo, “AMICI MIEI ATTO SECONDO”, e continuamente rimaneggiato con sempre maggiori contenuti offensivi, con pubblicazioni fino al 20 febbraio 2012.

Per questi fatti era stata rinviata a giudizio davanti al Tribunale di Avezzano per rispondere del reato di diffamazione ed era già stata condannata nel 2018. Condanna poi confermata dalla Corte di Appello dell’Aquila.

La Corte di Cassazione nel confermare di nuovo la condanna inflitta nei precedenti gradi di giudizio ha stabilito che l’imputata potrà beneficiare della sospensione condizionale della pena solo con il pagamento dei danni subiti dalla vittima e l’ha condannata al pagamento delle spese legali di tremila euro, oltre a quello di altri tremila euro in favore della cassa delle ammende.

Già in primo grado, il Tribunale di Avezzano aveva condannato l’imputata al pagamento di una provvisionale di 2mila euro in favore della parte civile e alle spese legali liquidate in 1.800 euro mentre la Corte di Appello l’aveva condannata al pagamento di ulteriori duemila euro.

Complessivamente oltre ai quattro mesi di reclusione la 40enne dovrà sborsare una somma di oltre 15mila euro che potrebbe ulteriormente lievitare in caso di ulteriore condanna dinanzi al giudice civile.

I magistrati della quinta sezione penale, nel confermare le decisioni dei precedenti gradi di giudizio, hanno respinto il ricorso dell’imputata che aveva sempre sostenuto la propria innocenza per due motivi: la mancata di indicazione del nominativo della persona offesa e la omessa verifica, da parte degli organi inquirenti, dell’indirizzo IP associabile al profilo avente il nickname dell’imputata e nel reperimento dei cosiddetto filedilog, questi ultimi contenenti tempi e orari della connessione.

Il Tribunale e la Corte di Appello dell’Aquila, invece, avevano ritenuto che la paternità del messaggio diffamatorio fosse sufficientemente provata e addebitabile all’imputata e che la destinataria delle offese fosse la moglie del suo amante, sulla base di alcuni indizi ritenuti gravi e concordanti: – la denuncia della persona offesa con l’allegazione delle stampe della pagina social su cui erano contenute le espressioni incriminate; – la denominazione del profilo, riportante proprio il nome e cognome; – la natura dell’argomento trattato nei post incriminati riferibili comunque all’imputata;  – la circostanza che non risultasse che la stessa avesse mai lamentato che altri avessero usato il suo nome e cognome abusivamente, né avesse mai denunciato alcuno per furto di identità.

Per i giudici, l’esatta individuazione dell’indirizzo IP relativo al profilo da cui sono state divulgate le espressioni diffamatorie non è quindi elemento imprescindibile per giungere ad una corretta individuazione, ai fini della punibilità, dell’autore del reato di diffamazione commesso a mezzo Facebook.

Nel processo penale la riconducibilità delle espressioni diffamatorie contenute su Facebook al loro effettivo autore e quindi la “rimproverabilità” per il reato diffamatorio, non prevede quale elemento essenziale l’identificazione dell’indirizzo IP e dei file e nemmeno che sia espressamente indicato il nome della persona offesa, potendosi risalire comunque al destinatario delle offese attraverso le testimonianze di coloro che, leggendo lo scritto offensivo, lo reputino riconducibile alla persona offesa.

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[:it](Cass. Civ. Sez. I, Ordinanza 13 gennaio 2021, n. 379)

A norma del nuovo articolo 337-ter c.c., tanto nell’adozione dell’affido condiviso quanto di quello esclusivo, è il giudice a fissare “la misura e il modo con cui ciascuno dei genitori deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli“.

In ordine agli esborsi necessari per il mantenimento, uno dei principi pacifici, in giurisprudenza, è quello di includere nell’assegno periodico solo le spese ordinarie e non anche quelle straordinarie, poiché in tal caso si rischierebbe di recare pregiudizio alla prole, comportando una compressione dei diritti nella soddisfazione delle esigenze inaspettate che necessitano di interventi economici straordinari, ponendosi altresì in contrasto con il principio di proporzionalità sancito dal codice civile. La maggior parte dei provvedimenti stabilisce, infatti, unitamente all’obbligo di corrispondere un assegno periodico a titolo di contribuzione al mantenimento della prole, una percentuale variabile per far fronte all’entità degli esborsi di carattere straordinario.

Pur nella varietà delle decisioni adottate dai giudici, emerge una sostanziale uniformità di criteri attraverso i quali distinguere le spese ordinarie da quelle straordinarie.

Per la prevalente giurisprudenza, di legittimità e di merito, vengono considerate ordinarie, quelle spese destinate a soddisfare i bisogni e le normali esigenze di vita quotidiana della prole, rientranti nell’assegno erogato per il mantenimento (ad esempio, l’acquisto dei libri scolastici o dei medicinali da banco; le visite di controllo routinarie; l’abbigliamento, ecc.).

Sono ritenuti, invece, straordinari, tutti gli esborsi necessari a far fronte ad esigenze non rientranti nelle normali consuetudini di vita dei figli o comunque non ricorrenti, non quantificabili e determinabili in anticipo, ovvero di apprezzabile importo rispetto al tenore di vita della famiglia e alle capacità economiche dei genitori (ad es. interventi chirurgici o fisioterapia; spese per occhiali da vista, lezioni private, patente di guida, acquisto di un motorino, ecc.).

Su questo tema è intervenuta recentemente la Cassazione che, con l’ordinanza in esame, ha voluto distinguere ulteriormente tra spese straordinarie stricto sensu intese e spese integrative, avente un carattere routinari, ai fini della loro esigibilità.

La vicenda ha la seguente origine.

Una donna notificava il precetto all’ex compagno per il pagamento delle spese straordinarie a favore della figlia minore d’età, affetta da handicap, per un importo pari a circa 1.700 euro. Sul padre, infatti, gravava l’obbligo di contribuzione in ragione della metà. L’uomo proponeva opposizione a precetto ex art. 615 c.p.c. davanti al giudice di pace, il quale annullava il precetto opposto. Secondo il giudicante, per agire forzosamente per il recupero delle spese straordinarie, occorreva un autonomo accertamento in sede giudiziale. Infatti, nel caso di specie, il provvedimento cautelare del tribunale, non poteva ritenersi immediatamente esecutivo. In sede di gravame, la sentenza viene riformata e dall’importo precettato viene sottratta solo la somma di circa 43 euro relativa all’acquisto di materiale di cancelleria. Si giunge così in Cassazione.

Secondo la Suprema Corte, bisogna prescindere dalla terminologia impiegata nel titolo dal giudice di merito e analizzare gli esborsi alla luce alla luce del loro carattere routinario o imprevedibile.

Ecco allora che, secondo la Corte, le spese che rispondono ad ordinarie e prevedibili esigenze di mantenimento del figlio, a tal punto dall’avere la certezza del loro verificarsi, benché non ricomprese nell’assegno forfettizzato di mantenimento, possono essere richieste in rimborso dal genitore anticipatario sulla base della loro elencazione ed allegazione in precetto. Per tali esborsi, quindi, non è necessario accertare, nuovamente, in sede giudiziale, con un distinto titolo, la loro esistenza e quantificazione. Per contro, le spese straordinarie, intese come categoria residuale, connotata da imprevedibilità, scevra di ogni carattere di certezza, necessitano di un accertamento giudiziale specifico.

All’esito del su descritto percorso delibativo, la Suprema Corte ha enunciato il seguente principio di diritto:

«In materia di rimborso delle spese cosiddette straordinarie sostenute dai genitori per il mantenimento del figlio, fermo il carattere composito della dizione utilizzata dal giudice, occorre in via sostanziale distinguere tra:

  1. a) gli esborsi che sono destinati ai bisogni ordinari del figlioe che, certi nel loro costante e prevedibile ripetersi anche lungo intervalli temporali, più o meno ampi, sortiscono l’effetto di integrare l’assegno di mantenimento forfettizzatodal giudice – o, anche, consensualmente determinato dai genitori – e possono essere azionati in forza del titolo originario di condanna adottato in materia di esercizio della responsabilità in sede di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all’esito di procedimenti relativi ai figli al di fuori del matrimonio, previa una allegazione che consenta, con mera operazione aritmetica, di preservare del titolo stesso i caratteri della certezza, liquidità ed esigibilità;
  2. b) le spese che, imprevedibili e rilevantinel loro ammontare, in grado di recidere ogni legame con i caratteri di ordinarietà dell’assegno di contributo al mantenimento, richiedono per la loro azionabilità l’esercizio di un’autonoma azione di accertamentoin cui convergono il rispetto del principio dell’adeguatezza della posta alle esigenze del figlio e quello della proporzione del contributo alle condizioni economico-patrimoniali del genitore onerato e tanto in comparazione con quanto statuito dal giudice che si sia pronunciato sul tema della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, divorzio, annullamento e nullità del vincolo matrimoniale e comunque in ordine ai figli nati fuori dal matrimonio».

Avv. Claudia Romano’

Child in white t-shirt sitting on white table[:]

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Tra i coniugi, già in regime di comunione legale dei beni, non diviene di proprietà comune l’immobile acquistato da uno solo di essi dopo la loro separazione personale, quest’ultima costituendo causa di scioglimento della comunione medesima con la decorrenza prevista dall’art. 191 c.c., comma 2.

Invece, per l’opponibilità ai terzi dei descritti effetti dello scioglimento della comunione legale derivante dalla separazione personale dei coniugi, relativamente all’acquisto di beni immobili o mobili registrati, avvenuto con dichiarazione del coniuge acquirente dello stato di separazione, deve considerarsi necessaria e sufficiente la sola trascrizione nei registri immobiliari recante la corrispondente indicazione (cioè l’esistenza di un regime patrimoniale di separazione dei beni), indipendentemente dall’annotazione del provvedimento di separazione a margine dell’atto di matrimonio.

 

Corte di Cassazione, sez. I Civile, 13 gennaio 2021, n. 376.

Presidente Cristiano -Relatore Campese.

Fatti di causa

  1. A.B. ricorre per cassazione, affidandosi a due motivi, avverso la sentenza della Corte di appello di Palermo del 3/20 ottobre 2014, notificatale il successivo 17 novembre 2014, reiettiva del gravame da lei promosso contro la sentenza del 27 ottobre del 2007, resa dal tribunale di quella stessa città, che ne aveva respinto la domanda volta ad ottenere, nei confronti della curatela del fallimento di T.P. , marito da cui era legalmente separata, la declaratoria di sua esclusiva proprietà dell’immobile sito in (*) . Resiste, con controricorso, la curatela predetta.

1.1. Opinò quella corte che, “*come ritenuto dalla Corte di cassazione con la sentenza richiamata dal tribunale (il riferimento è a Cass. n. 12098 del 1998.), per stabilire se ed in quali limiti un determinato atto trascritto sia opponibile ai terzi deve aversi riguardo esclusivamente al contenuto della nota di trascrizione, senza necessità di esaminare anche il contenuto del titolo, che insieme con la nota, viene depositato presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari (*). Ne discende che, premesso che, in costanza di matrimonio, la A. era in regime di comunione legale dei beni con il marito e che il bene acquistato da parte di un coniuge, in tale regime, entra automaticamente nel patrimonio di entrambi, ai fini dell’opponibilità ai terzi degli effetti dello scioglimento della comunione legale derivante dalla separazione personale, con riferimento all’atto di acquisto successivo alla separazione stessa, era necessaria la trascrizione della relativa nota nei registri immobiliari. Cosicché, in assenza dell’indicazione, nella nota di trascrizione, del regime patrimoniale della A. , coniugata con il T. , imposta dall’art. 2659 c.c., come modificato dalla L. n. 52 del 1985, art. 1, l’acquisto effettuato dalla stessa, successivamente alla separazione legale, non può essere opposto al terzo, nei confronti del quale, quindi, il bene deve considerarsi caduto in comunione tra i coniugi”.
Ragioni della decisione

  1. Le formulate censure prospettano, rispettivamente:
  2. I) “Violazione e falsa applicazione degli artt. 2659 e 2665 c.c. e della L. n. 52 del 1985, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5; insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”. Si ascrive alla corte distrettuale di aver “*trattato la nota di trascrizione, su cui verte la materia del contendere, come una nota correttamente trascritta nei confronti del signor T.P. , equiparando l’assenza (ivi) dell’indicazione del regime patrimoniale della A. , di per sé foriero di un acquisto personale, ad acquisto effettuato in comunione dei beni”;
  3. II) “Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.; omessa motivazione su fatti decisivi e controversi per il giudizio”. Si assume che la sentenza impugnata non aveva tenuto conto del gravame in ordine alla condanna alle spese, deducendosi, esclusivamente, che “pur essendo rimesso al prudente apprezzamento del giudice di merito il decidere quale delle parti debba essere condannata e se ed in quale misura debba farsi luogo a compensazioni, il Giudice di merito, pur sollecitato sul punto dall’appellante, si è sottratto a questo obbligo, senza alcuna motivazione”.
  4. Il primo motivo si rivela immeritevole di accoglimento nel suo complesso.

2.1. La decisione impugnata reca (cfr. pag. 4) l’accertamento, chiaramente di natura fattuale, che nella nota di trascrizione rep. n. 57405 del 18 ottobre 1995, depositata dalla stessa odierna ricorrente (e riprodotta in ricorso) – concernente l’acquisto dell’immobile sito in (*) , dalla medesima effettuato – non risultava indicato il regime patrimoniale della A. , quale coniuge separata da T.P. , “*essendo la relativa casella del “Quadro C” ingiustificatamente vuota, e ciò nonostante che, nell’atto di vendita, fosse indicata chiaramente la qualità di coniuge legalmente separato dell’attrice e nonostante che, proprio nella Circolare del Ministero delle Finanze n. 128 del 1995, richiamata dalla A. , sia prescritta l’obbligatoria indicazione del regime patrimoniale delle parti contraenti, quando risulti che le stesse siano coniugate, ed in particolare l’inserimento, nell’apposita casella della lettera “S”, se trattasi di soggetto in regime di separazione”.
2.2. Costituisce, poi, orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, in relazione all’interpretazione degli artt. 2659 e 2665 c.c., quello secondo cui “per stabilire se e in quali limiti un determinato atto relativo a beni immobili sia opponibile ai terzi, deve aversi riguardo esclusivamente al contenuto della nota di trascrizione, dovendo le indicazioni riportate nella nota stessa consentire di individuare, senza possibilità di equivoci ed incertezze, gli estremi essenziali del negozio e i beni ai quali esso si riferisce” e “senza necessità di esaminare anche il contenuto del titolo che, insieme con la menzionata nota, viene depositato presso la conservatoria dei registri immobiliari” (cfr., ex multis, Cass. n. 4842 del 2019; Cass. n. 4726 del 2019; Cass. n. 22419 del 2018; Cass. n. 14440 del 2013; Cass. n. 21758 del 2012; Cass. n. 18892 del 2009; Cass. n. 8400 del 2009; Cass. n. 5028 del 2007; Cass. n. 13137 del 2006; Cass. n. 10774 del 1991).
2.2.1. In altri termini, come espressamente sancito da Cass. n. 14440 del 2013 (in senso sostanzialmente conforme, si veda pure la precedente Cass. n. 5002 del 2005), nel nostro ordinamento la pubblicità immobiliare che si attua con il sistema della trascrizione è imperniata su principi formali, in forza dei quali il terzo che è rimasto estraneo all’atto trascritto, per individuare l’oggetto cui l’atto si riferisce attraverso la notizia che ne dà la pubblicità stessa, deve esclusivamente fare affidamento sul contenuto con cui la notizia della stipulazione dell’atto è riferita nei registri immobiliari; pertanto, rispetto al terzo, l’atto al quale la notizia si riferisce e, quindi, il suo oggetto, affinché la pubblicità-notizia possa svolgere effetti nei suoi confronti, risultano stabiliti esclusivamente da quel contenuto, la cui individuazione è affidata, a sua volta, all’esclusiva responsabilità del soggetto che richiede la trascrizione, sul quale, per quel che interessa gli atti tra vivi, incombe l’onere di procedervi redigendo la nota di trascrizione (art. 2659 c.c.), che, come viene dalla legge dettagliatamente specificato, si sostanzia in una rappresentazione per riassunto dell’atto da trascrivere. Di conseguenza, una volta redatta la nota ed avvenuta la trascrizione sulla base della stessa, il contenuto della pubblicità – notizia è solo quello da essa desumibile e, su chi della notizia si avvale (almeno agli effetti delle conseguenze che la legge ricollega alla trascrizione in relazione al regime della circolazione dei beni immobiliari) non incombe alcun onere di controllo ulteriore.
2.2.2. Del resto, è incontestabile che i principi in tema di trascrizione sono finalizzati, in via principale, a dirimere il conflitto fra più acquirenti dello stesso immobile (o bene mobile registrato), con l’effetto che all’eventuale inesattezza/incompletezza della nota di trascrizione – oggetto di un apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove adeguatamente motivato – consegue la sua corrispondente inopponibilità nei confronti del terzo in buona fede, dovendosi la trascrizione, a tal fine, considerare invalida.
2.2.3. Il principio dell’autosufficienza della nota di trascrizione, nei sensi finora descritti, deriva da una precisa scelta compiuta dal legislatore che, all’art. 2664 c.c., ha previsto che il registro particolare delle trascrizioni debba essere proprio costituito dalla raccolta delle note mentre i titoli, che pure devono essere depositati presso la stessa Conservatoria (cfr. art. 2664 c.c., ed art. 2840 c.c., comma 2), non sono conservati in un apposito registro di immediata consultazione per i terzi e, quindi, non costituiscono fonte legale diretta di conoscibilità. Al suddetto principio si affianca, inoltre, quello della cd. “autoresponsabilità”, in forza del quale si deve ritenere che la nota, essendo un atto di parte, produce effetti necessariamente conformi al contenuto della stessa, con la conseguenza che chi richiede la trascrizione di un determinato atto, redigendo (o facendo redigere) la nota in un certo modo e con un apposito contenuto, se ne assume la completa responsabilità verso i terzi.
2.3. Fermo quanto precede, la questione giuridica posta dalla ricorrente con la doglianza in esame – che si intreccia con il problema della pubblicità dello scioglimento della comunione legale dei beni tra i coniugi – risulta essere stata affrontata dalla giurisprudenza di legittimità, per la prima volta (sebbene in diversa fattispecie concreta), con la pronuncia resa da Cass. n. 12098 del 1998, in un contesto normativo allora caratterizzato dal fatto che la riforma del diritto di famiglia, attuata con la L. 19 maggio 1975, n. 151, aveva introdotto il cd. sistema binario della pubblicità del regime patrimoniale dei coniugi: l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio e la trascrizione nei Registri Immobiliari. L’annotazione, prevista, in tema di convenzioni matrimoniali e di relativa modifica, dagli artt. 162 e 163 c.c., nonché dall’art. 193 c.c., con riguardo alla separazione giudiziale dei beni, aveva (ed ha tuttora) per oggetto le vicende modificative del regime patrimoniale; la trascrizione, prevista dall’art. 2647 c.c., invece, aveva (ed ha tuttora), anche in questo caso, il suo normale oggetto, vale a dire, le vicende relative alla situazione giuridica dei singoli beni immobili (o beni mobili registrati ex art. 2685 c.c.).
2.3.1. Il sistema così congegnato non sempre si era mostrato lineare e numerose perplessità erano sorte, oltre che sulla natura e funzione dei due tipi di pubblicità, anche sulla loro combinazione. In particolare, era stata rilevata, fin dall’inizio, la carenza di una pubblicità dichiarativa dello scioglimento della comunione legale per effetto della separazione personale dei coniugi. Nè il codice civile, nè altra legge speciale, infatti, prescrivevano l’annotazione del relativo provvedimento a margine dell’atto di matrimonio, sicché diverse erano state le soluzioni prospettate, in dottrina e nella giurisprudenza di merito, trattandosi, per alcuni, di una “grave lacuna” del legislatore, per altri, di una “svista voluta”. Solo successivamente, dunque, la sopravvenuta modifica dell’art. 191 c.c., comma 2, per effetto della L. 6 maggio 2015, n. 55, art. 2, ha sancito che, “nel caso di separazione personale, la comunione tra i coniugi si scioglie nel momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero alla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purché omologato. L’ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati è comunicata all’ufficiale dello stato civile ai fini dell’annotazione dello scioglimento della comunione” (trattasi di disposizione applicabile, giusta l’art. 3 della stessa legge, ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore di quest’ultima anche nei casi in cui il procedimento di separazione che ne costituisce il presupposto risulti ancora pendente alla medesima data).
2.4. Tanto premesso, Cass. n. 12098 del 1998, con specifico riferimento ai negozi di acquisto di beni immobili (o mobili registrati) contenenti la dichiarazione del coniuge acquirente del proprio status di separato, ebbe a negare la necessità, ai fini dell’opponibilità ai terzi degli effetti dello scioglimento della comunione derivante dalla separazione personale dei coniugi, dell’annotazione del provvedimento di separazione a margine dell’atto di matrimonio, ritenendo sufficiente (e necessario), al suddetto fine, la trascrizione della relativa nota, recante l’indicazione della corrispondente circostanza, nei registri immobiliari.
2.4.1. Pur dando compiutamente atto delle contrastanti opinioni e soluzioni sul punto manifestatesi in dottrina e nelle decisioni di merito, per giungere alla descritta soluzione prescelta si rimarcò ivi, tra l’altro, che: i) per quanto riguarda la separazione personale dei coniugi, “*la pubblicità attuata mediante annotazione a margine dell’atto di matrimonio non ha grande rilievo pratico a causa di quella che efficacemente è stata definita la “volatilità” degli effetti della separazione stessa, compreso quello dello scioglimento della comunione, in quanto è sufficiente il solo fatto della riconciliazione a farli venire meno. Riconciliazione, tra l’altro, che non è soggetta ad alcuna forma di pubblicità mediante annotazione nei registri di stato civile*”; ii) seppure non ignorandosi le esigenze di tutela dei terzi che stanno alla base dell’orientamento da essa disatteso, “tali esigenze sono adeguatamente soddisfatte dall’ordinario sistema pubblicitario (significativamente ritenuto da Corte Cost. n. 111/95, più accessibile ed affidabile di quello attuato con le annotazioni sui registri di stato civile) della trascrizione degli atti concernenti i singoli beni di maggior rilievo economico (immobili o mobili registrati), in ordine ai quali, prevalentemente, sussiste l’interesse dei terzi stessi, sembrando del tutto secondario, se non proprio puramente astratto e teorico, un autonomo interesse alla conoscenza del regime patrimoniale vigente, in sé e per sé”.
2.4.1.1. Ciò è oggi tanto più vero, ad avviso di questo Collegio, se si tengono presenti le modifiche arrecate all’art. 2659 c.c., dalla L. n. 52 del 1985, art. 1 (qui applicabile ratione temporis, venendo in rilievo trascrizioni eseguite successivamente alla sua entrata in vigore), che ha imposto l’indicazione, nella nota di trascrizione, del regime patrimoniale delle parti coniugate, quale risulta dalle dichiarazioni rese nel titolo o da certificazione dell’ufficiale di stato civile, così da lasciare intendere che, al fine di escludere l’applicazione del regime legale della comunione, le trascrizioni devono contenere le dichiarazioni dell’acquirente di essere legalmente separato/a dal/la coniuge.
2.4.1.2. D’altra parte, come ancora si legge nella menzionata Cass. n. 12098 del 1998, “le esigenze di tutela dei terzi di non minore importanza sussistono anche in relazione agli acquisti di beni personali ai sensi dell’art. 179 c.c. e nessuno dubita che in tal caso tali esigenze siano adeguatamente soddisfatte dalla trascrizione ex art. 2647 c.c., senza che sia necessario procedere ad annotazione dell’acquisto a margine dell’atto di matrimonio”.
2.4.2. Va qui solo aggiunto che: i) la già descritta, sopravvenuta modifica dell’art. 191 c.c., comma 2, per effetto della L. 6 maggio 2015, n. 55, art. 2, non appare decisiva ai fini della decisione dell’odierna controversia, posto che, da un lato, nemmeno è dato sapere, in base a quanto ricavabile dalla sentenza impugnata e dai rispettivi atti introduttivi delle parti, se, e quando, nella specie, fosse stata comunque eseguita un’annotazione, nei registri dello stato civile, dell’avvenuto scioglimento della comunione legale determinato dall’intervenuta separazione personale dei coniugi A. – T. ; dall’altro, che è indiscutibile, in ogni caso, che nessuna annotazione era prevista, all’epoca della trascrizione per cui è causa, per la dichiarazione o per il “fatto” della riconciliazione (invero, solo l’art. 69 del successivo D.P.R. n. 396 del 2000, ha previsto l’annotazione, a margine dell’atto di matrimonio, delle dichiarazioni con le quali i coniugi separati manifestano la loro riconciliazione), sicché l’informazione pubblicitaria in materia di separazione sarebbe rimasta inevitabilmente incompleta, se non addirittura fuorviante. Ciò tenuto altresì conto del fatto che, in relazione agli effetti della riconciliazione e, precisamente, se questa comporti, o meno, il ripristino della comunione legale, sono state prospettate plurime opinioni (cfr., amplius, la ricostruzione che se ne rinviene in Cass. n. 11418 del 1998), su cui, peraltro, non è necessario indugiare ulteriormente in queste sede posta la sua irrilevanza (mai essendo stata dedotta un’intervenuta riconciliazione tra la A. ed il T. ) ai fini della odierna decisione; ii) un soggetto legalmente separato è, e rimane, “coniugato” fino alla cessazione degli effetti civili del matrimonio a seguito della sentenza di divorzio, ovvero all’eventuale scioglimento o annullamento del matrimonio medesimo per le cause rispettivamente previste. Di conseguenza, come desumibile dalla circolare del Ministero delle Finanze del 2 maggio 1995, n. 128, nel modello di nota di trascrizione ivi esplicato, nella corrispondente casella, nell’indicare il proprio regime patrimoniale, si utilizzerà la lettera “C”, se trattasi di soggetto in regime di comunione legale o convenzionale, oppure la lettera “S”, se trattasi di soggetto in regime di separazione.
2.5. In conclusione, pure allo stato della disciplina positiva attuale, il rapporto tra le riportate previsioni novellate di cui all’art. 2659 c.c., comma 1 e art. 191 c.c., commi 1 e 2, deve spiegarsi nel senso che, tra i coniugi già in regime di comunione legale dei beni, non diviene di proprietà comune l’immobile acquistato da uno solo di essi dopo la loro separazione personale, quest’ultima costituendo causa di scioglimento della comunione medesima con la decorrenza prevista dall’art. 191 c.c., comma 2; invece, per l’opponibilità ai terzi dei descritti effetti dello scioglimento della comunione legale derivante dalla separazione personale dei coniugi, relativamente all’acquisto di beni immobili o mobili registrati, avvenuto con dichiarazione del coniuge acquirente dello stato di separazione, deve considerarsi necessaria e sufficiente la sola trascrizione nei registri immobiliari recante la corrispondente indicazione (cioè l’esistenza di un regime patrimoniale di separazione dei beni), indipendentemente dall’annotazione del provvedimento di separazione a margine dell’atto di matrimonio.
2.5.1. Nella specie, dunque, alla data (18.10.1995) del descritto acquisto della A. , l’avvenuto scioglimento, ex art. 191 c.c., comma 2, della comunione legale tra quest’ultima ed il marito T.P. , da cui si era precedentemente separata nel febbraio del 1994, seppure verificatosi, non era, però, opponibile ai terzi (il Fallimento di T.P. successivamente dichiarato nel 2006), pacificamente non risultando l’indicazione dello stato di separazione personale tra i menzionati coniugi (rectius: del loro regime patrimoniale di separazione dei beni, conseguente alla intervenuta separazione personale) dalla relativa nota di trascrizione, ed essendo intervenuta solo nel 1998, mediante annotazione della relativa Delibera, l’opzione dei medesimi coniugi per il diverso regime (rispetto a quello della comunione legale scelto al momento del matrimonio) della separazione dei beni. Affatto correttamente, quindi, la corte di merito, respingendone il gravame, ha confermato il rigetto della domanda della A. volta ad ottenere, nei confronti della curatela del fallimento suddetto, la declaratoria di sua esclusiva proprietà dell’immobile sito in (*) .

2.6. A tali conclusioni non è certamente di ostacolo la circostanza, pure invocata dalla odierna ricorrente, dell’avvenuta trascrizione dell’acquisto predetto esclusivamente in suo favore (e non anche del T. ), atteso che, quanto ai soggetti a favore o a carico dei quali deve essere eseguita la trascrizione, dall’art. 2659 c.c., n. 1, emerge che i soggetti della trascrizione non possono che essere le parti dell’atto da trascrivere. Questo principio si ritiene applicabile anche nel caso di acquisto effettuato da parte di un solo coniuge di bene ricompreso nell’oggetto della comunione legale, in quanto il coniuge estraneo all’atto d’acquisto è mero destinatario degli effetti legali dell’acquisto individuale, ma non parte del contratto da trascrivere. Non può, d’altra parte, condividersi la tesi secondo cui nel caso di acquisto individuale, da parte di un coniuge legalmente separato, il “titolo” dell’acquisto, di cui agli artt. 2657 e 2659 c.c., sarebbe costituito dall’atto di separazione legale, perché la nozione di “titolo” cui, nella specie, deve farsi ricorso è quella di atto che ha prodotto il mutamento giuridico in ordine al singolo bene oggetto della trascrizione (cfr. Cass. n. 7515 del 1986, richiamata, in motivazione, dalla successiva Cass. n. 12098 del 1998). Non c’è dubbio, allora, che il mutamento giuridico oggetto della trascrizione, nel caso di cui si tratta, è il trasferimento della proprietà dall’alienante al coniuge acquirente e tale effetto deriva dall’atto di acquisto, che, quindi, costituisce il titolo da presentare al conservatore dei registri immobiliari. Lo stato di separazione legale del coniuge acquirente, se riportato nella nota di trascrizione, non avrebbe rappresentato, dunque, la causa dell’acquisto della proprietà ma solo un elemento negativo della fattispecie acquisitiva, in quanto, escludendo l’operatività del regime legale della comunione, determinativo dell’estensione automatica dell’acquisto in testa al coniuge rimasto estraneo all’atto d’acquisto, avrebbe confermato che la proprietà era stata acquistata dal solo coniuge che ha partecipato all’atto.

2.6.1. Nè a diversa conclusione si deve pervenire per effetto della citata modifica dell’art. 2659 c.c., n. 1, disposta con la L. n. 52 del 1985, in quanto la necessità di indicare nella nota di trascrizione il regime patrimoniale del coniuge acquirente attiene alla disciplina della nota e non a quella del titolo, che resta pur sempre l’atto in base al quale si attua il trasferimento della proprietà del bene. Anzi, proprio dalla modifica legislativa di cui si tratta, che si limita ad imporre l’indicazione del regime patrimoniale, risultante dalla dichiarazione dei coniugi o dal certificato dello stato civile, resta confermato che, quando lo stato di separazione legale assume un qualche rilievo, non è necessario presentare al Conservatore dei registri immobiliari l’atto di separazione, ma è sufficiente l’indicazione della circostanza che il coniuge interessato alla trascrizione è legalmente separato perché, come si è già detto precedentemente, per stabilire se ed in quali limiti un determinato atto trascritto sia opponibile ai terzi deve aversi riguardo esclusivamente al contenuto della nota di trascrizione, senza necessità di esaminare anche il contenuto del titolo, che insieme con la nota, viene depositato presso la conservatoria dei registri immobiliari.

2.7. Va ricordato, infine, quanto alla censura motivazionale pure prospettata nella doglianza in esame, che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (formalmente invocato dalla A. ), – nella formulazione sancita dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012, qui applicabile ratione temporis risultando impugnata una sentenza pubblicata il 20 ottobre 2014 – riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito a un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni, sicché sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (cfr., ex aliis, Cass. n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017).
3. Il secondo motivo è inammissibile.

3.1. Invero, in tema di spese processuali, il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è limitato ad accertare che, come nella odierna fattispecie, non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi (cfr., ex multis, Cass. n. 24502 del 2017; Cass. n. 8421 del 2017; Cass. n. 15317 del 2013; Cass. n. 5386 del 2003).

  1. In conclusione, il ricorso deve essere respinto, potendosi procedere alla compensazione delle spese di questo giudizio di legittimità in ragione della peculiarità dell’intera vicenda, altresì dandosi atto, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, “sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte del(la) ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto”, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese di questo giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della A. , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusta dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Depositato in cancelleria il 13 gennaio 2021.[:]

[:it](Cass. civ., sez. III, sent. 23 dicembre 2020, n. 29469)

Il paziente ha sempre diritto di rifiutare le cure mediche che gli vengono somministrate, anche quando tale rifiuto possa causarne la morte.

Tale principio, ormai radicato nella giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. Civ. 23676/2008), ha comunque un limite: il dissenso alle cure mediche, per essere valido ed esonerare così il medico dal potere-dovere di intervenire, deve essere espresso, inequivoco ed attuale: non è sufficiente, dunque, una generica manifestazione di dissenso formulata “ex ante” ed in un momento in cui il paziente non era in pericolo di vita, ma è necessario che il dissenso sia manifestato ex post, ovvero dopo che il paziente sia stato pienamente informato sulla gravità della propria situazione e sui rischi derivanti dal rifiuto delle cure.

Sulla base di tale principio, con l’ordinanza in oggetto, è stato riconosciuto il diritto di un paziente, testimone di Geova, di rifiutare la terapia trasfusionale anche in presenza precedente consenso al trattamento sanitario.

La pronuncia è scaturita dal ricorso di una donna, Testimone di Geova, che aveva agito in giudizio per chiedere il risarcimento danni e la restituzione di quanto corrisposto per l’opera professionale dei medici. In particolare, la domanda è sorta in quanto, in occasione del parto effettuato con taglio cesareo, a seguito di un’emorragia erano state eseguite trasfusioni di sangue, nonostante la contrarietà manifestata dalla donna.

Nei primi due gradi di giudizio, Tribunale e Corte d’Appello avevano ritenuto che non vi fosse stato un espresso, inequivoco e attuale dissenso all’emotrasfusione e ciò poiché, l’accettazione dell’intervento di laparotomia esplorativa, implicava – secondo i giudici di merito – l’accettazione di tutte le sue fasi, ivi compresa la necessità di trasfusioni in caso di pericolo di vita.

La Suprema Corte ha invece ritenuto che la paziente aveva il diritto di rifiutare l’emotrasfusione anche con dichiarazione formulata prima del trattamento sanitario e che l’accettazione dell’intervento di laparotomia esplorativa non avesse implicato anche l’accettazione dell’emotrasfusione.

La Suprema Corte ha dunque fissato il seguente principio di diritto: «Il paziente Testimone di Geova, che fa valere il diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario, a tutela della libertà di professare la propria fede religiosa, ha il diritto di rifiutare l’emotrasfusione pur avendo prestato il consenso al diverso trattamento che abbia successivamente richiesto la trasfusione, anche con dichiarazione formulata prima del trattamento medesimo, purché dalla stessa emerga in modo inequivoco la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita».

La pronuncia impugnata è stata pertanto annullata con rinvio alla Corte d’ Appello di Milano.

Quanto alla responsabilità dei sanitari, dato uno sguardo a quanto stabilito dalla Legge n. 219/2017, la sentenza chiarisce che «la posizione del medico non è esente da garanzie in circostanze come quella del caso di specie».

In pratica, «prestare il consenso a un intervento chirurgico, al quale è consustanziale il rischio emorragico, con l’inequivoca manifestazione di dissenso all’esecuzione di trasfusione di sangue ove il detto rischio si avveri, significa esigere dal medico un trattamento sanitario contrario, oltre che alle buone pratiche clinico-assistenziali, anche alla deontologica professionale». Dunque, spiega la Cassazione, a fronte di tale determinazione del paziente, il medico non ha obblighi professionali.

Avv. Claudia Romano

 

Clear plastic bottle on white metal frame

 

 

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[:it]Two hand exchanging twenty jordanian dinars

Il caso

Con sentenza del 4 dicembre 1987, il Tribunale di Taranto dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ponendo a carico del padre il versamento di un contributo al mantenimento delle due figlie sino al termine degli studi universitari.

Nonostante le due figlie della coppia avessero conseguito la laurea e si fossero altresì sposate, rispettivamente nel 1994 e nel 1998, l’ex moglie notificava all’ex marito, in data 3 maggio 2006, un precetto di pagamento per il pagamento del mantenimento relativo agli ultimi 5 anni.

L’ex marito versava spontaneamente l’importo precettato, promuovendo successivamente un giudizio volto alla restituzione di quanto pagato, chiedendo in subordine il risarcimento del danno per appropriazione indebita.

I giudizi di primo e secondo grado

Il Giudice di prime cure, rigettava la domanda restitutoria, accogliendo, di contro, quella subordinata.

La pronuncia veniva impugnata da ambedue i coniugi.

La Corte d’Appello di Lecce, pronunciandosi sui due gravami:

  • rigettava quello del marito, ritenendo infondata la pretesa restitutoria “…sul presupposto che il suo obbligo contributivo fosse venuto meno solo con il provvedimento del Tribunale del 2 maggio 2007 che ne aveva decretato la cessazione a decorrere dal 13 ottobre 2006”;
  • accoglieva, di contro, quello della moglie e rigettava la domanda risarcitoria del marito “…escludendo l’ipotizzata appropriazione indebita sia perché la (moglie) aveva percepito le somme in forza di un titolo giudiziale, sia perché l’ipotizzato danno era riconducibile al comportamento inerte dello stesso (marito) il quale solo nell’ottobre 2006 si era attivato per la modifica delle statuizioni patrimoniali inerenti al divorzio”.

Il ricorso per Cassazione

Avverso detta sentenza ricorreva sino in Cassazione l’ex marito, dolendosi dell’esclusione del carattere indebito, ai sensi dell’art. 2033 c.c., del pagamento “essendo il vincolo obbligatorio, cioè la causa giustificativa del pagamento stesso, cessato quanto meno dal 1994 al 1998”.

Gli ermellini accolgono il ricorso del marito, offrendo i seguenti condivisibili chiarimenti:

  • sulla base dell’accordo raggiunto dai genitori in sede di divorzio, l’obbligo di mantenimento delle figlie da parte del padre era venuto meno a seguito del conseguimento del diploma di laurea;
  • la circostanza che il procedimento di revisione delle condizioni di divorzio sia stato introdotto dall’ex marito solo successivamente, “…non impedisce la proposizione dell’azione restitutoria delle somme corrisposte indebitamente, a norma dell’art. 2033 c.c. che ha portata generale e si applica a tutte le ipotesi di inesistenza, originaria o sopravvenuta, del titolo di pagamento, qualunque ne sia la causa”;
  • “…l’irripetibilità delle somme versate dal genitore obbligato all’ex coniuge si giustifica solo ove gli importi riscossi abbiano assunto una concreta funzione alimentare, che non ricorre ove ne abbiano beneficiato figli maggiorenni ormai indipendenti economicamente in un periodo in cui era noto il rischio restitutorio” (in senso conforme Cass. civ. n°11489/2014).

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[:it]

(Cassazione Civile ordinanza n. 28723 del 16 dicembre 2020)

L’evoluzione del diritto di famiglia, allo stato dell’arte, si deve ancora occupare della portata e dei confini entro i quali circoscrivere il concetto di bigenitorialità, introdotto dalla legge n. 54 del 2006.

In cosa consiste il principio di bigenitorialità?

Il principio di bigenitorialità è il principio etico in base al quale un bambino ha una legittima aspirazione, vale a dire, un legittimo diritto a mantenere un rapporto stabile e tendenzialmente paritetico con entrambi i genitori, anche se gli stessi siano separati o divorziati.

Questo diritto si basa, in questa impostazione, sul fatto che essere genitori è un impegno che si prende nei confronti dei figli e non dell’altro genitore, per il quale non può e non deve essere condizionato da un’eventuale separazione e su questo diritto non si può fare ricadere la responsabilità di scelte separative dei genitori.

In altre parole la bigenitorialità non implica che si trascorra uguale tempo con entrambi i genitori, ma significa partecipazione attiva da parte di entrambi i genitori nel progetto educativo, di crescita, di assistenza della prole, in modo da creare un rapporto equilibrato che in nessun modo risenta dell’evento della separazione.

Il principio di bigenitorialità, in presenza di separazione e di divorzio dei coniugi, si trasforma nel dovere del giudice di preferire sempre l’affido condiviso della prole anziché quello esclusivo.

Il compito dell’organo giudicante diventa particolarmente difficile quando sul piano pratico si verifica l’esistenza di una situazione di conflitto tra i genitori, alimentata da una competitività esasperata, tesa a distorcere le finalità dell’istituto attraverso sopraffazioni di carattere egoistico idonee a sacrificare le aspirazioni di esistenza dei figli.

In un simile contesto si pone un’ordinanza della Suprema Corte di Cassazione (Corte di Cassazione, Prima Sezione Civile, con ordinanza n. 28723 del 2020), con la quale la Corte ha affermato che gli atteggiamenti ostruzionistici di un genitore che ostacolano il rapporto padre-figlio ledono il diritto alla bigenitorialità del minore e possono comportare una decadenza dalla responsabilità genitoriale.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da un padre innanzi al Tribunale per i Minorenni di Firenze affinchè fosse dichiarata la decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre del figlio minore in comune e l’allontanamento di quest’ultimo dall’abitazione materna.

Ciò in quanto la stessa ostacolava i rapporti padre-figlio, generando una situazione di alienazione parentale (cd. PAS, Parental Alienation Syndrome).

Il Tribunale rigettava, tuttavia, le richieste, inducendo l’uomo ad impugnare tale decisione davanti alla Corte d’Appello. Ma anche in questa sede, l’uomo vedeva rigettate le sue domande.

Il padre proponeva dunque ricorso per Cassazione, lamentando – in particolare – l’erroneità della decisione della Corte d’appello, che si era focalizzata sull’incapacità del padre di relazionarsi con il figlio senza prendere in considerazione i comportamenti posti in essere dalla madre per allontanare la figura paterna dal figlio.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza in oggetto ha invece accolto i motivi principali del ricorso di un padre, ribadendo l’importanza della tutela del diritto dei minori alla bigenitorialità, da intendersi, come più volte interpretato dalla giurisprudenza della Corte Edu, anche come rigoroso controllo, delle autorità giudiziali nazionali, sulle restrizioni supplementari, ovvero quelle apportate dalle autorità al diritto di visita dei genitori, e sulle garanzie giuridiche destinate ad assicurare la protezione effettiva del diritto dei genitori e dei figli al rispetto della loro vita familiare, di cui all’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, onde scongiurare il rischio di troncare le relazioni familiari tra un figlio in tenera età ed uno dei genitori.

Avv. Claudia Romano

Man woman and girl walking near trees[:]

[:it]White christmas bauble and turned-on string lights on christmas tree

Gentili Clienti,

lo Studio Legale Martignetti – Romano rende noto che resterà chiuso durante le vacanze natalizie:

– da giovedì 24 dicembre 2020 (a partire dalle ore 13:30) a domenica 27 dicembre 2020;

– venerdi 1° gennaio 2021;

– mercoledi 6 gennaio 2021

Per urgenze vi invitiamo a contattarci ai seguenti recapiti:

– avv. Maria Martignetti 339/119.57.27;

– avv. Luigi Romano 333/444.67.07;

– avv. Claudia Romano 345/92.36.551.

Con l’occasione auguriamo ai nostri clienti e ai loro familiari l’augurio di un sereno Natale e di un felice anno nuovo.

avv. Luigi Romano       avv. Maria Martignetti            avv. Claudia Romano    avv. Marzia Capomagi                       p. avv. Michela Terella           dott. Marco Rossi     dott.ssa Nikoleta Kollarova

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[:it](Cass. Civ., Sez. I, Ord., 11 dicembre 2020, n. 28330)

L’azione di riconoscimento di paternità (articolo 269 c.c.) è un’azione attribuita al figlio naturale nei confronti del presunto genitore, volta ad ottenere un provvedimento giudiziale che produca gli stessi effetti del riconoscimento.

L’oggetto dell’accertamento è il dato biologico della procreazione e la paternità può essere provata con ogni mezzo.

Tale prova sarà, essenzialmente, per presunzioni, essendo in pratica quasi impossibile fornire la diretta dimostrazione di un fatto intimo e riservato come il concepimento ad opera del preteso padre.

Grande importanza, ormai, viene riconosciuta alle prove ematologiche e genetiche, che permettono di individuare la paternità con un’attendibilità superiore al 99,9%.

La parte – che può essere anche un parente (pure collaterale) del preteso genitore ormai defunto – resta libera di sottrarsi ai prelievi necessari per l’esperimento probatorio ma dalle motivazioni di tale rifiuto il giudice potrà trarre un elemento di prova, il quale, sebbene di valore indiziario, quasi sempre supporterà, anche da solo, adeguatamente la dichiarazione di paternità (o maternità) naturale.

In particolare, la Suprema Corte ha più volte ribadito che «nel giudizio promosso per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il rifiuto ingiustificato del padre di sottoporsi agli esami ematologici può essere liberamente valutato dal giudice, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., comma 2, anche in assenza di prova dei rapporti sessuali tra le parti, non derivando da ciò nè una restrizione della libertà personale del preteso padre, che conserva piena facoltà di determinazione in merito all’assoggettamento o meno ai prelievi, nè una violazione del diritto alla riservatezza, essendo rivolto l’uso dei dati nell’ambito del giudizio solo a fini di giustizia, mentre il sanitario, chiamato a compiere l’accertamento, è tenuto al segreto professionale ed al rispetto dalla disciplina in materia di protezione dei dati personal» (Cass. Sentenza n. 11223 del 21/05/2014).

Da tale premessa, con l’ordinanza in esame che Corte trae l’effetto che il comportamento processuale della parte può costituire anche unica e sufficiente fonte di prova e di convincimento del giudice e non solo elemento di valutazione delle prove già acquisite al processo.

I giudici di legittimità hanno inoltre, ricordato i principi di diritto applicabili nelle ipotesi di promovimento, da parte del figlio non riconosciuto, dell’azione di dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità, con contestuale richiesta di condanna della parte convenuta al risarcimento del danno da privazione della figura genitoriale.

L’ordinanza infatti precisa che «l’accertamento dello status di figlio naturale costituisce il presupposto per l’esercizio dei diritti connessi a tale status, perché prima di tale momento non vi è pronuncia sullo status».

Pertanto, la domanda risarcitoria da parte del figlio e quella di rimborso delle spese sostenute per il mantenimento del figlio da parte del genitore coobbligato presuppongono tale accertamento e non sono utilmente azionabili se non dal momento in cui diviene definitiva la sentenza di accertamento della filiazione naturale, che conseguentemente costituisce il dies a quo della decorrenza della ordinaria prescrizione decennale.

Avv. Claudia Romano

 

Man and boy runs on shore[:]

[:it](Cass. Civ., Sez. I, Ord., 30 novembre 2020, n. 27235)

Il vincolo del matrimonio impone ai coniugi il dovere di condividere il tetto coniugale e convivere nella stessa casa, salvo siano presenti altre esigenze, ad esempio di carattere lavorativo.

Quando però il matrimonio attraversa una grave crisi, succede spesso che uno dei due coniugi decida di allontanarsi dalla casa coniugale, prima della separazione.

Tuttavia, l’allontanamento dalla casa coniugale è legittimo solo in presenza di valide motivazioni, l’assenza delle quali può far sorgere una pronuncia di addebito della separazione, con attribuzione della responsabilità della separazione a carico del coniuge che si è allontanato ed esclusione del suo diritto ad un assegno di mantenimento.

Con l’ordinanza in esame, lo scorso 30 novembre, la Corte di Cassazione ha confermato l’addebito di una separazione a un marito che aveva abbandonato il tetto coniugale disinteressandosi della grave forma di autismo di cui era affetta la figlia, escludendo che la crisi del rapporto coniugale potesse essere addebitato all’ingerenza dei suoceri in merito a scelte terapeutiche riguardanti i genitori e la minore.

Sul merito della questione aveva statuito, inizialmente, il Tribunale di Roma che, pronunciandosi sulla separazione personale dei coniugi, aveva accolto la domanda di addebito a carico del marito, l’obbligandolo altresì a corrispondere all’ex moglie un assegno mensile di mantenimento.

La Corte d’appello di Roma, rigettando il gravame del marito, aveva poi confermato le statuizioni relative all’addebito.

Il marito, da ultimo, ricorrendo in Cassazione, aveva denunciato violazione e falsa applicazione dell’ art. 151 comma 2, c.c. in punto di addebitabilità della separazione, dolendosi in particolare per non aver la Corte di merito valutato attentamente il contenuto delle diverse deposizioni testimoniali, dalle quali sarebbe, in realtà, emerso che la frattura coniugale era da ricollegare alla eccessiva ingerenza dei genitori della moglie, non sufficientemente contrastata da quest’ultima.

La Suprema Corte rigettava il ricorso del marito, rilevando come un nuovo accertamento di merito sui presupposti della pronuncia di addebito avrebbe l’esecuzione di un nuovo accertamento di fatto precluso in sede di legittimità.

In punto di diritto la Corte di legittimità ha quindi confermato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale «l’abbandono della casa familiare, di per sé costituisce violazione di un obbligo matrimoniale, a prescindere dalla prova della asserita esistenza di una relazione extraconiugale in costanza di matrimonio. Difatti, il volontario abbandono del domicilio coniugale è causa di per sé sufficiente di addebito della separazione, in quanto porta all’impossibilità della convivenza, salvo che chi ha posto in essere l’abbandono provi che esso è stato determinato dal comportamento dell’altro coniuge, ovvero quando il suddetto abbandono sia intervenuto nel momento in cui l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza si sia già verificata, ed in conseguenza di tale fatto».
Avv. Claudia Romano

 

 

Brown and black concrete road[:]

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